Richard Wagner (1813–1883)
Lohengrin (1850)
Romantische Oper in drei Akten
Libretto del compositore
Prima il 28 agosto 1850, Hoftheater di Weimar, sotto la direzione di Franz Liszt

Direttore : Michele Mariotti
Regia : Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi  Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Drammaturgo Mattia Palma

Heinrich der Vogler Clive Bayley
Lohengrin Dmitry Korchak
Elsa von Brabant Jennifer Holloway
Friedrich von Telramund  Tómas Tómasson
Ortrud  Ekaterina Gubanova
Der Heerrufer des Königs Andrei Bondarenko
Vier Brabantische Edle Alejo Álvarez Castillo *, Dayu Xu *, Guangwei Yao *, Jiacheng Fan *
Vier Edelknaben Mariko Iizuka, Cristina Tarantino, Silvia Pasini, Caterina D’Angelo

*dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma                                                                      

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del Coro Ciro Visco 

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia e Teatro La Fenice di Venezia

 

Roma, Teatro Costanzi, venerdì 5 dicembre 2025, ore 18:00

Quale teatro lirico in Italia può vantarsi di aver ospitato nella scorsa stagione Romeo Castellucci, Peter Sellars, Deborah Warner, Calixto Bieito e di ospitare nel 2025–2026 Damiano Michieletto, David Hermann con due produzioni, Claus Guth, Robert Carsen, Emma Dante, anche se dovremo sopportare il meno stimolante Davide Livermore… Quale teatro lirico, in una stagione complementare al Teatro Nazionale, propone un programma dedicato al centenario di Hans Werner Henze per quattro serate ?

È l'Opera di Roma, il « Teatro dell'Opera » diventato il più fantasioso dei teatri lirici italiani, il più aperto con un pubblico vero, storicamente vittima delle vicissitudini di questa istituzione che passa alternativamente dall'ombra alla luce e che da alcuni anni, con Carlo Fuortes e ora con Francesco Giambrone, ha ritrovato una vera vita teatrale, correndo dei rischi e proponendo al pubblico registi applauditi in tutta Europa, ma che non avevano mai lavorato in Italia, come Krzysztof Warlikowski, che ha realizzato la sua prima regia lirica in Italia (De la maison des morts), prima di presentare a Napoli il dittico Barbe-Bleue/Voix humaine.

Ma l'apertura si legge anche con un repertorio ampliato, mentre tradizionalmente era un teatro molto radicato nel repertorio tradizionale italiano… E l'apertura della stagione dedicata al Lohengrin di Wagner ne è la prova.

Lohengrin non è propriamente una rarità a Roma, essendo stato rappresentato al Costanzi dal 1893 (e regolarmente a Caracalla fino al 1968), ma il titolo mancava dal 1975… E allo stesso tempo segna l'ingresso nel mondo wagneriano di Michele Mariotti, il direttore musicale finora applaudito ovunque per i suoi Rossini e Verdi, o per le sue magnifiche direzioni belcantistiche (la sua Norma viennese…).
E la produzione firmata Damiano Michieletto, molto più elaborata del suo Falstaff di Dresda, fa quasi il tutto esaurito ogni sera, nonostante le critiche, con un cast piuttosto lusinghiero dominato dal nuovissimo Lohengrin di Dmitri Korchak, che debutta anche lui in Wagner, dopo aver trionfato per anni come tenore (e direttore d'orchestra) rossiniano.
È per salutare questo dinamismo che abbiamo voluto vedere questo
Lohengrin, incoraggiando il lettore a considerare Roma per tutto ciò che la rende affascinante, ma anche per la musica, perché se si combina una serata d'opera al Costanzi e un concerto a Santa Cecilia (oggi diretta da Daniel Harding), si avrà un'idea molto bella del dinamismo musicale italiano .

 

 

Lohengrin è considerata l'opera più « italo-compatibile » della produzione wagneriana. Innanzitutto, è la prima opera di Wagner rappresentata in Italia, a Bologna nel 1871, tra l’altro alla presenza di Verdi. In secondo luogo, è il titolo in cui si sono illustrati (nella versione italiana) grandi tenori che ne hanno fatto, in Italia, uno dei loro cavalli di battaglia, come Aureliano Pertile, che bisogna assolutamente ascoltare nelle vecchie registrazioni perché è senza dubbio uno dei grandi Lohengrin della storia di quest'opera.
Spesso è proprio con Lohengrin che i direttori italiani si avvicinano a Wagner, come nel caso di Claudio Abbado alla Scala nel 1981 (nella meravigliosa produzione di Strehler)[1] e Michele Mariotti coglie qui l'occasione di un titolo assente a Roma da 50 anni per continuare il paziente lavoro di ampliamento del suo repertorio personale (vedi l'intervista che ci ha concesso alcuni mesi fa).

