Michele Mariotti fa parte di questa nuova generazione di direttori d'orchestra italiani che conquistano i teatri d'opera nel mondo, in particolare nel repertorio belcantista. Direttore musicale del Teatro Comunale di Bologna, uno dei teatri che conta di più in Italia, dirige in questo periodo a Monaco di Baviera Semiramide di Rossini che torna in repertorio a Monaco dopo 193 anni di assenza.
Nato a Pesaro, figlio di Gianfranco Mariotti, fondatore e sovrintendente del Rossini Opera Festival (ROF), è cresciuto all'ombra di questo Festival quasi quarantenne (prima edizione 1980), ormai imprescindibile. Ha ricevuto Wanderer l"indomani della prova generale, per una lunga e interessantissima conversazione, a ruota libera,molto aperta, di cui rendiamo conto.
Lei è figlio d’arte, questo spiega forse la relazione con Rossini: questa è una relazione scelta o piuttosto atavica?
La mia storia è abbastanza divertente: io da bambino volevo fare giocatore di basket perché a Pesaro c’è una grande tradizione di basket, per 10 mesi all’anno; e per 2 mesi all’anno quelli del Festival, volevo sin da bambino fare il direttore d’orchestra, avevo sempre questa passione innata. Mi ricordo quando mia nonna faceva i gamberetti, gli spiedini, io tenevo da parte il legno degli spiedini e prendevo i tappi del vino o dello champagne che modellavo con carta vetrata e costruivo le mie prime bacchette. Volevo sempre andare alle prove e mio padre non voleva perché lui non poteva stare sempre con me, e diceva di no perché ero troppo piccolo, e ero io che forzavo, insistevo e volevo passare le mie giornate dentro il teatro .
Inevitabilmente e inconsapevolmente questa fu la mia scuola, perché andavo a vedere i più grandi direttori d’orchestra lavorare da vicino. Quindi la mia passione e la mia vicinanza con il linguaggio rossiniano nasce dal fatto che io ero un bambino pesarese con la fortuna di potere assistere a tutte le prove e cresciuto con quest’autore e questa musica.
Quello non vuol dire che io sappia come si fa Rossini e che il mio Rossini sia il migliore ! Di sicuro lo conosco molto a fondo e so quali libertà l’interprete si può prendere, pero non ho la presunzione di dire che so come si fa Rossini. Ma la mia esperienza e la mia vicinanza con Rossini mi porta a dire che so come non si dovrebbe fare, alla luce del fatto che per tanto tempo la tradizione ha distrutto il vero carattere di questa musica, e noi viviamo tutt’ora dei frutti della Renaissance operata grazie a Alberto Zedda e Claudio Abbado soprattutto, che ci hanno restituito un autore completamente diverso da come veniva eseguito, molto più leggero, molto più trasparente, molto più mozartiano.
Pesaro è un Festival che va bene, è il Bayreuth rossiniano, di cui dobbiamo salutare la continuità. A che cosa si deve?
A tanti aspetti. Pesaro è infatti il Bayreuth rossiniano, quindi è giusto che il ROF (Rossini Opera Festival) ne resti alle opere di Rossini come Bayreuth resta alle opere di Wagner; personalmente sarei contrario alla commistione di vari autori: a Pesaro si suona Rossini. E negli anni io penso che la vera forza del ROF è dal punto di vista ideologico che ha saputo vivere a spasso con i tempi, rinnovarsi nel gusto, nell’interpretazione, nel dare la libertà agli interpreti all’interno di regole filologiche. Il che non vuol dire che bisogna fare quello che è scritto, pero bisogna stare dentro une filologia di stile. Spesso l’equivoco è che stile vuol dire fare quello che è scritto. Rispettare uno stile non è assolutamente questo . Motivo per cui anche dal punto di vista della regia (noi ora viviamo in un mondo dove i registi hanno tanto potere), un regista può benissimo usare un linguaggio non tradizionale, e rendere fede al testo e al linguaggio rossiniano magari molto di più che una regia tradizionale. Questo è il primo vero motivo.
