Gaetano Donizetti (1797–1848)
Il diluvio universale (1830)
Azione tragico sacra di Domenico Gilardoni
Prima esecuzione : Napoli, Real Teatro di San Carlo, 6 marzo 1830
Edizione critica della versione di Napoli a cura di Edoardo Cavalli © Fondazione Teatro Donizetti

Direttore Riccardo Frizza
Progetto, regia, regia in presa diretta e costumi MASBEDO
Drammaturgia visiva Mariano Furlani
Scene 2050+
Movimenti scenici Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco
Light designer Fiammetta Baldiserri

Noè Nahuel Di Pierro
Jafet Nicolò Donini
Sem Davide Zaccherini
Cam Eduardo Martínez*
Tesbite Sabrina Gárdez*
Asfene Erica Artina
Abra Sophie Burns
Cadmo Enea Scala
Sela Giuliana Gianfaldoni
Ada Maria Elena Pepi*
Artoo Wangmao Wang


Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del Coro Salvo Sgrò

Orchestra Donizetti Opera

*Allievi della Bottega Donizetti

Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti
in collaborazione con la GAMeC di Bergamo per Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023

Si ringraziano Fondazione In Between Art Film e Motta&Partners per il sostegno alla produzione dei video di MASBEDO

Bergamo, Teatro Donizetti, sabato 25 novembre 2023, Ore 20.

In programma per questa edizione 2023 c'è Il diluvio universale, un'altra opera rara di Donizetti un po' meno dimenticata di Alfredo il Grande, perché ebbe poche rappresentazioni dopo la sua prima a Napoli e fu ripresa nel 1834 al Teatro Carlo Felice di Genova con modifiche, a Parigi nel 1837, e ripresa una volta, di nuovo a Genova nel 1985 (con incisione in seguito) e più recentemente a Londra nel 2005. Una carriera molto breve per un'opera creata il 6 marzo 1830, pochi mesi prima della prima milanese di Anna Bolena, che segnò l'inizio degli anni d’oro di Gaetano Donizetti. 

Ormai trentenne, ha già prodotto opere a noi più note, tra cui L'aio nell'imbarazzo (1824, Roma), vista al Festival 2022, ed Elisabetta al castello di Kenilworth (1829, Napoli). Si può dire che la scrittura abbia raggiunto la sua piena maturità, e in effetti Il diluvio universale è un'opera di indiscutibile grandezza, una rara incursione di Donizetti nel repertorio sacro come il Mosè di Rossini (e il Moïse et Pharaon, presentato a Parigi nel 1827), che richiede risorse sceniche e musicali non indifferenti.
È questo il biglietto da visita del Festival 2023, che si è aperto con una produzione esattamente opposta, in termini di risultati, a quella di
Alfredo il Grande che abbiamo appena recensito.
Il confronto è reso ancora più facile dal fatto che l'allestimento di base è lo stesso : una pedana dominata da un enorme schermo video, oltre a la struttura metallica che scende dalla passerella.
Ma laddove avevamo un'opera fluida e una presentazione video chiara e vivace, ora ci troviamo di fronte a un dispositivo appesantito da video filmati e altre riprese dirette, invasivo, come si direbbe oggi, che con la sua pesantezza cancella la trama teatrale, ne impedisce addirittura lo sviluppo, nonché la leggibilità, la rende a volte ridicola e al limite del sopportabile per la sua pretenziosità e il suo scadente moralismo.
Peccato perché, ancora una volta, la musica è invece all'altezza del compito, con un cast allettante che non delude e un'orchestra del Donizetti Opera puntuale nel suo compito, guidata dal suo direttore musicale, il donizettiano per eccellenza, Riccardo Frizza, che si trova a suo agio in questo stile quasi oratoriale.
Ma una cosa è certa : i teatri farebbero bene a interessarsi a un'opera che ha molte carte in regola per soddisfare il pubblico di oggi.