Lohengrin non è la più facile delle opere di Wagner ed è senza dubbio una delle più politiche : tratta la questione sempre attuale dell'uomo provvidenziale. In un Brabante minacciato e senza protettori, l'arrivo di Lohengrin, salvatore inaspettato, cancella tutte le ambiguità del personaggio, in nome della ragion di Stato. Ambiguità che non mancano di sottolineare Ortrud e Telramund, che rappresentano in qualche modo un antico ordine religioso (il paganesimo, per Ortrud) o sociale (Telramund, la vecchia cavalleria). Ma Lohengrin arriva come un salvatore cavalleresco e spirituale, di un altro ordine, e chiede un'adesione cieca.

È anche interessante notare che il primo castello costruito dal re Ludwig di Baviera, a partire dal 1869, è Neuschwanstein (letteralmente, la nuova roccia del cigno), vicino al palazzo di famiglia di Hohenschwangau (Schwangau : il dominio del Cigno), e che la decorazione di Neuschwanstein attinge ampiamente dalla storia di Lohengrin, che Ludwig aveva visto nel 1861. Era quindi il re salvatore (lo fu anche per Wagner) e allo stesso tempo un ammiratore sfegatato di Luigi XIV. Sognava di essere un salvatore e un sole, come dimostra l'ultimo castello incompiuto, Herrenchiemsee, replica del corpo centrale di Versailles (e unico luogo dove si può vedere a grandezza naturale quella che era la Scala degli Ambasciatori, distrutta a Versailles…): attraverso le fantasie di Ludwig, si può quindi immaginare cosa sia l'adesione cieca a un salvatore “assoluto”…

Un popolo può affidarsi ciecamente a un uomo che proviene da un luogo sconosciuto, cioè dal nulla, e che rifiuta di dire il suo nome e le sue origini ? La questione è particolarmente attuale, nell'era dei social network, delle fake news e dei salvatori di ogni genere, e soprattutto in un'epoca di vagabondaggi politici e paure multiple.

Per cementare la questione, Wagner introduce la figura di Elsa, la giovane donna accusata da Telramund di aver annegato suo fratello Gottfried (ed erede al trono) di cui era il tutore, o almeno di averlo trascurato. Elsa è il capro espiatorio designato, come in tutte le buone crisi politiche… Attraverso Elsa, Wagner affronta tutte le questioni sollevate dal rapporto con Lohengrin, sostituendo alla questione politica sottesa quella amorosa : si può amare senza conoscere ? Ci si può donare ciecamente ? L'altro non può suscitare alcun dubbio ?

Quando Lohengrin, caduto dal cielo, si offre di aiutare Elsa, abbandonata da tutti, le propone subito il suo amore e l'unione, a condizione che lei non gli chieda il suo nome e la sua origine. La questione del nome dato alla persona amata è fondamentale nel mondo tragico e sacrale nel rapporto con la persona amata : ricordiamo Roland Barthes che definiva Fedra di Racine una « tragedia nominalista » nella misura in cui dare un nome significava far esistere
Œnone : Ippolito ? Per gli dei !
Fedra : Sei stata tu a dire il suo nome

Non conoscere il nome dell'amato e accettarlo nonostante tutto è un'adesione che va oltre l'amore terreno e impone una visione mistica.

È in questo che Lohengrin è « pericoloso » : chiede a Elsa e di conseguenza a tutti gli altri un'adesione mistica e incondizionata.
Si può quindi trattare Lohengrin come una storia cavalleresca e romantica, una storia alla Excalibur, un po' la scelta di Strehler un tempo, che appiana i problemi senza cancellarli : nelle fiabe si può aderire senza timore al principe bello e buono. Ma Lohengrin non è una fiaba.
Si può anche trattarla come una storia politica (l'unico vero tema politico di Wagner, insieme al suo Rienzi), o una storia di giustizia o di processo, come l'opzione (fallita) di Calixto Bieito a Berlino, o come quella di Hans Neuenfels a Bayreuth, particolarmente riuscita, che trasforma il popolo in un gruppo di topi da laboratorio ed Elsa in una martire della causa, trafitta da tutte le frecce di San Sebastiano.

Elsa (Annette Dasch) ©Jörg Schulze (Bayreuth 2015)

Ma si può anche trattarla concentrando l'attenzione sulla questione di Elsa e, più in generale, della donna, che qui non è trattata particolarmente bene da Wagner. È l'opzione scelta dall'ultima messa in scena di Yuval Sharon e Neo Rauch a Bayreuth. Se Elsa si dona a Lohengrin, ha il diritto di sapere chi è l'essere amato : l'amore non è adesione cieca, e soprattutto non è l'adesione cieca e forzata di una donna a un uomo che le negherebbe ogni libero arbitrio : è ciò che sostiene Ortrud nella loro messa in scena a Bayreuth, dove Lohengrin porta energia e luce, ma allo stesso tempo impone un « ordine ».