Penso anche alla capacità degli interpreti stessi, soprattutto i cantanti. Trent’anni fa, quarant’anni fa, i cantanti rossiniani erano considerati miti. Se andassimo ora ad ascoltare questi cantanti, troveremmo tanti difetti, pero erano mitici perché erano i primi, gli unici ad affrontare questo repertorio .
Ora il grande passo che ha fatto l’interprete è che ha superato lo specialismo. Ora un cantante è verosimile, apprezzabile e credibile, sia in Rossini, sia in Verdi, in Mozart, sia nel bel canto, insomma il cantante per il suo sviluppo personale ha superato la specializzazione e questo è una grande vittoria secondo me.
Come spiega la grande vitalità di un Festival come Pesaro e le difficoltà del Festival Verdi ad esempio?
Sono due storie completamente diverse. Per quanto riguarda il ROF, penso sia stato prezioso e imprescindibile il rapporto tra Festival e Fondazione Rossini. C’è alla base un lavoro, un approfondimento filologico che è quello che fa si che si possa chiamare Festival rossiniano. È alla base questo binomio fortunatissimo che tutt’ora sopravvive anche perché ogni parte ha la sua forza e ha la sua autonomia.
Per di più, se pensiamo come veniva suonato Rossini negli anni sessanta e come viene suonato oggi, c’è stato una vera rivoluzione, cosa che non c’è stato in Verdi, e neanche in Donizetti.
C’è anche da dire che Verdi e Rossini sono anche due compositori, due geni ma con percorsi compositivi completamente diversi. Io sono molto legato al primo Verdi, ho fatto Attila l’anno scorso a Bologna, I due Foscari in Scala e continuerò con I Lombardi gli anni prossimi. Mi affascina molto perché non vedo in queste opere quello che manca rispetto alle altre. Io credo in queste opere cosi come sono scritte, se no meglio non farle: uno non può fare Attila pensando alla differenza che c’è tra Attila e il Don Carlo. Pero in Verdi c’è un percorso costante da Il Giorno di Regno a Falstaff, tant’è che sembra strano pensare che lo stesso autore che ha scritto Il finto Stanislao sia lo stesso che ha scritto Otello.
In Rossini non è cosi. Rossini non ha seguito un percorso, intanto non ha mai cambiato modo di scrivere tra il buffo e il serio. Ma in Rossini è come se la bussola temporale fosse impazzita. Ad esempio lui scrisse Ermione che è l’opera forse più moderna, dove lui rompe la forma classica, la struttura e dopo Ermione scrive Semiramide che è invece questa cattedrale belcantista, come se si andasse indietro con gli anni: uno studioso verdiano direbbe che Ermione viene dopo la Semiramide, invece non è cosi. Nonostante questo, Rossini ha influenzato tanto Verdi, e non solo. Qualche mese fa ho fatto a Berlino Les Huguenots di Meyerbeer, è figlio del Guillaume Tell! Io addiritura ho ritrovato nelle stesse situazioni la stessa tonalità, l’aria di Raoul e quella di Arnold hanno la stessa tonalità in do maggiore. Lo stesso metro ritmico in certe situazioni, chiaramente tutto il Grand’Opera procede dal Guillaume Tell.
Perché il Rossini serio non viene spesso rappresentato al di fuori di Pesaro?
Al di fuori di Pesaro non c’è interesse che per Barbiere o Cenerentola. Prima, l’interesse che si è mostrato era più verso l’interprete come quando hanno fatto Tancredi negli anni ottanta perché c’era la Horne o oggi Donna del Lago con Florez e Di Donato, non tanto per l’opera in sé.
Lei dirige Semiramide alla Bayerische Staatsoper, la cui orchestra, specializzata nel repertorio tedesco, Strauss, Wagner, non è assolutamente pratica del repertorio rossiniano, almeno serio. Come avvicinarsi ad un’orchestra che è lontana dall’universo rossiniano?