  

Contesto della composizione

Sembra che sia stato lo stesso Donizetti ad avere l'idea di questo Diluvio universale da rappresentare durante la Quaresima a Napoli. Infatti, dal 1785, invece di chiudere i teatri durante la Quaresima, come era prassi ovunque, a Napoli si proponevano opere a tema biblico, senza balletto. Sebbene questa pratica si sia un po' affievolita durante il periodo napoleonico, fu ripresa al ritorno dei Borboni. Il Mosè in Egitto (1818) di Rossini fu rappresentato durante la Quaresima e ripreso più volte. Donizetti conosceva bene l'opera, così come la sua ripresa parigina modificata nel 1827 con il titolo Moïse et Pharaon. Tali soggetti consentivano anche effetti scenici impressionanti (il passaggio del Mar Rosso per Rossini, il diluvio per Donizetti) che mettevano in mostra le capacità tecniche del teatro. In realtà, alla prima di entrambe le opere, gli effetti non riuscirono, ma non importava, suscitavano curiosità.

Lorenzo Lotto, Il diluvio universale, Santa Maria Maggiore, Bergamo

È possibile che l'idea gli sia venuta dai ricordi d'infanzia della tarsia di Lorenzo Lotto nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo, ma se leggiamo le sue lettere al padre, Donizetti cita la tragedia di Francesco Ringhieri del 1783 (Il diluvio universale), da cui ha tratto la maggior parte dei personaggi e che ha ispirato il suo librettista Domenico Gilardoni. L'idea non era solo quella di creare un'azione biblica sul diluvio, ma di accompagnarla con una possibile trama per un'opera. Riprese da Ringhieri l'idea di contrapporre il profeta Noè a Cadmo il satrapo, e lui stesso trasse dalla sua esperienza delle tragedie dell'epoca l’idea del tradimento dell’amica Ada verso Sela, moglie di Cadmo di cui Ada era innamorata.
In una lettera al padre cita anche il Maître de Sacy, il padre benedettino Augustin Calmet e Lord Byron come fonti di ispirazione. Da notare anche il numero insolito di personaggi, cosa abbastanza sorprendente rispetto alla prassi abituale del compositore.
A dimostrazione di quanto Donizetti fosse legato al soggetto, ne diresse con cura lo sviluppo e la trama, elaborò il piano e lo consegnò al suo librettista, di cui supervisionò da vicino il lavoro.

Il risultato è una trama che mescola l'aspetto biblico, con Noè profeta che affronta Cadmo pagano che sguazza nel peccato, e che annuncia il flagello finale che colpisce i malvagi, e quello privato, con Sela, moglie di Cadmo, convertita al Dio di Noè, tradita dalla sua migliore amica Ada innamorata di Cadmo e che gli sussurra all'orecchio che Sela si è convertita per amore di Jafet, uno dei figli di Noè. Cadmo, come tutti i mariti teatrali dai tempi di Otello, le crede subito senza batter cilio, tanto più che disprezza sua moglie per la sua fede e minaccia di bruciare l'Arca di Noè, appena completata.

Tutto è male quel che finisce male (non può che finire con il diluvio, almeno per necessità di effetto drammatico e teatrale). Ripudiata dal marito, che si rifiuta di farle vedere il figlio e decide di sposare Ada, Sela finalmente ritratta la sua fede per rivedere il figlio, ma non appena ha ritrattato, cade morta e Dio scatena il diluvio sulla terra, salvando solo l'Arca.

In realtà, proprio vicino a Noè, il cui ruolo è quello di annunciare l'imminente diluvio a tutti e soprattutto a chi non ci crede, Sela è l'altra protagonista dell’opera, costretta da un marito cattivo che sguazza nella lussuria, negli eccessi e in tutto il resto, e tradita dalla sua confidente e amica.

Attraverso Noè, contempliamo la minaccia che incombe su tutta l'umanità, e attraverso Sela, la rovina dell'umanità peccatrice che fa finta di ignorare gli avvertimenti. L'interpretazione di Donizetti della Bibbia è semplice assai : ci sono i Buoni e i Cattivi, i Buoni vincono, i Cattivi fanno la bella nuotata e le vittime (Sela) ci vanno di mezzo.