Infine, dal momento in cui Lohengrin esige un'adesione senza divisioni né dubbi, e quindi impone di non porre domande sulle sue origini, egli rende ovviamente questa questione l'elemento centrale della trama : quando si proibisce di porre una domanda, si suscita automaticamente il desiderio di porla. È un po' l'opzione scelta da Kornél Mundruczó a Monaco di Baviera, anche se l'ha trattata solo in parte.

Ci si chiede, in questa ampia gamma di possibilità drammaturgiche, quale scelta abbia fatto Damiano Michieletto nella sua prima incursione wagneriana. In realtà, egli sfiora ogni possibilità : c'è la politica, attraverso la visione di un Heinrich der Vogler invecchiato e privo di potere reale e quella di un popolo rinchiuso dietro un'alta palizzata, c'è anche la psicologia nel ritratto di un Telramund indebolito e devastato, c'è anche uno sguardo sulla donna, con l'opposizione piuttosto tradizionale tra Elsa e Ortrud, ma c'è soprattutto una sorta di visione astratta, simbolica, che caratterizza l'intero spettacolo, che fa del dubbio una sorta di chiave “mitologica” della storia con la presenza insistente dell'uovo, simbolo di chiusura, di mistero, di dubbio strutturale.

La colpa di Elsa è quella di aver rotto l'uovo, svelato il mistero e, in un certo senso (mi si perdoni questa piroetta sulla famosa espressione stalinista riguardo all'holodomor in Ucraina : « Non c'è una vera carestia, né morti per fame… Per dirla senza mezzi termini, non si può fare una frittata senza rompere le uova »). Elsa, o la frittata tragica…

Lo spazio tragico

Lo spazio ideato da Paolo Fantin, scenografo partner abituale di Michieletto, è piuttosto efficace : si tratta essenzialmente di una lunga parete di legno, una lunga palizzata ai piedi della quale alcune gradinate consentono al popolo di disporsi : è uno spazio chiuso, in un certo senso lo spazio chiuso wagneriano che si ritrova nel Tannhäuser (La Wartburg), nel Die Meistersinger von Nürnberg (Norimberga, appunto) o nel Parsifal (Il regno del Graal): cioè uno spazio ripiegato su se stesso, endogeno, quasi autofagico (in questo senso l'immagine dei topi da laboratorio di Hans Neuenfels era molto azzeccata a Bayreuth).

La disposizione dello spazio lo rende anche un sostituto del teatro, con il popolo disposto su alcune gradinate e i protagonisti al centro che recitano una sorta di dramma sacro.

La vasca da bagno…

E sullo spazio “di gioco”, che nel teatro greco sarebbe chiamato orchestra, spuntano alcuni simboli significativi, una vasca da bagno, che rappresenta il luogo dell'annegamento di Gottfried, una bara bianca, che ovviamente rappresenta la perdita del fratello con il rituale della morte che ne consegue, e di conseguenza la presenza permanente della morte, poi l'uovo sotto vetro, metallico, immenso, che guiderà “il senso” fin dal secondo atto, liberandosi dalla sua teca e moltiplicandosi fino a cadere come pioggia sulla scena alla fine del secondo atto.

Inizio del secondo atto : l'uovo sotto la teca : il dubbio ancora contenuto

Infatti, finché Lohengrin non appare con la sua fatale richiesta, la questione non si pone, e quindi nemmeno il dubbio. L'uovo-dubbio può apparire solo nel secondo e terzo atto.

Per Michieletto, l'uovo è il simbolo delle origini, che è il mistero stesso di Lohengrin. Quando arriva, nessuno deve sapere chi è e da dove viene, come quell'uovo di cui non si deve mai vedere l'interno. « Come se il cigno avesse deposto quell'uovo e quell'uovo rimane l’incognita », sottolinea nell'intervista al programma di sala. Quindi, sapere, porre la domanda significa rompere l'uovo, distruggere l'embrione che ospita e, in un certo senso, morire. Quando Elsa pone la domanda, rompe l'uovo, che si apre, rivela la verità e lascia fuoriuscire un liquido viscoso che segnala che tutto è finito. Come se in ogni uovo ci fosse la verità, come se la rivelazione della verità fosse mortale, come se la verità fosse la fine di tutte le cose.