Devo dire che l’orchestra qui è fantastica. Ho detto a loro tante volte: sembra che abbiano sempre fatto Rossini. Con loro è stato facile. Abbiamo lavorato tanto perché per una nuova produzione ci sono tante prove, ma da subito hanno capito la bellezza e l’importanza di quest’opera; e da subito con loro abbiamo fatto un lavoro di leggerezza, di trasparenza, di colori, di piano, di pianissimi, di contrasti e ne hanno capito il motivo, hanno capito che il dettaglio che fa la differenza in questo repertorio, fa si che l’orchestra diventi protagonista, che non sia solo un accompagnamento, ma che l’orchestra canti insieme al palcoscenico. Per questo tutte le cose che facciamo, e io sono stato molto pignolo in tante cose, loro hanno capito che questo serve a renderli protagonisti insieme al palcoscenico. E devo dire che sono talmente bravi che bastava solo dire gli accordi, sempre questa morbidezza di suono, anche nei momenti più concitati ma sempre un’orizzontalità di suono, mai una verticalità, e devo dire che hanno da subito capito e lo hanno fatto, quindi devo dire veramente “Chapeau !”. Conosciamo quant’è brava quest’orchestra, ma sappiamo anche quant’è difficile suonare Rossini, proprio perché non basta fare quello che è scritto; e poi suonare piano, leggeri, suonare seguendo la parte, guardando il maestro e seguendo il palcoscenico è difficile, molto più difficile che suonare altri repertori. Ci sono due gruppi di orchestrali e ho potuto provare con tutti due gruppi. Ante generale, ieri generale e prima ho lo stesso gruppo. E poi si avvicenderanno. E devo dire che non ci sono stati problemi sono entrambi bravissimi. Anche se in alternanza suonano opere lunghe (come Rosenkavalier) o dense (come Elektra).
Come l’orchestra si adatta alle Sue domande?
È difficile da spiegare. È una complicità che nasce dal rispetto reciproco e dalla stima; e quella te la conquisti lavorando, poi c’è un momento in cui capisci che l’orchestra ti seguirà. Non vuol dire che l’orchestra condivida quello che stai facendo, ma riconosce in te una guida da seguire.
Come si crea il suono? Questo è molto difficile: ci vuole una continuità e non lo si crea in un mese. Pero anche all’interno di un mese, se hai una continuità di lavoro, crei il suono giusto e questo l’ottieni spiegandone il perché, il come, il senso, a cosa serve.
Ad esempio discutiamo coll’orchestra dei piani e pianissimi: “Perché suonare piano?”
- per non coprire le voci
- Allora chiamiate un cantante con una voce più grande, perché noi dobbiamo ridurre il volume?
- In realtà non è una riduzione, è un arricchimento. Suonare piano non è un suono forte privato dalla sua forza, è un’altra cosa. Nel suono piano la sua forza sta nel piano. E tante volte un piano può urlare più di un forte, questo è il segreto. Questo è la chiave forse per far si che un’orchestra capisca e nel momento in cui capisce, crede in quello che suona, e allora suona meglio.
È la prima volta che lavora a Monaco. Come si sta in questo teatro?
Da Dio! Da Dio! Le prove sono durate un mese e abbiamo lavorato con grande calma, grande complicità con l’orchestra, che è molto duttile, molto elastica; anche con il coro, con il cast inutile dirlo siamo tutti amici e ci si conosce da tanto. È la seconda volta che lavoro con David Alden e si è lavorato con grande armonia e grande serenità. In questo teatro l’artista si sente seguito e tutelato, e questo è molto importante.
Lei è considerato uno specialista del primo ottocento, Rossini, Verdi: aldilà dalle richieste dei teatri, c’è un repertorio che L'attira e che non Le ho stato ancora richiesto?