Impianto scenico

 

La tesi sostenuta a colpi di martello dalla messa in scena

Quel modo ironico di riassumere, lo uso solo per trasmettere un po' del tono profetico della produzione, che ha deciso di trasporre questa trama trasformandola in una metafora di un'umanità senza cervello che ignora la minaccia ecologica e continua imperterrita a far marcire gli oceani, a distruggere flora e fauna, a ingozzarsi senza pensare alla natura e al futuro con un'arroganza che finirà in una catastrofe. È facile trasporre il diluvio nei fenomeni naturali di innalzamento delle acque che conosciamo oggi (tsunami, alluvioni mostruose, ecc.) e vedere nei pagani malvagi quell’umanità (cioè noi) che si crogiola nel benessere presente senza (o rifiutandosi di) vedere il male del futuro.
La tematica non è assurda, anzi, molto attuale : in questo momento ad esempio c’è la COP28, verice sul clima nel Paese dell'Oro Nero : i profeti del riscaldamento globale contro coloro che si godono il qui e ora (e difendono il petrolio e tutti gli altri vettori energetici fossili ). Visto che il regista vuole modestamente mettere in scena l'ultima cena dell'umanità, balliamo, o in questo caso mangiamo, sul vulcano, Biblici si nasce.
Questa, in linea di massima (e vista la messa in scena, massima è la parola giusta), è l'idea alla base della  regia di MASBEDO.
Dietro questo acronimo si celano Nicolò Massazza e Jacopo Bedogni, che lavorano insieme dal 1999, utilizzando una varietà di linguaggi – essenzialmente video e film, ma anche performance visiva, lavoro sul suono e così via – un polimorfismo che hanno cercato di applicare all'azione scenica sacra di Donizetti, di cui sono responsabili per la messa in scena, il video dal vivo e i costumi. Per la "drammaturgia visiva" si sono avvalsi dell'aiuto di un drammaturgo, Mariano Furlani (vista la povertà drammaturgica di tutta la faccenda non era per forza prevedibile che esistesse una “drammaturgia visiva”), e per le scenografie di 2050+, "un'agenzia interdisciplinare", si legge sul loro sito web, "che lavora nei campi del design, della tecnologia, dell'ambiente e della politica".
Da tutti questi crediti russanti, ci si aspetterebbe una montagna di genio creativo, ma in realtà ha partorito un topolino.


Le ragioni del problema

Non è un'idea assurda trasporre questa storia e trasformare la minaccia biblica in catastrofe ecologica, anche se l'aspetto sacro sparisce a favore del profano. Ma sappiamo anche che le catastrofi bibliche nascondono eventi più umani o terreni la cui natura è stata modificata dalla storia, dalla tradizione, dalla trasmissione e dalle credenze.

Performance fuori sala

Come quasi sempre accade al Festival Donizetti, lo spettacolo è preceduto da una performance davanti al teatro, che può essere divertente o ironica, ma qui è più seria. Un gruppo di giovani vestiti con poncho di plastica impermeabili, alcuni dei quali con schermi LED sulla schiena che mostrano video profetici che rivediamo in sala e poi sul palcoscenico, ci avvertono che si tratta di una cosa seria. Il problema è che il pubblico che arriva a teatro un po' abituato a questi spettacoli ovviamente non li prende sul serio come l’ennesimo carro di Dulcamara.

Se l'idea è accettabile, persino seducente, la sua traduzione scenica la annega totalmente (il termine è scelto ad hoc). Questo spettacolo finisce per ottenere l'effetto opposto a quello voluto, costringere lo spettatore a prendere coscienza della catastrofe ecologica. In altre parole, per riprendere la retorica dei nostri politici meno ecologisti, è una dura punizione, un'ecologia punitiva che ci viene inflitta attraverso disastri, pesci morti, cumuli di plastica provenienti dal settimo continente, reti da pesca che sono trappole per tutti pesci e anche il fondale marino, ma anche scene video nello stile delle nature morte fiamminghe del cinque- o seicento, composizioni moderne che imitano vecchi dipinti, in cui vediamo ripetutamente pollame morto spennato o un pesce sventrato da due mani guantate di lattice nero, con la leggerezza di un thriller a tre soldi.

unmanità piccola e video invadente 

Queste immagini, proiettate su uno schermo allo stesso modo dell'Alfredo il Grande del giorno precedente, con davanti un palcoscenico su cui si svolge la trama, hanno un effetto repulsivo, talmente invadente, da sovrastare totalmente ciò che accade in scena, con l'occhio continuamente messo alla prova da questa successione insopportabilmente pesante, per di più montata in modo sommario (tante competenze per un tale risultato?), che finisce per irritare o far sorridere amaramente.
E come da coppione il destino ha voluto che l'inizio del secondo atto, dopo l'intervallo, fosse interrotto da varie grida di protesta dei numerosi spettatori presenti in sala, che urlavano contro l'invasione non di plastici ma di video.