Michieletto non pone la questione politica del valore dell'adesione cieca a Lohengrin. Interpreta il personaggio di Lohengrin come incaricato di ristabilire l'ordine, la giustizia e quindi il bambino : gli assegna una missione effettivamente mistica di fronte a tutti gli altri, compresa Elsa, che sono solo esseri umani. È così che rappresenta un Telramund che si suicida all'inizio del terzo atto, e che Ortrud, sconfitta alla fine, si annega nella folla e scompare, come restituita all'anonimato, annegata, trascinata via dalla folla tutta umana…

Elsa, dal canto suo, ha commesso l'errore, ha commesso la colpa – come sappiamo, il peccato viene sempre dalla donna… – ma allo stesso tempo ha sacrificato la sua vita futura con Lohengrin in nome di una conoscenza superiore, in nome della verità. Ha costretto Lohengrin a dire la verità, ma allo stesso tempo a restituire a questo mondo distrutto l'ordine che aspettava e il futuro re, Gottfried, che riceve la corona alla fine. È una sacrificata : è anche l'idea di Neuenfels quando appare trafitta dalle frecce.

Regia Neuenfels Bayreuth 2015 : Apparizione di Gottfried nell'uovo… Klaus Florian Vogt (Lohengrin) © Enrico Nawrath

Ma anche l'uovo è un'idea di Neuenfels, sfruttata a Roma in modo diverso, più esteticamente : il giovane Gottfried alla fine del Lohengrin di Neuenfels appare da un uovo rotto, feto trattenuto da un cordone ombelicale che poi distribuisce da divorare all'assistenza dei ratti affamati…

Ricordiamo anche – simbolo quando ci tieni, che l'ombelico del mondo a Delfi (« ὀμφαλός »/omfalos da cui deriva ombelicale) ha la forma di un uovo, come illustrano le foto di due « omfaloi » di Delfi qui sotto.

 

Due esempi di “omfalos” a Delfi

Se aggiungiamo, per chiudere il cerchio, che l'“omfalos” portato da due aquile inviate da Zeus sarebbe stato lasciato cadere sopra Delfi per rappresentare l'“ombelico del mondo” e che alcune leggende dicono che non si trattasse di due aquile, ma di due cigni, si capisce perché l'uovo qui racconti "le origini mitiche“…

Tutta questa simbologia attinge la sua fonte dalle nostre antiche storie mitologiche, dà peso alle immagini, ma poi ?

Michieletto stesso sottolinea che ”la mia storia è simbolica, esistenzialista, per nulla politica" e rimanda Lohengrin al mondo della favola, dal quale dice di trarre più ispirazione che da una storia più realistica.

Ci si può quindi chiedere perché sostituire simboli tradizionali come il cigno (che è uno dei simboli del Graal) con altri simboli molto più astratti, un po' criptici, e allo stesso tempo proporre fin dal preludio l'immagine molto concreta della vasca da bagno piena d'acqua da cui Elsa estrae i vestiti di Gottfried, che diventano immediatamente una sorta di reliquie (o prove, in mani sbagliate), o i cerchi luminosi che circondano la coppia Lohengrin-Elsa nel terzo atto e che sembrano isolarli in un mondo di amore cosmico…

Jennifer Holloway (Elsa), Dmitry Korchak (Lohengrin), Amore cosmico

Ciò che colpisce tuttavia in Lohengrin è da un lato l'espressione sincera dell'amore di Lohengrin per Elsa, ma dall'altro lato non si legge mai nelle parole di Elsa un impegno totale che sarebbe un preludio a Tristan und Isolde. A differenza di Tristano, Wagner fin dal primo atto mostra una Elsa evidentemente felice di essere stata salvata dal suo cavaliere bianco e pronta ad accettare tutte le sue richieste, ma è difficile leggerci una “innamorata”. Se ci sono duetti tra loro, non c'è un vero e proprio duetto d'amore, né nel primo atto (troppo presto), né nel secondo (disturbato dagli intrighi di Ortrud e Telramund) dove il “dubbio” si insinua nonostante tutta la dolcezza di Lohengrin, né nel terzo, dove il duetto che potrebbe svilupparsi in un’apoteosi si trasforma in un interrogativo devastante e nell'impossibilità di abbandonarsi all'amore folle.

È proprio questo sentimento di impossibilità di donarsi totalmente, cioè di amare "romanticamente » Lohengrin, che rende il carattere di Elsa così singolare e che di conseguenza rende difficile interpretarlo : Elsa è un personaggio autenticamente tragico, non è l'amante romantica ed eterea, né è la « colpevole " nel senso che non vuole tradire il suo giuramento, ma allo stesso tempo deve tradirlo se vuole rimanere onesta con se stessa e con la sua esigenza di verità. Si sacrifica per l'esigenza della verità, che è liberatoria e allo stesso tempo la condanna e precipita la catastrofe. Anche in Lohengrin, come in molte tragedie in un certo senso, la verità è mortale.