Io sto facendo molto in giro più Verdi che Rossini, a parte il Guillaume Tell non avevo fatto Rossini a Bologna da 8 anni e a parte Pesaro gli anni che mi invita il Festival. Tutto il primo Verdi, ma non solo, m’interessa tantissimo. Riporterò I due Foscari a Salisburgo poi inaugureremo Amsterdam con Forza del Destino che è un Verdi meraviglioso. Poi c’è Ballo in maschera, Attila già fatto a Bologna, Don Carlo lo faro a Bologna. Lo volevo fare in francese perché è stato scritto in francese e la musica è stata scritta con la parola francese, ma il problema è che per motivi economici dobbiamo coprodurlo e non troviamo la coproduzione francese, quindi dovrò farlo in italiano, e allora piuttosto che cinque atti in italiano preferisco fare quella in quattro atti. Pero più in là ho il progetto di farlo in francese.
Comunque poi Mozart resta sempre nelle mie opere favorite. E devo dire che se penso a un autore a cui mi dovrò accostare, penso a Wagner, ma adesso ho preferito non farlo, non mi sento ancora pronto. Pero vorrei avvicinarmi.
Come mai I due Foscari, che non è molto frequente, ritorna sulle scene ?
Perché è un’opera molto affascinante a suo modo, che sembra un Simon Boccanegra in incubatrice. Alla Scala abbiamo avuto un grande cast con Domingo di cui si può discutere sempre “tenore si? tenore no?”, pero è un grande artista con grande carisma. E l’insieme ebbe un grandissimo successo. Poi è un’opera facile da montare con un cast facile da mettere su con solo tre cantanti, la coppia e il doge (se si pensa a Semiramide con i suoi cinque cantanti, a Ballo in maschera, o a Falstaff ! )
Dopo Chailly, dopo Gatti, tocca Lei ad essere direttore musicale a Bologna. Cosa vuol fare di questo teatro, uno dei teatri importanti d’Italia?
Abbiamo lavorato tanto sulla qualità dei progetti artistici, dobbiamo tenere alta la qualità degli artisti e la collaborazione con registi importanti. Nel sinfonico solo quest’anno ho lavorato con Louis Lortie, arriverà la Mullova, Beatrice Rana. E ‘una banalità dire che abbiamo bisogno di qualità, ma la qualità ha bisogno di qualità, non è autosufficiente. Soprattutto in un momento di difficoltà economiche come questo, dove il teatro cerca di resistere. Da noi c’è un modo di dire: “fare le nozze con i fichi secchi”, cioè devi essere più bravo a ottenere il massimo con i problemi. Lavoriamo tanto per le tournée, l’anno scorso abbiamo inaugurato il Lingotto, nel 2018 due serate ai Champs-Elysées, è importante che questo teatro giri a livello internazionale. Questi sono i nostri obiettivi.
Ha parlato dei registi. Qual'è la Sua posizione sulla regia?
Io ho sempre avuto dei rapporti positivi coi registi, perché ho sempre cercato il dialogo, anche, laddove era possibile, mesi in anticipo. Io personalmente non sono favorevole o contrario a regie tradizionali o regie moderne. Sono favorevole a una regia coerente che capisca il senso della musica. È importante, non tanto conoscere la musica, ma capire la musica, capirne il senso, capire che se li c’è una modulazione, teatralmente ha un significato e noi lo dobbiamo riprodurre, a prescindere dal linguaggio.
Com’è la situazione musicale a Bologna?
A Bologna un centro culturale c’è già, che è il Teatro Comunale. E deve continuare ad essere il riferimento. Se noi viviamo in questo periodo un momento di crisi, non è tanto per problemi economici che a volte possono diventare una scusa. il vero problema è che il Teatro ha perso la sua identità di elemento centro di sviluppo non solo culturale e musicale ma sociale e anche etico. Qualche secolo fa l’Italia era l’ultimo posto in quanto a lettura di libri perché la gente andava a teatro, la gente si aggiornava, stava a spasso con il mondo andando a teatro, s’impreziosiva e si rinnovava passando ore in teatro. A Bologna gli ultimi anni abbiamo riconquistato il rapporto con il pubblico, pero vorremmo di più dalla città, questo si.