Povertà drammaturgica

Ma se i video sono insopportabili, è anche a causa della scarsa drammaturgia di ciò che viene rappresentato sul teatro. I responsabili della produzione sono così intenti a presentare le loro tesi con un diluvio di immagini che dimenticano che in teatro è appunto il teatro ad avere la precedenza, e che il video è efficiente solo se serve attivamente e funzionalmente alla drammaturgia, come nel caso di registi visionari come Frank Castorf o Tobias Kratzer.
Tuttavia, in un certo senso ha peccato a Bergamo Masbedo nello stesso modo in cui la team di Sebastian Baumgarten ha peccato al Festival di Bayreuth una decina di anni fa con il Tannhäuser di Wagner visto come un'installazione artistica dell'Atelier (Joep) Van Lieshout, confondendo il teatro con l'installazione artistica.
Qua il palcoscenico viene pomposamente allestito con strutture metalliche, illuminato in modo glaciale e difficile da gestire, perché richiede un gran numero di tecnici per mescolarsi alle comparse quando l'Arca (una sorta di palcoscenico metallico sospeso, delimitato da ringhiere che devono essere abbassate e sospeso da corde che devono essere slegate) un'Arca con una doppia funzione in quanto, calata dalle grucce, funge da secondo palco per l'ultima cena dell'umanità. Possiamo intuire quando scende che questa sarà l'Arca, ma nulla lo dice all'inizio, e la confusione è rafforzata anche dal fatto che è fisicamente impossibile vedere chi è chi : sono tutti vestiti più o meno allo stesso modo, la famiglia di Noè, i pagani malvagi, Cadmo, e solo le donne si distinguono un po'.

nea Scala (Cadmo), Giuliana Gianfaldoni (Sela) : il cattivo strappa la fede alla mogliee la ripudia

Mentre tutti si muovono nello stesso spazio, a volte affidato ai buoni e a volte ai cattivi e a volte tutti insieme, il tutto diventa totalmente illeggibile.

La messa in scena di Moïse et Pharaon di Rossini di Tobias Kratzer ad Aix en Provence nel 2022 è stata molto criticata, ma visto che nell’opera c’è una struttura drammaturgica simile, con gli ebrei buoni da una parte e gli egiziani cattivi dall'altra, sul palcoscenico era ben visibile, diviso in due spazi chiari. Qui tutto è in tutto, a dispetto della leggibilità scenica.
Ne risulta una proposta pretenziosa, ma non una vera regia teatrale.

I movimenti degli attori e la recitazione si limitano al conformismo dell'opera di papà, le braccia tese con le mani sul cuore, i cantanti lasciati badare a se stessi, il coro disposto davanti o intorno allo spazio di recitazione, senza una funzione chiara e senza alcun movimento se non quello di guardare un’azione che non si muove.
I registi si sono dimenticati di essere in teatro, completamente presi dai loro pesci sventrati e dalle loro plastiche da settimo continente. Ho persino il sospetto che lo abbiano fatto con un pizzico di condiscendenza del tipo “non possiamo interessarci a Donizetti quando un disastro universale è dietro l'angolo…”

La mantide religiosa, forse simbolo di Ada) viene esibita in video per lunghissimi minuti senza mai più collegamento con quello che sucede davanti a noi

Ricorderò con insistenza e non senza ironia quello che un vero regista teatrale come Tobias  Kratzer (mai invitato in Italia… ça va sans dire) aveva costruito per tradurre, in Moïse et Pharaon, sia l'idea della migrazione, della miseria, della disgrazia degli ebrei da un lato sia quella dell'oblio (quell'oblio che Masbedo enfatizza e rimprovera qui con una mazzata) dall’altro : bastava l’immagine finale, tremenda : il bastone di Mosè dimenticato su una spiaggia dove la gente sana e salva faceva il bagno incurante di tutto sotto ombrelloni dai colori ucraini.  È una soluzione puramente teatrale, molto più potente, molto più efficace nel creare disagio nel pubblico.
Masbedo invece crea solo fastidio per rifiuto delle leggi elementari del teatro.
Poi si può certo leggere tutto quello che volevano trasmettere con la loro scenografia di metallo e video, vista come una prigione tecnologica in cui siamo rinchiusi, la cui difficoltà di gestione è una metafora della difficoltà di uscirne. Vabbé…

