Giuseppe Verdi (1813–1884)
Don Carlo (1884)
Dramma lirico in quattro atti
Prima rappresentazione 10 gennaio 1884, Teatro alla Scala, Milano
Libretto di Joseph Mery e Camille du Locle, traduzione italiana di Achille de Lauzières, dal dramma di Schiller Don CarlosInfant von Spanien.

Direttore Myung-Whun Chung
Regia Robert Carsen
Assistente alla regia e movimenti coreografici  Marco Berriel
Scene Radu Boruzescu
Assistente alle scene Serena Rocco
Costumi Petra Reinhardt
Luci Robert Carsen e Peter Van Praet

Filippo II Alex Esposito
Don Carlo Piero Pretti
Rodrigo marchese di Posa Julian Kim
Il grande inquisitore Marco Spotti
Un frate Leonard Bernad
Elisabetta di Valois Maria Agresta
La principessa Eboli Veronica Simeoni
Tebaldo Barbara Massaro
Il conte di Lerma Luca Casalin
Un araldo reale Matteo Roma
Una voce dal cielo Gilda Fiume
Deputati fiamminghi Szymon Chojnaki, William Corrò, Matteo Ferrara, Armando Gabba, Claudio Levantino, Andrea Patucelli

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti

Allestimento Opéra national du Rhin Strasbourg
e Aalto-Theater Essen

Venezia, Teatro la Fenice il martedì 3 dicembre 2019

Apre la stagione lirica 2019/2020 della Fenice una produzione realizzata per l’Aalto Theater di Essen : Don Carlo di Giuseppe Verdi nella seconda versione : quella in quattro atti e in lingua italiana concepita per il Teatro alla Scala nel 1884, seguita alla colossale prima in cinque atti e in lingua francese di diciassette anni prima. Una lettura sontuosa e profonda, riuscita sotto ogni punto di vista.

Autodafé

Don Carlo fa paura : Verdi sembra scoprire le carte e spalancare uno squarcio sui suoi rovelli in un soggetto a malapena adatto per il palcoscenico. A Schiller Don Carlos Infant von Spanien riesce male, farraginoso ed eterogeneo, ma al melodramma – luogo per eccellenza dell’assurdo – questo non spaventa : la musica ne fa un colosso di profondità.

Opera grave, a partire dalla predominanza delle voci maschili. Opera austera, in cui Verdi si compiace di ricercare le sonorità antiche e sacrali di ottoni e cori virili. Opera in cui i tre grandi irrazionali entrano in gioco, in un bilanciamento inusitato e terribile : l’amore, che muove le azioni dei detentori del potere terreno, la brama di potere, così arditamente rivisitata da Carsen, la fede, che a quest’ultima soggiace.

Il Don Carlo alla Fenice si svolge come un atto di pressoché totale rispetto nei confronti del testo verdiano : tutto è volto a far parlare da sé una partitura tanto completa e in sé pienamente drammatica. La direzione di Chung esalta la meraviglia sinfonica insita nella partitura : come di consueto dirige a memoria e non manca di porre in risalto le cesellature di interventi solistici e dei delicati ensemble cameristici ; dà voce con dedizione e attenzione alla più complessa tra le partiture verdiane, con gusto ed esattezza.

Le scene (curate da Radu Boruzescu) compiono un autentico miracolo : riescono sontuose pur nella più totale sobrietà. Il palcoscenico della Fenice è vuoto. O meglio : è interamente occupato da un’enorme scatola nera decisamente inclinata, dotata di minimi interventi scenici : alcune aperture a scomparsa su due livelli, una scrivania-altare centrale e due parallelepipedi laterali pure a scomparsa, una sedia-trono. Tutto è simmetrico, nero e definito dalla luce, una luce che – vista la scarsità monastica degli elementi messi in gioco – necessita di una regia magistrale come quella di Peter Van Praet.

Uno spazio da cenacolo leonardesco

Uno spazio da cenacolo leonardesco : una prospettiva centrale ricavata geometricamente, in cui altrettanto geometricamente si muovono i personaggi. Tutti i costumi (opera di Petra Reinhardt) sono in nero, caratterizzati con sapienza da pochi accorgimenti : lunghe tonache per gli spagnoli cattolici, giacca e pantaloni per i fiamminghi calvinisti, saio pseudo-domenicano per l’Inquisitore ; una giacca più o meno lunga o una fusciacca per differenziare i protagonisti. Unico elemento di colore : il velo bianco di Elisabetta. Minimale anche l’oggettistica : il quasi onnipresente teschio, i libri vittima di rogo ; grandiosa la bizantina vestizione di Filippo con spada, palladio e triregno, nera icona vivente di potenza totale.

Atto primo : coro di donne di corte (I,2)

Le scene di massa hanno l’effetto di gloriosi tableaux vivants : dal compianto sulla bara di Carlo V in apertura, all’inquietante selva di mitre del seguito dell’Inquisitore, che ricorda – e forse cita – in negativo il Carpaccio di S. Orsola. Il fasto visivo fa il paio con un cast perfettamente all’altezza di interpreti centrati nel loro ruolo e talentuosi, affatto privi di ambizioni divistiche ; un cast che paradossalmente spicca per la sua sobrietà. Ciascuno lavora il proprio personaggio con l’asciuttezza di una recitazione compassata, priva di gesti grandiloquenti, con grande cura per la dizione e l’articolazione di un libretto autenticamente aulico.