Pioggia di uova, pioggia di dubbi alla fine del secondo atto

Per questo non condivido la visione un po' “vittimistica” di Elsa in questa messa in scena, che trovo un po' superficiale. Elsa non è vittima del dubbio, né degli intrighi di Ortrud : Ortrud agisce solo come rivelatrice/catalizzatrice di ciò che Elsa non può accettare : Ortrud dice le cose che Elsa non dice ma prova dentro di sé, non fa altro che materializzare la domanda che si pone la giovane donna. Le parole di Ortrud trovano eco in Elsa non perché quest'ultima sia frivola o curiosa, ma perché nel suo intimo è convinta che il patto che le viene proposto, sposare il più bello, il più candido, il più nobile dei cavalieri senza ulteriori indugi, è tutto ciò che l'umanità non può accettare, in nome degli stessi valori dell'umanità.

Certo, Lohengrin non è un autentico “umano” e del resto nessuno in nessuna messa in scena lavora su questo aspetto di totale estraneità alle leggi umane del personaggio. Lohengrin è incapace di comunicare o di scambiare, protegge, salva, ristabilisce l'ordine, ma non ascolta l'altro. Cade tra gli uomini credendo che tutto sia facile quando si è belli e buoni e se ne va senza aver compreso Elsa, né le esigenze dell'umanità. La vita degli esseri umani è una lotta, è sudore, è una salita, come dice la famosa canzone di Mikis Theodorakis : Η ζωή τραβάει την ανηφόρα. (la vita è una salita…). Ma Lohengrin non lo capisce.

Il genio di Wagner qui, a mio avviso, consiste nel mostrare l'umanità tragica di fronte a un Lohengrin che ignora la tragicità della vita. Lohengrin l'incantatore non è riuscito a incantare la vita.

È per questo motivo che, pur riconoscendo il vero lavoro svolto in questo spettacolo e alcune belle immagini, in particolare nella gestione del coro trattato come un coro antico, che guarda, commenta e non sempre capisce di cosa si tratta, rasentando il muro, osservando il dramma, non condivido i dati, le idee, la visione.

L'opera di Wagner è molto più complessa della favola, in particolare nel modo in cui tratta i personaggi. Ora, se si fa astrazione da tutta la simbologia che abbiamo cercato di mostrare attingere dal nostro patrimonio comune di leggende diverse, la gestione dei personaggi non è lavorata con la necessaria acutezza. Astrazione fatta dall'allestimento, rimane un Lohengrin “normale”, ad eccezione del personaggio di Telramund, l'unico che, a mio avviso, è disegnato dalla regia in modo un po' originale.

Dmitry Korchak (Lohengrin), Jennifer Holloway (Elsa)

Abbiamo sottolineato che Elsa è in realtà tormentata da un dubbio che non esprime ma che prova, e che Ortrud le traduce in modo così chiaro, che Lohengrin non è mai attraversato da alcun dubbio e non può immaginare Elsa se non come una donna che acconsente ciecamente perché lui è bello e buono (è vero, senza dubbio, ma non sufficiente a cancellare il dubbio, condizione “necessaria” ma non “sufficiente”), ma non escono dall'ordinario, se si esclude un duetto “d'amore” del terzo atto in cui non si guardano né si toccano, ma girano l'uno intorno all'altra e poi intorno all'uovo come due pianeti senza sole, se non quello del dubbio, il che è una buona idea.

L'idea dei cerchi luminosi rimanda a qualcosa di cosmico, ma un cosmo un po' traballante, l'ordine cosmico voluto da Lohengrin fatica a realizzarsi. Tristano ha qualcosa di cosmico, Lohengrin no.

Ortrud e Telramund sono trattati dalla regia in modo abbastanza diverso, in particolare Telramund. Ortrud è la solita Ortrud, vestita di nero, dominatrice, paziente osservatrice e sottile lettrice delle anime : Ekaterina Gubanova è imperiale in questo ruolo. Telramund, al contrario, fin dalla fine del primo atto è un perdente, uno smarrito, un perduto per la causa. A differenza di Ortrud, il suo abbigliamento diventa quasi quello di un vagabondo, depresso, che ha perso ogni orgoglio e la cui energia nasce solo dalla sua profonda disperazione. E Tómas Tómasson è esattamente il personaggio posseduto dalla disperazione strutturale voluta dalla regia, che finisce per suicidarsi. Molte regie vedono in Telramund una sorta di ultimo avatar della vecchia nobiltà orgogliosa, incapace di uscire dal proprio sistema di valori e che fino alla fine crede nel proprio diritto, perché Telramund non è un cattivo dell'opera nel senso tradizionale del termine, che farebbe del male per il gusto di farlo. Ha un'autenticità, una sincerità che si misura nella sua disperazione all'inizio del secondo atto. È su questa sincerità che lavora Michieletto e l'idea di vedere in Telramund l'uomo disorientato – forse non così lontano da Elsa, che vede crollare intorno a sé il suo mondo ben ordinato in nome di un cavaliere del cielo – non è male… In questa messa in scena è l'unico personaggio che mi sembra trattato in modo un po' originale.