Noè e i suoi figli su uno sfondo di video e dell'Arca sospesa

Nella seconda parte, i video dei disastri ecologici passano in secondo piano, lasciando più spazio al video dal vivo e a una visione degli ultimi giorni dell'umanità non in stile Karl Kraus (magari!), e a questo grande tavolo, pieno di cibo, che dovrebbe essere il tavolo del matrimonio di Ada e Cadmo, il tavolo degli spensierati.

Avevamo prima il tableau vivant di una natura morta in video ; abbiamo adesso il tableau vivant di una società corrotta in video dal vivo, persa in atteggiamenti languidi e metafore dei peggiori eccessi, della bocca, certo, ma anche sessuali. Poiché i riferimenti sono ricchi, non siamo così lontani da Petronio e dalla suo banchetto di Trimalcione quanto da colui che l'ha immortalata al cinema, Fellini nel suo Fellini-Satyricon. Qua  l'eccesso di cibo viene metaforizzato da quantità di gelatina che inducono al vomito e che riempiono le viscere di un maiale, o montagne di gelatina inglese multicolore che arricchiranno il tavolo attorno al quale le comparse si fissano con occhi carichi di allusioni, le signore dalla bocca larga e invitante rispondono agli sguardi intingendo le dita nella gelatina in mancanza d'altro, leccandosi languidamente. Ridicolo e pietoso. E i registi sostengono per di più che uno dei modelli sia Festen di Thomas Vinterberg, girato nel 1998…

È come se si usassero metafore sceniche trite e ritrite per mancanza di audacia visiva, con il risultato che nessuno degli obiettivi prefissati viene raggiunto, per un eccesso di arroganza fuori luogo. Le nozze de Sennáar (la città di Cadmo) dovevano almeno stupire con i loro eccessi o scioccare. Nel migliore dei casi ci fanno sorridere, nel peggiore ci intristiscono con la loro mancanza di giudizio.
Il difetto di quest'opera è evidente : invece di fare spettacolo, si è voluto impartire una lezione.
Dare una lezione in teatro è il contrario del teatro.

Nahuel di Pierro (Noè) immagine finale

La conclusione lascia perplessi.
I macchinisti tornano a poco a poco a riattaccare le corde e ad alzare le ringhiere in modo che il "secondo palcoscenico" torni a essere L'Arca, le persone da salvare sono lì (la famiglia di Noè…senza Noè), e l'Arca si solleva, lasciando il tavolo un po' in disordine sotto di sé, le comparse, il cattivo Cadmo e l'eroina Sela, che he crolla dopo aver rinnegato la sua fede, mentre Noè sta sul tavolo a contemplare la catastrofe, i cattivi pagani tutti morti, e sul video un dipinto del diluvio in proiezione, molto meno acquoso di tutto ciò che avevamo visto prima.
In altre parole, un diluvio senza acqua e un'Arca senza Noè, dimenticato sulla terra come quei cani che si dimenticano in una area di servizio sulle autostrade estive…
Avvertiamo che dietro c'è un pensiero troppo potente per noi. Ci arrendiamo al genio.
Uno spettacolo inutile che deve essere costato troppo denaro per il risultato..

Come i sileni di Platone, la brutta regia nasconde grandi bellezze musicali.