Qual'è la politica in direzione dei giovani? Il teatro si trova in mezzo alla zona dell’università…
Ad esempio nelle mie opere e non solo nelle mie, da qualche anno ho voluto aprire le prove d’assieme, che sono a porte aperte e ogni volta abbiamo gruppi di scuola, studenti che assistono alle prove. Secondo me è importantissimo per un giovane capire come un’opera viene costruita, forse a volte più interessante che guardare la recita stessa.
E il sinfonico?
È qualche anno che sto facendo tanto sinfonico, è importantissimo: opera e sinfonico devono essere fatti in egual misura, proprio per evitare l’etichetta di direttore d’opera, per quanto io ami l’opera ma il sinfonico è molto importante. Io penso che l’opera aiuti a fare il sinfonico perché acquisisci un modo di respirare, di vedere la frase musicale in maniera diversa secondo me. Solo a Bologna faccio 7/8 concerti all’anno, in Francia ho già lavorato con il National de France, l’anno scorso ho debuttato con l’orchestra del Gewandhaus, qui a Monaco fra poco farò un concerto coi Münchner Symphoniker et ai Festspiele a luglio ne farò un altro con l’orchestra dell’opera. Sto costruendo tantissimo la carriera anche dal punto di vista sinfonico perché è molto importante anche come immagine, bisogna farlo assolutamente.
Per un’orchestra d’opera, la stagione sinfonica aiuta anche l’orchestra. Mentre ero qui a fare repertorio italiano sono tornato a Bologna a dirigere repertorio tedesco, l‘ultima Messa di Schubert e la prima di Bruckner (que farò fra poco qui). Faremo Sibelius, Bartok, Schubert, Beethoven, Brahms, Mendelssohn, Mahler, Ciajkovskij…
Ma Lei, quale preferisce tra tutti questi compositori?
Devo dire che ogni volta che mi sono avvicinato ad un autore, l’ho sempre amato. Quest’anno per esempio ho debuttato Mahler e Bruckner e sono degli abiti che ti devi trovare addosso; li ho amati tantissimo. Adesso sto studiando Sibelius e mi piace tantissimo quella musica li, davvero. E come quando dirigi un’opera di Mozart, fai il Cosi fan tutte e ti dici che è la più bella che c’è, poi fai il Don Giovanni, ed è la più bella che c’è, poi Le nozze di Figaro ed è un capolavoro dall’inizio alla fine. La nostra fortuna può stare nel fatto di amare l’autore che facciamo senza rimanergli troppo fedele, dobbiamo cercare di ampliare, di cercare di scoprire nuove cose, anche perché sono convinto che cosi faremo in maniera diversa anche lo stesso autore che abbiamo già fatto.
Qual è il Suo rapporto con il repertorio francese?
Sul lato operistico, ho appena fatto Les Huguenots, ho fatto Werther, sto studiando La Voix Humaine. Quando sento le opere francesi scritte per il francese tradotte in italiano è per me una sofferenza, sentire Asile héréditaire nel Guillaume Tell diventare o muto asil è terribile; è una lingua molto musicale, che suggerisce un arco una frase: la lingua francese è molto musicale in se. Certo il fraseggio è diverso dall’italiano, ma aiutano le vocali molto aperte come la “A” che favoriscono la linea vocale. Anche il tedesco, lingua molto diversa alle nostre orecchie, che può sembrare dura, pero ha in sé una grande musicalità, una grande poesia, lo stesso per il russo. Gli artisti russi dicono che anche loro hanno difficoltà a cantare il russo, come l’italiano per gli italiani o il francese per i francesi. Ogni linguaggio ha la sua difficoltà, anche se i slavi hanno facilità per le lingue. Noi italiani siamo quelli che forse hanno più difficoltà, mentre quelli dell’Est hanno un grande talento, soprattutto chi vuol affrontare il repertorio italiano.