Duetto d'amore, duetto di dubbio : L'uovo è apparso

Nel complesso, a distanza di una decina di giorni, di questo spettacolo rimangono immagini piuttosto seducenti (belle luci di Alessandro Carletti), ma poca sostanza che ti perseguiti e susciti interrogativi. Il libro si chiude in fretta. E questo è spesso un problema con le regie di Damiano Michieletto : immagini, non sempre originali, che all'inizio appaiono criptiche e quindi si suppone profonde, ma poi, quando se ne misura il significato – piuttosto superficiale – si sgonfiano un po' fino a scomparire dalla memoria.

Si capisce quindi perfettamente perché Michieletto sia il beniamino di molti teatri lirici (inaugurerà la stagione della Scala nel 2026): è una « modernità » che non disturba, un po' alla Tartuffe : « amore senza scandalo e piacere senza paura » … o come diceva Roland Barthes di Sainte-Beuve, Michieletto potrebbe benissimo essere uno di quegli interpreti della superficialità significante (“herméneute de la superficialité signifiante”) che si consacrano perché non rivoluzionano nulla.

Diverso è l'approccio musicale. Mi sembra che il cast abbia dato prova di maggiore audacia, dimostrando che è possibile costruire un ottimo Lohengrin uscendo da certi schemi consolidati.
Ciò che resta di questo Lohengrin sono poche idee, alcune immagini e molta musica.

Le voci

L'Opera di Roma ha riunito un cast senza un cantante tedesco. Sono abbastanza amareggiato quando in Germania noto un'opera del repertorio italiano senza un solo cantante peninsulare da trovarmi qui in contraddizione, poiché dovrei mostrare amarezza anche in un cast di un'opera del repertorio tedesco che ignora i cantanti idiomatici.
In modo molto gesuitico, sottolineerò che non c'è una perfetta simmetria e che non è la stessa cosa : scrivo spesso che il repertorio italiano è più difficile da padroneggiare rispetto a quello tedesco, che un cantante medio in Wagner fa meno danni di un cantante medio in Verdi o Donizetti. Ecco perché un Lohengrin senza cantanti tedeschi passa più facilmente di un'Aida senza cantanti italiani…

Il coro del Teatro dell'Opera di Roma

E questo cast mi è sembrato (con una sola eccezione) abbastanza ben composto ed equilibrato, affidato a voci slave (Korchak, Gubanova, Bondarenko) o anglosassoni (Holloway, Bayley) e scandinave (Tómasson), alcune delle quali esperte nel repertorio tedesco : Gubanova, Holloway e Tómasson calcano le scene dell'area germanica sia con Wagner che con Strauss.

Ma senza entrare nei dettagli di questa o quella scelta, l'intelligenza del casting mi è apparsa nella scelta dei colori vocali che corrispondevano a ciò che si voleva da questo Lohengrin princeps di Michele Mariotti, particolarmente interessante nella sua scelta di un lavoro al tempo stesso colorista e drammatico. Ci sono qui coerenze ed echi piuttosto sottili che non sempre si vedono in molte distribuzioni liriche.

Il coro, preparato molto bene da Ciro Visco, ha dimostrato grandi qualità e ha riempito molto bene la scena in un repertorio che non è il suo e che era stato dimenticato da cinquant'anni. Ha dimostrato una certa potenza, ma anche momenti più contenuti, senza alcun disallineamento con la buca, con una notevole precisione e un vero impegno scenico. Fa onore alla produzione.

Lo stesso vale per i gruppi, sia i quattro nobili, tutti provenienti dalla Fabbrica, lo studio di preparazione dei giovani artisti dell'Opera di Roma (Alejo Álvarez Castillo, Dayu Xu, Guangwei Yaoiç, Jiacheng Fan) che i quattro paggi (Mariko Iizuka, Cristina Tarantino, Silvia Pasini, Caterina D'Angelo), tutti erano al loro posto per svolgere il proprio ruolo, e si può dire che le forze vocali del Teatro hanno ben difeso la loro partecipazione allo spettacolo… Hanno dimostrato sia un livello omogeneo che una vera qualità d'insieme.

Per quanto riguarda le voci soliste, l'impressione è quella di un cast solido, senza essere composto da star indiscusse, ad eccezione forse della più nota, Ekaterina Gubanova.

Andreï Bondarenko è un Heerrufer rispettabile con un fraseggio molto bello, in un ruolo in cui è assolutamente necessario avere una voce baritonale abbastanza morbida e abbastanza ferma, e soprattutto con una bella proiezione. Molti baritoni oggi hanno fatto ottime carriere in Germania iniziando con questo ruolo. Bondarenko lo difende con grande sicurezza, riscuotendo un vero successo di pubblico.