Direzione musicale

La trascendenza biblica sembra adattarsi perfettamente a Ricardo Frizza, che offre una lettura musicale sia in grado di dare all'opera il suo ampio respiro profetico e biblico, sia (quasi paradossalmente) di accompagnare una trama che è molto più convenzionale e privata (in ogni caso molto più del Mosè in Egitto di Rossini, che mostra un intreccio migliore per collegare gli eventi biblici alle relazioni più intime tra i personaggi). Frizza ha infatti accompagnato sia le masse corali (l'eccellente Coro dell'Accademia della Scala diretto da Salvo Sgrò) sia i solisti, sostenendoli efficacemente e facendo emergere il meglio di una partitura ingiustamente trascurata. Lo si capisce fin dall'introduzione, inizialmente solenne e maestosa, che prepara il terreno per l'opera e le sue ambizioni in tutta la loro diversità, con i suoi accenti cupi all'inizio che ricordano certe frasi beethoveniane, ma pur rimanendo fedele a un modello rossiniano ma anche con un sinfonismo piuttosto originale dove si dimostra uno stile più “donizettiano”, pur non negando alcune deviazioni, in particolare nella seconda parte, più danzante e meno nobile, prima delle tradizionali riprese.
Si tratta indubbiamente di un pezzo di bravura, seguito da un'entrata del coro che ricorda certi momenti gluckiani.

È negli equilibri con il coro, che accompagna con grande cura, che si percepisce la maestria dello specialista belcantista che è Riccardo Frizza, nel modo in cui modula i volumi affinché le voci emergano senza difficoltà. Questi contrasti ritmici sono forniti con fluidità e felicità e mettono in risalto alcune parti solistiche dell'orchestra, come l'assolo di clarinetto che introduce Ada – lo chiarisce lo stesso Frizza nel programma di sala- ma riflettono anche la volontà di alleggerire l'orchestra per renderla trasparente quando serve, e di darle il ritmo necessario per le parti più tradizionali (concertati, ecc.) che Donizetti ha voluto relativizzare provando un altro stile.

In ogni caso, per quanto mi riguarda, questa è stata una delle esecuzioni orchestrali che più ho apprezzato del Donizetti esperto di Riccardo Frizza, dove sono stati resi tutti i colori di una partitura in cui sentiamo Donizetti un po' rinchiuso (o costretto) nella sua gabbia metallica e sperimentale dell'azione scenica sacra, Sentiamo frasi che saranno presto utilizzate in altre opere, da Anna Bolena a La Fille du Régiment, come spiega lo stesso Frizza nell'intervista riportata nell’eccellente programma di sala.

Ciò che sembra più interessante è che lo sviluppo di Donizetti è parallelo a quello di Meyerbeer, e nello stesso periodo, dopo essere stati completamente affascinati da Rossini, si aprono a uno stile (inaugurato da Rossini) che diventerà o quello del grand-opéra o a uno stile più personale che sarà quello degli anni d’or del Belcanto.

Nel 1830 nascono il Diluvio universale e l'Anna Bolena di Donizetti, un anno dopo trionfano a Parigi il Robert le Diable di Meyerbeer e a Milano Norma di Bellini. Era un periodo in cui i grandi compositori dell'epoca si stavano avvicinando allo stile che li avrebbe resi famosi. Ma è innegabile che Il Diluvio Universale abbia un sapore da Grand-Opera, genere che anche Donizetti affronterà, ed è altrettanto innegabile che il sapore biblico del Mosè di Rossini e del Diluvio universale di Donizetti si rifletterà non molto dopo nel Nabucco di Verdi, una sorta di inaspettato filo conduttore. 

Le voci

Alla prima, il ruolo di Noè fu scritto da Luigi Lablache, una delle leggende della storia dell'opera, e c'era un motivo : lo stile nobile, il fraseggio declamatorio, la potenza dovevano esserci, ma anche l'eleganza. Meno fortunata alla prima fu Luigia Boccadabati (Sela) che provocò un disastro attaccando un concertato con largo anticipo, e fu incolpata dell'infelice destino dell'opera. Resta il fatto che la vocalità dei tre protagonisti, Noè, Cadmo e Sela, è particolarmente impegnativa.

Lo è forse in primo luogo per Sela, un soprano dato per quello che viene definito soprano drammatico d'agilità (come lo erano la Malibran e la Pasta), una categoria che si estende da Lucia di Lammermoor ad Abigaille nel Nabucco. Niente di meno.