Il repertorio francese mi ha sempre accompagnato, anche il sinfonico, con piacere ed è un mare. Il Werther ad esempio è un mare all’interno del quale si nuota con voci e orchestra, non si sa chi primeggiava sull’altro, con grande unità di intenti, sensazione molto bella.
Ho fatto molto Poulenc. Da Poulenc ho diretto lo Stabat Mater, Les sept répons des ténèbres e farò La voix humaine, con la regia di Emma Dante, abbinato a Cavalleria rusticana, l’ho voluto io perché sono due opere che parlano della donna, della donna usata, della donna contro cui il destino si abbatte. Mi sembrava inusuale ma anche interessante fare questo binomio.
A proposito, Lei ha presente Hitchcock, Nodo alla gola (Rope) ?Ha presente la coppia, la musica che suona lui? Suona Poulenc ! Poulenc è molto preciso nelle sue partiture, pero quello che noto è che un compositore che non ha mai avuto problemi nella sua vita, mai ansia, e quando hai la sua rilassatezza, si vede ed è un punto negativo. A volte avere dei problemi può migliorare la tua fantasia, a volte la sofferenza stimola, guardi Mahler; se avessi potuto conoscere un compositore non sarebbe né Rossini né Verdi, ma Mahler…
A parte Poulenc, non abbiamo parlato molto del repertorio del XX°.
Ho fatto qualche anno fa Dallapicola, eseguo Berio spesso. Pero bisogna anche nelle scelte capire il pubblico con cui hai da fare, perché il pubblico non è sempre uguale. Ogni città ha la sua storia, le sue tradizioni. Quindi è bene rapportarsi sempre al pubblico che abbiamo.
Come si profila la Sua prossima stagione?
L’anno prossimo sarà importante a Bologna perché facciamo Bohème in coproduzione, Don Carlo e chiuderò il mio ciclo mozartiano con Don Giovanni, poi tornerò alla Bastille, altro teatro fantastico, con cui ho un rapporto continuativo.
Poi sul lato sinfonico tornerò in Germania e andrò anche in Danimarca. E fra due anni, ho un progetto Verdi con la Scala…
Lei tiene nel cassetto una musica che Le sta nel cuore?
Io vidi il Wozzeck di Daniele Gatti con cui un forte rapporto di amicizia (siamo andati insieme a vedere Italia Spagna allo Stade de France…) a Roma agli inizi del 2000 e mi emozionò tantissimo, tanto che io al mio diploma di composizione studiai il Wozzeck per tutto l’anno. In quelli anni li di studi mi ricordo del Castello di Barba Blu’ di Bartók ; rimasi sconvolto dell’orchestrazione. Allora queste suggestioni riguardano queste opere piuttosto che fare l’Otello di Verdi o altri capolavori come Don Giovanni.
Devo dire che sono molto curioso di vedere come reagirò nel dirigere ad esempio un’Olandese volante, cioè un Wagner più italiano, come sono molto curioso di Puccini. Ho visto che con Werther mi sono trovato molto bene. Allora l’anno prossimo vediamo con Bohème.
Rossini…Verdi…Puccini…c’è una linea; se penso al Falstaff, a come Verdi gestisce la frase musicale, è chiaro che non ci sono più ormai le barriere della struttura classica, questo canto fluido, liquido, preannuncia quello che poi sarà Puccini. Questi geni avevano le antenne sempre dritte: tutto quello che stava succedendo lo facevano proprio.
Dopo questi anni di direzione musicale in teatro, anche se ho un grande affetto con Bologna, un teatro dove sono praticamente nato, un mio sogno sarebbe avere un’orchestra sinfonica, e spero che qualcuno me la possa offrire.
Grazie, Maestro!
No, grazie a Lei!