Clive Bayley (Heinrich der Vogler)

Clive Bayley non è un Heinrich der Vogler assolutamente memorabile per la voce o per l'atteggiamento scenico, come lo era stato, anni fa, un Georg Zeppenfeld allucinato nella produzione di Neuenfels a Bayreuth. Il timbro opaco è un po' velato, ma allo stesso tempo è coerente con il personaggio invecchiato che cammina con un bastone, come voluto dalla regia. Così, sia con la voce che con l'atteggiamento, lascia trasparire un Heinrich sopraffatto dagli eventi, più osservatore che attore. C'è quindi una coerenza e questo Heinrich in toni smorzati rimane accettabile.

Ekaterina Gubanova (Ortrud), Tómas Tómasson (Telramund, nell'ombra)

Ekaterina Gubanova fa quello che ci si aspetta da lei nel ruolo di Ortrud. La voce potente risuona come al solito, gli acuti trionfano e l'atteggiamento sul palco è imperiale, mentre paradossalmente il regista non le presta molta attenzione. Ma sappiamo che tipo di attrice è e come incarna immediatamente i ruoli che interpreta. È una dei grandi mezzosoprani wagneriani di oggi, Brangäne, Kundry, Venus… soprattutto perché padroneggia ogni parola, ogni colore e sa cosa canta… Cantante con voce e mente, ottiene un meritato trionfo.

Tómas Tómasson (Telramund)

Molti invece hanno criticato il Telramund di Tómas Tómasson. A torto, secondo me. Come abbiamo detto, è il ruolo su cui il regista ha lavorato di più, è il personaggio più delineato e senza dubbio il più singolare, ai margini della tradizione. È un cantante estremamente intelligente. Ha messo la sua voce, il suo fraseggio, il suo senso delle parole, il suo senso del colore al servizio di questo personaggio smarrito e disperato. Ovviamente siamo lontani dal nobile cattivo, siamo lontani dal complottista permanente, fin dall'inizio interpreta quasi il perdente con la voce giusta.
Un personaggio del genere non poteva avere una voce forte e proiettata, doveva avere una voce contrastata, accidentata, piena di numerose ombre con qualche luce, e la sua composizione è impressionante. Poiché ha una perfetta conoscenza della lingua tedesca, sa colorare le parole e dare loro peso, è assolutamente impressionante. È una vera lezione di canto perché usa lo stato attuale della sua voce per dare al personaggio una profondità e un'umanità assolutamente inaspettate. È certo che siamo lontani dalla perfezione “estetica” del canto che un ascoltatore italiano potrebbe aspettarsi, ma siamo nel cuore del bersaglio drammatico. Ci proietta con il suo stile, con il suo atteggiamento scenico, con la sua intelligenza nell’ambiente giusto e nel colore dovuto, senza dubbio.

Jennifer Holloway (Elsa)

È l'esatto contrario di Jennifer Holloway, il punto più debole di questo cast.
Come avevamo già notato in altri ruoli, la voce c'è, così come il fraseggio e la chiarezza della pronuncia di ogni parola è sorprendente. Sono qualità che in Wagner dovrebbero favorire l'esplosione del personaggio.
Ma lei non ne fa nulla. Canta in modo molto onesto, ma è una Elsa banale e insignificante che non ci trasmette nulla. È evidente che il ruolo è difficile perché è in bilico tra una sorta di eroina eterea e un essere che conserva una forte energia interiore. Solo le grandi interpreti hanno saputo incarnare questo equilibrio teso, come Anja Harteros al suo apice o Anja Kampe. Ma il ruolo è tale che non rimane impresso nella memoria. Le grandi wagneriane lasciano il segno con Brünnhilde, Isolde, Elisabeth, Sieglinde, ma raramente con Elsa. Ciò non significa che il ruolo sia indifferente. Significa semplicemente che la sfida è particolarmente difficile da affrontare e che Jennifer Holloway ha ancora molta strada da fare.

Dmitry Korchak (Lohengrin)

Dmitry Korchak, invece, si cimenta per la prima volta con Lohengrin e lo interpreta immediatamente alla grande. Affidargli questo ruolo è stata una scommessa vincente e il segno di una vera riflessione sul cast. Perché nessuno se lo aspettava. Nelle sue ultime apparizioni, in particolare a Pesaro in Bianca e Falliero e a Milano nell'Arnold di Guillaume Tell, si era notato che la sua voce si era ampliata e ora si imponeva. Aveva acquisito forza drammatica e il tenore rossiniano era diventato semplicemente un grande tenore…

Senza dubbio anche la sua esperienza di direttore d'orchestra ha sostenuto questa evoluzione. È un ottimo musicista. Ha messo il suo stile, il suo senso del fraseggio, il suo senso delle sfumature, il suo senso del colore al servizio di un ruolo particolarmente complesso che ha immediatamente fatto suo. Infatti, oltre alla poesia, al timbro vellutato, a una certa giovinezza nella voce, si percepisce anche un'energia, un coraggio, una presenza che non sempre si trovano in altri tenori più “wagneriani”. È in qualche modo “singolare”.

