Giuseppe Verdi (1813–1901)
La Traviata (1853)
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave
Prima rappresentazione assoluta il 6 marzo 1853 alla Fenice di Venezia

Zubin Mehta, direttore d’orchestra
Davide Livermore, regia
Giò Forma, scene
Mariana Fracasso, costumi
Antonio Castro, luci
D‑wok, video

Violetta Valery, Nadine Sierra
Alfredo Germont, Francesco Meli
Giorgio Germont, Placido Domingo
Flora Bervoix, Caterina Piva
Annina, Caterina Meldolesi
Gastone, Luca Bernard
Barone Douphol, Francesco Samuele Venuti
Marchese d’Obigny, William Corrò
Dottor Grenvil, Emanuele Cordaro
Giuseppe, Alfio Vacanti
Domestico di Flora, Egidio Massimo Naccarato
Commissionario, Giovanni Mazzei

 

Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini

Firenze, Teatro del Maggio, Recita del 5 ottobre 2021, ore 20

Tre ore prima dell’inizio dello spettacolo è arrivata la comunicazione che La Traviata sarebbe stata eseguita senza orchestra, per lo sciopero indetto da un sindacato. Una grande delusione, perché la maggiore attrattiva di questa edizione del capolavoro verdiano era la direzione di Zubin Mehta, che – sebbene talvolta criticato da coloro che identificano la fantomatica ‘tinta verdiana’ in un piglio sempre iperdrammatico, battagliero, corrucciato – conosce tutte le sfumature della drammaturgia verdiana, anche quelle più liriche, intime e dolenti, che sono prevalenti nella storia di Violetta. Ma c’erano varie altre buone ragioni per ascoltare questa Traviata, a cominciare dal debutto di Nadine Sierra nel ruolo della protagonista.

Atto primo

L’interpretazione della cantante americana è stata giudicata in modo estremamente favorevole dalla maggioranza di chi ha ascoltato la prima, ma questo giudizio può essere condiviso solo in parte da chi ascoltato questa recita dimidiata. Non si direbbe però che la Sierra fosse disturbata più di tanto dalla mancanza del sostegno dell’orchestra, perché la sua sicurezza era totale. La voce è straordinaria : la si potrebbe definire un lirico-leggero, ma non ha assolutamente l’esilità che costituisce il fascino e il limite della maggior parte di questa categoria di soprano, perché il timbro è ricco di armonici in tutto il registro – non è affatto un campanellino negli acuti né perde consistenza nel grave –  e il volume è tale che non avrebbe avuto il minimo problema a farsi sentire al di sopra dell’orchestra. Semmai il problema sta nell’interpretazione. Il fraseggio è piuttosto monocorde, limitato nelle sfumature dinamiche e povero di accenti atti a valorizzare pienamente il valore espressivo delle parole : forse questo non sarebbe gravissimo nelle opere di bel canto, ma in Verdi, e soprattutto in Violetta, è difficilmente perdonabile.
Nell’aria che chiude il primo atto la Sierra non trasmette nulla dei palpiti e dell’incertezza provocate nel suo cuore dalla nascita di un sentimento a lei sconosciuto qual è il vero amore. Sfoggia – è vero – delle belle mezze voci, ma sono soltanto una dimostrazione delle sue capacità vocali. E imperdonabilmente chiude quest’aria con un’orribile cadenza di smaccato esibizionismo vocale, qui quanto mai incongruo. La successiva cabaletta è puro virtuosismo e si conclude con un mi bemolle acuto, che certamente ci sta, ma non dovrebbe essere tenuto così assurdamente a lungo anche sopra l’accordo finale. In tal modo scatena gli applausi entusiastici del pubblico.