Julian Kim (Posa) e Marco Spotti (Grande Inquisitore)

Piero Pretti è un Don Carlo problematico e introspettivo, pulito nella vocalità, non sempre massimamente sonoro, specie nei duetti con Julian Kim, baritono stentoreo che di quando in quando lo sovrasta. Per il resto, anche lui convince abbondantemente nel suo Rodrigo, che – nella geniale trovata di Carsen – è una pedina nelle mani dell’Inquisitore che finge la sua morte per usurpare il trono di Spagna. Un ribaltamento completo del personaggio che può suscitare disaccordi, ma la cui pertinenza drammatica risulta pienamente convincente.

Alex Esposito (Filippo II)

Di Alex Esposito, a voler cercare il pelo nell’uovo, si può dire solo che ha una voce troppo giovane per il ruolo di Filippo II, che – del resto, nel dramma è sempre e prima di tutto figlio di Carlo V. Un po’ troppo agile il nonuagenario Grande Inquisitore, cui manca l’andatura dipinta dalle viscere dell’orchestra ; Marco Spotti si scoordina con l’orchestra nella sua perorazione nei confronti del Re, ma è l’unico neo in un’interpretazione riuscita.

Maria Agresta (Elisabetta)

Elegante Maria Agresta nei panni di una regina consorte tormentata e infelice, esatta e pulita la principessa Eboli di Veronica Simeoni, cui la regìa conferisce il peso drammaturgico che merita.

Maria Agresta (Elisabetta) e Veronica Simeoni (Eboli)

In sintesi : un Don Carlo sontuoso, elegante nella sua totale austerità. Una lettura registica originale e coerente, che prende posizione e ricorda che l’opera non è solo splendida evasione. Un lavoro all’insegna del rispetto per il magistero primo e centrale, tra i molti e validi accorsi in questa produzione : quello di Giuseppe Verdi.

Autodafé

 

Mauro Masiero
Mauro Masiero (16 Aprile 1987) compie studi musicali, linguistici e musicologici. Nel corso della carriera universitaria approfondisce sia dal punto di vista filologico ed ermeneutico che dal punto di vista musicale e analitico il rapporto tra letteratura, poesia e musica, con particolare attenzione all'area germanofona. Dottorando in Storia della musica presso l'università Ca' Foscari di Venezia, collabora con diversi enti musicali e culturali della città tenendo lezioni, ascolti guidati e redigendo articoli e note di sala : l'Associazione Richard Wagner, la Fondazione Ugo e Olga Levi, Asolo Musica. Interessato alla divulgazione, dal 2014 realizza il programma radiofonico Radio Ca' Foscari Classica per la web-radio dell'ateneo veneziano, ritrasmesso su La Fenice Channel. Segue con particolare interesse le produzione operistiche, i concerti di musica sinfonica e cameristica.

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1 COMMENTAIRE

  1. Son d’accordo sulla direzione di Chung.
    Sono un po’ meno d’accordo su parte del cast, ma alla fine convengo che la sostanziale omogeneità di intenzioni e la sobrietà di tutti danno all’opera una prospettiva di cupa introversione che convince.
    In questo quadro, non mi permetto di criticare l’assenza dell’aspetto coloristico del cerimoniale barocco e fastoso, che pure c’è nel Don Carlo ; quindi sono anche d’accordo sulla grande efficacia delle scene e delle luci.
    Il problema è nella regia ; perché sostenere una interpretazione monocromatica e penitenziale di un’opera che, per quanto offerta nella versione in quattro atti, rimane sempre di ragguardevoli dimensioni temporali, è difficile se non riesci a mantenere alto il livello di tensione.
    Nel nostro caso, il regista si è avvalso di qua e là di espedienti piuttosto banali : si sa che l’Inquisizione è cattiva e ha lo sguardo ovunque, ma disseminare dappertutto fratacchioni, preti e suorine è ribadirlo noiosamente, un di più scontato, nella convinzione che il concetto debba essere inculcato a gente che non capisce ; e si sa che Filippo II intende mettere a ferro e fuoco le Fiandre, ma fargli uccidere (come al solito, di questi tempi, a pistolettate) gli ambasciatori è francamente un inutile eccesso.
    Ma passi in un contesto in cui le sinistre problematiche di potere hanno un peso drammaturgico preminente, i personaggi si muovono bene in scena, le scene di massa sono suggestive, con azzeccati movimenti coreografici : la perfezione non è di questo mondo, e qualche caduta di gusto è sopportabile.
    Quello che però rovina il complesso, anche quello di bello che c’era prima, rendendo banale tutto al di là degli espedienti, è la trovataccia finale : non ardita rivisitazione, ma un presuntuoso stravolgimento del significato dell’intera opera : tutto quello che Verdi ha messo in musica grande e commossa per esaltare l’amicizia tra Carlo e Posa, la generosità e lo spirito di libertà di quest’ultimo e i suoi ambigui rapporti con Filippo, il regista ha cercato di spianarlo a favore di una ideuzza (Rodrigo astuto traditore per farsi lui stesso Imperatore e strumento nelle mani dell’Inquisitore) che contrasta anche con la logica dei comportamenti di tutti e la problematica ideale e umana del dramma.
    Peccato appunto per lo spreco di quello che di bello c’era prima. Ma per fortuna la eccelsa musica non si è lasciata spianare

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