In questi tempi cupi e turbolenti, flagellati da problemi che paiono irresolubili, dalle impennate ingovernabili dello spread, alle tragedie dei migranti che non smettono di considerare l'Europa e incredibilmente l'Italia come un posto nel quale sarebbe auspicabile vivere – a dispetto quasi unanime di chi ci vive già -, alla maleducazione internazionalmente esibita di Donald Trump, è sorprendente che l'operetta non abbia un successo anche maggiore di quello che ha. La vedova allegra, andata in scena al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, è infatti un formidabile dispositivo non tanto di “rimozione”, quanto di “conciliazione” con una realtà che presenta tratti disperati. L'operetta di Franz Lehár ha la capacità delle grandi opere d'arte di alienare lo spettatore dalla sua condizione di sofferente imperfezione, proiettandolo in un universo finzionale dove tutto è finalmente come dovrebbe essere, le donne sono “eterni dei” furbi e seduttivi, e gli uomini, se non proprio disinteressati, almeno capaci di mascherare un'attrazione irresistibile verso il denaro con la grazia di viveur bennati dalle maniere impeccabili. Ma non ci si inganni : la vicenda dell'allegra e ancor più accorta vedova Hanna Glawari, cittadina dell'immaginario stato del Pontevedro, non è la storia del piccante incrociarsi di amori e infedeltà all'ombra delle grisette di Maxim's, di un amore perduto e ritrovato grazie all'intercessione di una provvidenziale vedovanza, ma una cruda storia di decadenza dove la ricchezza è il primo e più prezioso appannaggio strappato a un'aristocrazia in agonia. Il “punto di vista” dell'azione, cioè l'ottica etica rispetto al quale viene orientata la narrazione, è quella dell'aristocrazia europea fin de siècle, che realizza di essere stata sconfitta non dalla lontana ghigliottina sanculotta, che casomai l'aveva sfrondata dei rami morti, ma dall'implacabile alleato della trionfante borghesia ottocentesca : il denaro. Nello spietato braccio di ferro che oppone sottotraccia l'allegra vedova borghese Hanna all'aristocratico celibe Danilo Danilowitsch, che si dedica scrupolosamente a quello che un uomo della sua classe sociale dovrebbe sempre fare – “innamorarsi spesso, fidanzarsi qualche volta, sposarsi mai”, ma soprattutto vivere di rendita divertendosi -, va in scena la tragedia dell'aristocrazia europea che vede il proprio inesorabile tramonto e assiste incredula all'ascesa della potenza che la schiaccerà, non risparmiandole nessuna umiliazione. “Noi fummo i leoni, i gattopardi”, lamenta signorilmente nel Gattopardo il Principe Salina, prevedendo anche che dopo i nobili sarebbero arrivati “i lupi e le iene”: nel Pontevedro i lupi sono arrivati, sono affamati di aristocratici lombi e hanno le fattezze della vedova Glawari che tiene nei suoi artigli da nuova ricca il futuro dello stato. Tutto quello che l'aristocrazia sapeva fare – vivere in maniera elegante, sapere come ci si rivolge a una signora, salvare a qualunque costo le apparenze sociali, passare da una festa all'altra stordendosi di divertimenti – non conta più niente a petto dei soldi, che nella Vedova allegra comprano tutto : la rispettabilità, l'ammirazione dei pontevedrini e perfino – se si guarda il vero rapporto di forza tra i personaggi – l'orgoglioso conte Danilowitsch.
Se questo è l'argomento profondo dell'operetta, si deve al genio dei librettisti e soprattutto di Lehár la soavità di cui viene rivestita la vicenda, l'incanto che promana dall'opera, la levità ammiccante con cui si allude al vero tema che non arriva mai a pronunciarsi come tale perché sempre preterito dalle dinamiche amorose dei protagonisti. In questo senso, la messa in scena del Teatro Vittorio Emanuele di Messina ha giustamente privilegiato l'aspetto dello splendore mondano che promana dalla Vedova, con il desiderio palpabile degli accoliti d'ambasciata di godere fino all'ultimo le braci della propria grandeur, con i suoi cancan irresistibili, con le feste dove le signore indossano abiti da sogno, con la più bella melodia mai associata a un valzer (e la concorrenza è agguerrita…). Victor Carlo Vitale, che ha curato adattamento (apprezzatissimo dal pubblico), regia e luci, immagina uno spettacolo godibile ed equilibrato, in buona parte affidato alle solide spalle di Giancarlo Ratti, mattatore nel ruolo di Njegus. Il Direttore Giuseppe Ratti ha la tendenza a far suonare l'orchestra sempre troppo forte, ma amalgama bene il suono della compagine orchestrale ed è puntuale nei numeri celeberrimi dell'opera. Hanna Glawari è Maria Francesca Mazzara : talentuosa, musicale, precisa. Il guaio è però che in un'opera dove sono previsti i dialoghi, il timbro della sua voce quando parla è sgradevole, e si aspetta con ansia il momento in cui ricomincerà a cantare. Federico Veltri è un apprezzabile Danilo Danilowitsch, Manuela Cucuccio una frizzante Valencienne, Marco Miglietta, con slancio sentimentale, il suo innamorato Camillo de Roussillon ; Mirko Zeta, l'efficace Paolo Buffagni, dà corpo insieme al suo attaché Njegus all'epicentro buffo dell'operetta ; discreti anche i comprimari (Alessandro Vargetto, Riccardo Palazzo, Alberto Crapanzano, Davide Scigliano, Francesca Morabito). Personale e travolgente successo per Giancarlo Ratti, Njegus, che dalla platea ha animato anche un intermezzo tra il secondo e il terzo atto, coinvolgendo le persone in sala in una serie di gag. È sempre sorprendente come l'abbattimento inatteso della barriera tra palcoscenico e pubblico sortisca su quest'ultimo un effetto assolutamente elettrizzante, in cui un'esaltazione impudica e infantile per essere stato scelto come protagonista si mischia alla consapevolezza che quello che sta andando in scena, per quanto secolarizzato, è effettivamente un rito, e che il qui e ora del teatro è quanto ci resta del cerchio magico in cui, agli inizi del mondo, i sacerdoti racchiudevano la comunità in attesa vibrante dell'istante in cui un gesto numinoso, all'improvviso, si rivelava capace di fermare il tempo.
Buongiorno,
vedo l'immagine della Vs. copertina e foto pubblicata sul Vs. sito, senza citare l'autore dello scatto.
Vi chiedo di scrivere il credit : ph. Elisabetta Saija.
Cordiali saluti.
Elisabetta Saija
Grazie alla Signora Zara Zurletti, per l'attenta e scrupolosa recensione.