È anche la prova che padroneggiare perfettamente lo stile rossiniano, che Wagner conosceva così bene, porta a tutto. In alcuni (Nicola Alaimo) porta a Falstaff, in altri porta a Lohengrin. Fa parte di quei tenori che hanno saputo attingere dalle radici rossiniane (ma anche barocche) i colori di un canto che rendono unico il ruolo di Lohengrin. È immediatamente convincente. È immediatamente al suo posto. È semplicemente straordinario.

La direzione musicale

L'orchestra dell'Opera di Roma non sarà la migliore orchestra d'Italia, ma quando tutti si impegnano collettivamente, quando tutti entrano collettivamente in un'opera e in un'impresa sotto la guida di un vero direttore, superano se stessi.
E questo impegno si sente fin dalle prime note, in cui Michele Mariotti offre un suono pieno, corposo e allo stesso tempo una grande volontà di flessibilità, di legato, una grande fluidità che preserva i molteplici colori della partitura che tutti i grandi direttori italiani cercano di valorizzare.

Mariotti è molto attento alle voci, non le copre mai, le accompagna sempre con grande cura e lascia che il testo si sviluppi e respiri, ma allo stesso tempo non rinuncia mai alla forza drammatica, né all'energia, anche a costo di essere un po' dimostrativo : questo è abbastanza evidente nell'ultimo accordo finale.

Come non vedere un certo parallelismo tra il solista Korchak e il direttore Mariotti, che provengono dallo stesso universo e hanno saputo trascenderlo ? Con il loro lavoro ci mostrano che nella storia della musica dell’Ottocento esiste una logica che trascende le cosiddette « identità » nazionali. Quando Wagner crea Lohengrin, ha già in mente il Ring e Tristano, ovvero la « musica dell’avvenire ». Questo significa che Lohengrin è l'ultima musica del passato ? Non esattamente, ma intorno al 1850 si verifica una svolta per tutta la storia della musica lirica europea : è la fine degli anni di stenti per Verdi, che sta per produrre la trilogia popolare. È la fine del bel canto romantico, poiché Donizetti è morto due anni prima, ed è anche, in un certo senso, la fine del “Grand-Opéra”. Qualcosa di nuovo sta per nascere e Lohengrin si trova lì, nel mezzo, sulla cresta dell'onda.
Ciò che Mariotti ci fa capire (e anche Korchak) è che si può interpretare e dirigere Lohengrin partendo da una cultura inaspettatamente rossiniana o barocca, così come si può leggerlo in modo più germanico : entrambe le cose sono possibili. Il berlinese Meyerbeer, grande ammiratore di Rossini e portabandiera del Grand-Opéra francese, fu anche un modello per Wagner nel suo Rienzi e Wagner, che era egli stesso un osservatore dell'insieme della creazione musicale del suo tempo, lascia questa libertà.

Lohengrin è stata la prima opera di Wagner ad arrivare in Italia, a Bologna, che è anche (cosa che a volte si dimentica) una delle grandi città di Rossini, dove ha studiato : non è un caso e ciò che mi piace nell'interpretazione di Mariotti è sentire sullo sfondo tutta questa storia, tutta questa densità culturale storica, tutta questa volontà di colorare in un certo modo un'opera che conserva comunque la sua identità e che stasera mi ha pienamente sedotto.
Sì, bisognava andare a Roma per ascoltare un Lohengrin diverso e allo stesso tempo quello di sempre. C'è un Wagner che suona italiano, ed è altrettanto convincente. Dopotutto Wagner ha composto parte del Parsifal tra Palermo e la costiera amalfitana, dopotutto Wagner è morto a Venezia, dopotutto Toscanini è uno dei più grandi wagneriani della storia della musica (che riprese Lohengrin già nella sua seconda stagione come direttore musicale della Scala), ed è proprio questa italianità folgorante e geniale di Wagner, dopo Toscanini, De Sabata, Abbado, Sinopoli, Gatti, che abbiamo riscoperto questa sera con Michele Mariotti.

Immagine finale : Jennifer Holloway (Elsa) davanti a Gottfried incoronato

[1] Non è il caso di Riccardo Muti, che ha esordito con Der fliegende Holländer alla Scala nel 1988.

 

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