Atto secondo, secondo quadro

Nel secondo atto l’uniformità del fraseggio si ripete nel duetto con Germont padre e nel duettino con Germont figlio. Frasi come “Non sapete quale affetto…”, “Ah il supplizio è si spietato”, “Dite alla giovine…” non emozionano. “Amami Alfredo” è il più freddo che abbia mai sentito, ma si conclude con un “Addio!” in cui finalmente si avverte qualcosa che vibra nel cuore della Sierra. A questo primo isolato sintomo di un cambiamento ne seguono altri e più frequenti nella seconda parte dell’atto, perché la Sierra esprime con la giusta intensità il dolore e l’ansia di Violetta, prima in alcune singole frasi come “Pietà di me…”, “Questi luoghi abbandonate…” poi in tutto il suo intervento nel grande concertato che chiude l’atto.

Atto terzo, Addio del passato : Nadine Sierra (Violetta)

Sono le avvisaglie di un terzo atto – proprio quello su cui meno si sarebbe scommesso – veramente maiuscolo. Già nel primo dialogo con Annina e il Dottore si ascolta un’altra Sierra, semplice, misurata ma intensa e commovente, che raggiunge un vertice in “Addio del passato”, continua nell’incontro con Alfredo (significativamente più nella scena che nel cantabile) e raggiunge un nuovo culmine al momento della morte “Cessarono gli spasmi del dolore”.
Il giudizio resta sospeso. La Sierra ha tutte le doti (bisogna riconoscerle anche un’ottima presenza scenica) per diventare la Violetta dei prossimi anni e, se ora non ha convinto pienamente, bisogna concederle le attenuanti, perché questo era il suo debutto in un ruolo la cui complessità va molto oltre le pur notevolissime difficoltà vocali e soprattutto perché l’assenza dell’orchestra non può non aver inciso sulla sua interpretazione, sebbene sia impossibile valutare in quale misura.

 

Francesco Meli (Alfredo)

Francesco Meli era Alfredo, un personaggio ideale per lui, anche oggi che è passato a ruoli verdiani più drammatici e vocalmente più pesanti. Con un po’ di malizia si potrebbe dire che, più che interpretare i diversi personaggi, egli interpreta sempre “il tenore”. Però Alfredo non richiede un’interpretazione molto approfondita e sofisticata. È un personaggio che vive delle sue emozioni immediate, sempre, quando vede Violetta e se ne innamora, quando la offende, quando torna da lei pentito. Le sue azioni sono irriflesse, i motivi futili, le conseguenze non calcolate. Raramente questa superficialità di Alfredo è stata espressa in modo più chiaro.

Le voci del 5 ottobre salutano il 2 ottobre (Meli, Sierra, Domingo)

E poi c’era Placido Domingo, che – come ognuno sa – non è un vero baritono ma un tenore che canta da baritono. Per di più era reduce da un’indisposizione, che lo aveva pesantemente condizionato nella recita di tre giorni prima. Ma bisogna riconoscere che ad ottant’anni suonati neanche un baritono vero conserverebbe un timbro baritonale intatto… forse soltanto Leo Nucci, che ha cantato nelle prime recite di questa edizione della Traviata e che però ha appena settantanove anni. Ma, quando si è un artista del calibro di Domingo, la voce un po’ chiara e stanca è un dettaglio ininfluente. I suoi giovani colleghi di questa Traviata avrebbero molto da imparare da lui quanto a fraseggio, accento, espressione : non c’era una parola che non fosse soppesata perfettamente, che non avesse il giusto senso drammatico, come è essenziale in Verdi, perché nei suoi capolavori non c’è una sillaba che non abbia il suo peso, non c’è una virgola messa a caso.

I comprimari erano di buon livello. Il Coro del Maggio Musicale Fiorentino – preparato da Lorenzo Fratini – è un ottimo coro, però si è notato che non tutti erano perfettamente à plomb nel momento in cui gli invitati si congedano dalla festa in casa di Violetta e questa loro difficoltà fa supporre che nel forte non riuscissero a sentire il pianoforte in buca e quindi restassero senza un riferimento sicuro.

