
Andiamo subito al pezzo forte : Quintetto con pianoforte in do maggiore, op. 45 di Giuseppe Martucci (1856–1909). Per la stagione da camera di Santa Cecilia, Michele Campanella e il Quartetto Indaco hanno proposto, in un’esecuzione di alta qualità, una pagina rara e di particolare interesse. Martucci è stato, pur nella sua breve esistenza, pianista e compositore di grande rilievo, imponendosi sia per le doti straordinarie, sia per la fervida attività orientata ad allargare e innovare l’orizzonte della vita musicale italiana. Egli ha infatti impegnato grandi energie nel conquistare nuove attenzioni e spazi al versante della musica strumentale. Missione non facile in un mondo come quello italiano, all’epoca prevalentemente teso, tra autori e pubblico, a coltivare il melodramma, sorretto da larghissimo favore, anche da parte impresariale. Tra secondo Ottocento e primo Novecento quindi, Giuseppe Martucci – e come lui anche Giovanni Sgambati – ha lavorato instancabilmente per affermare le proprie convinzioni, e per arginare la generale predilezione per il teatro musicale. Un’attività, la sua, impegnata a comporre, eseguire e diffondere la letteratura strumentale, tanto sinfonica quanto cameristica, guardando anche ai grandi autori ottocenteschi tedeschi e francesi.

La formazione Michele Campanella-Quartetto Indaco ha permesso intanto di ammirare un’esecuzione impeccabile del Quintetto, e in più ha offerto l’occasione di tornare a osservare il linguaggio di Martucci. Un linguaggio peculiare, che da un lato si mostra attento alla lezione dei giganti della musica romantica, specialmente strumentale, mitteleuropea ; e dall’altro si dimostra capace di declinare gli illustri esempi perlustrando itinerari originali, sensibili a influenze popolari nel senso di raccoglierne e sottolinearne una pervasiva sensualità melodica. Si pensi, oltretutto, che il compositore aveva soltanto ventuno anni quando, nel 1877, il Quintetto con pianoforte in do maggiore vince un concorso indetto dalla milanese Società del Quartetto, presso la quale il pezzo del compositore di Capua è subito riconosciuto come capolavoro.

La lettura degli interpreti, che erano ospiti di Santa Cecilia, ha magnificamente illuminato l’articolato intreccio di ritorni e rimandi motivici, la creatività che affiora dagli snodi architettonici, la saldezza di una sintesi che governa con agiatezza l’ampio disegno della pagina di Martucci. Un disegno che appare nutrito dalla sensualità crepuscolare che percorre i quattro movimenti, scorrendo sul nastro della suggestiva, ipnotica timbrica degli archi, resa dal Quartetto Indaco con sopraffina eleganza, qua impalpabile là energica. E così le tinte brumose dell’animo martucciano sono affiorate in un tappeto sonoro remoto, ma suggestivo e immanente. Soprattutto, la presenza di Michele Campanella al pianoforte è apparsa determinante per ottenere il mirabile equilibrio, sul quale il pezzo è stato intessuto. Grazie alla personalità e alle sensibilità del quartetto d’archi, e grazie all’intelligenza interpretativa del grande pianista – che con la musica di Martucci ha già maturato significativa esperienza – questo Quintetto in do maggiore ha ricevuto una dimensione esecutiva che ha marcato un’impressione profonda. Decisiva è apparsa anche la capacità dialogica di Campanella che, mantenendo il pianoforte su un livello di parità con gli archi, ha messo a frutto la sua visione di concertatore nell’orientare e calibrare alla perfezione i volumi, il fraseggio, gli orditi e i rimandi fra tastiera e quartetto. Nell’insieme un’impresa encomiabile che, vista la penuria discografica in materia, meriterebbe di essere incisa.

Nella prima parte del concerto, il Quartetto Indaco ha dato vita al Quartetto per archi n.° 3 in si bemolle maggiore, op. 67 di Johannes Brahms. Titolo di grande repertorio, questa pagina è stata dispiegata dal giovane ensemble – Eleonora Matsuno, violino, Ida Di Vita, violino, Jamiang Santi, viola, Cosimo Carovani, violoncello – con solida consapevolezza degli equilibri e dei dettagli che innervano le rispettive parti. Ecco allora che l’effervescenza del Vivace introduttivo è dipanata attraverso la limpida successione degli innesti tematici, mentre nel secondo movimento è attentamente osservata la necessaria, assorta condotta melodica. Un certo clima riflessivo affiora anche dal profilo discontinuo e dai gesti danzanti del terzo movimento, Agitato, prima che l’inquietudine del quarto e ultimo episodio impegni gli esecutori nel garantire la limpidezza della serie di variazioni che suggellano il lavoro. È una linea interpretativa dalla quale si evince che il Quartetto Indaco, nato in seno alla Scuola di Fiesole fondata da Piero Farulli, guarda attentamente all’imperitura lezione dello storico Quartetto Italiano. E questo fa piacere.