È lapalissiano che con l’orchestra questa Traviata sarebbe stata molto diversa. Zubin Mehta era in buca a dirigere le voci, ma della sua interpretazione restavano i tempi e poco altro. Restavano purtroppo anche i tagli della vecchia tradizione, che si speravano superati : tagliati quasi tutti i da capo e tagliata per intero la cabaletta di Giorgio Germont, oltre ad alcuni tagli minori. L’orchestra era rimpiazzata da Andrea Severi, una di quelle persone che restano sempre in ombra – nel programma di sala sono riportati anche i nomi dei figuranti, ma dei maestri preparatori e collaboratori vari non c’è traccia – sebbene abbiano un ruolo determinante nell’esito di uno spettacolo operistico. Era già noto che non fosse un semplice pianista accompagnatore ma un pianista completo e infatti non si è limitato ad accompagnare ma ha ottenuto col suo pianoforte una pienezza a tratti quasi sinfonica. Non gli si poteva chiedere di non far rimpiangere l’orchestra eppure c’è quasi è riuscito nel terzo atto, quando Verdi cerca un suono che progressivamente (con l’interruzione di “Parigi, o cara”, che personalmente ho sempre trovato un po’ fuori luogo in quel contesto) diventa l’ombra, il fantasma del suono di un’orchestra.

Atto primo : Nadine Sierra (Violetta)

Paradossalmente le uniche note stonate venivano da chi non era stato minimamente toccato dallo sciopero dei professori d’orchestra, cioè Davide Livermore, che tuttavia non ha stravolto l’intera opera, come altre volte, ma solo alcuni punti.  Non credo che ambientarla nella Parigi del 1968 possa scandalizzare qualcuno, d’altronde chi ricorda di aver mai visto una Traviata ambientata negli anni in cui si dovrebbe svolgere la storia della Dame aux camélias, cioè l’epoca di Luigi Filippo ? Ma è una forzatura eccessiva riportare sui muri gli slogan degli studenti rivoluzionari del ‘68, come a cercare un parallelo tra le loro aspirazioni e le scelte di Violetta. “Laissez nous vivre” campeggia sulla parete durante la festa del primo atto, ma quella di Violetta e dei suoi invitati non è liberta, non è gioia di vivere ma falsa euforia per nascondere il vuoto della propria vita. Poco più avanti, durante la grande scena di Violetta che chiude l’atto, compare un’altra scritta, “mon corps, mon choix”, totalmente fuori luogo riferita a chi non sceglie liberamente cosa fare del proprio corpo ma lo vende per necessità.

Questa ambientazione porta a stridenti contraddizioni, talvolta grandi e irritanti, talvolta minime e ridicole, come quando il Commissionario si riferisce a questa Violetta in minigonna con le parole “una dama da un cocchio”. E nulla giustifica il totale travisamento della stessa sostanza drammaturgica dell’opera compiuto da Livermore quando fa che Alfredo getti le banconote in faccia non a Violetta ma al barone, trasformando quel detestabile oltraggio a una donna indifesa in una banale rissa tra due guappi, che vengono alle mani e sono separati dall’intervento degli altri invitati. Sono solo alcuni esempi del seguito ininterrotto di trovate di Livermore, che vorrebbero essere nuove, originali, geniali ma sono incoerenti e prive di reali motivazioni.

Moltissimi applausi, che hanno soffocato qualche sporadico ma insistente buh indirizzato a non si sa chi, anche se non è azzardato ipotizzare che il destinatario fosse il regista.

Applauso del 2 ottobre con Zubin Mehta
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Mauro Mariani
Mauro Mariani ha scritto per periodici musicali italiani, spagnoli, francesi e tedeschi. Collabora con testi e conferenze con importanti teatri e orchestre, come Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Real di Madrid. Nel 1984 ha pubblicato un volume su Verdi. Fino al 2016 ha insegnato Storia della Musica, Estetica Musicale e Storia e Metodi della Critica Musicale presso il Conservatorio "Santa Cecilia" di Roma.

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