Giuliana Gianfaldoni (Sela)

La parte è complessa, varia, richiede un'ampia tavolozza di colori ed è forse il ruolo principale dell'opera (muore nelle battute finali, il che è sempre un segno). È stata Giuliana Gianfaldoni ad affrontare il ruolo con grande sicurezza, una linea vocale impeccabile, acuti sicuri e un fraseggio molto accurato. Il suo canto è controllato e preciso, ma forse manca ancora un po' di incisività e di fuoco, ma è spesso commovente, soprattutto nel finale. In tutta la vicenda, è la vittima di tutto l'intreccio e muore schiacciata dal destino, sola contro tutti, e sostanzialmente senza l'aiuto di nessuno. Ci piacerebbe sentire più espressività, ma resta il fatto che il suo canto è davvero sicuro, con una musicalità impeccabile.

Nahuel di Pierro (Noè)

Lontano successore di Lablache, Nahuel di Pierro è Noè. Conosciamo bene questo cantante, che canta un repertorio essenzialmente barocco e romantico su molti palcoscenici europei con un'onestà e una precisione ineccepibili. Ma non è una delle star vocali di questo repertorio, come Pertusi (che è stato Moïse ad Aix, per esempio), anche se svolge sempre il compito con grinta, precisione e mai un intoppo. Forse ciò è dovuto a un timbro che manca della pienezza necessaria al ruolo, nonostante le notevoli qualità di finezza nel fraseggio e di eleganza che una lunga familiarità con il repertorio settecentesco ha cesellato in lui. Non manca né di dolcezza né di autorità, ma manca di carisma scenico (è vero che la messa in scena…), tanto da sembrare più unus inter pares che primus inter pares. È un Noè umano quello che ci appare e, nonostante i suoi avvertimenti, ricorda Cassandra in mezzo agli increduli. Quindi non si afferma come ci aspetteremmo. Ma forse il Noè di Donizetti è anche un gradino sotto il Mosè di Rossini.

Enea Scala (Cadmo) e in secondo piano Giuliana Gianfaldoni (Sela)

Più in linea con una certa tradizione rossiniana, la vocalità di Cadmo, il tenore malvagio, è affidata a un esperto di canto rossiniano come Enea Scala. Nonostante, per i miei gusti, frequenti troppi ruoli più tardivi, che lo portano a volte a cantare un po' troppo forte, egli mostra una stupefacente padronanza tecnica in cui ha pochi rivali. Ascoltandolo, ho pensato al suo ruolo di quest'estate nell'Edoardo e Cristina di Rossini, dove interpretava il padre (malvagio) di Cristina, Re Carlo. Stesse espressioni, stesse movenze (è vero che in entrambi i casi c'era pochissima direzione attoriale), e uno stile di canto simile (Frizza cita anche Idreno dalla Semiramide) che segna ancora l'influenza di Rossini, impossibile negarlo, ma anche forse l'addio a questo tipo di voce di tenore-villain e a un colore vocale espressivo che però sta passando di moda.
L'interpretazione di Enea Scala è notevole con la sua potenza, gli acuti sicuri, l'omogeneità vocale, la facilità tecnica e l'uso del colore vocale e dell'espressione che lo rendono un interprete praticamente unico di questo tipo di repertorio. Non sorprende che sia un trionfo.

Enea Scala (Noé) Maria Elena Pepi (Ada)

Secondo Ricardo Frizza, Ada la rivale è concepita come la seconda donna, come Giovanna Seymour in Anna Bolena. Non solo sottolinea che non si tratta di un ruolo secondario come i tanti altri presenti in questa partitura, ma Donizetti sta effettivamente sperimentando il confronto tra due donne con qualità vocali diverse, che sarà un elemento forte in alcune delle sue opere future. Qui il ruolo è affidato a una giovane cantante della Bottega Donizetti, Maria Elena Pepi, dotata di una vera presenza scenica nonostante la messa in scena che sovrasta i personaggi, con una voce profonda di mezzosoprano dotata di una bella qualità timbrica e di una notevole eleganza di canto e di espressione.

Infine, vanno menzionati i numerosi ruoli secondari, tutti da elogiare, tra cui altri tre membri della Bottega Donizetti, Davide Zaccherini (Sem), Eduardo Martinez (Cam), Sabrina Gárdez (Tesbite), e gli altri, Nicolò Donini (Jafet), Erica Artina (Asfene) e Sophie Burns (Abra), nonché Wangmao Wang, un Artoo la cui brillantezza vocale è degna di nota.

È però un peccato che la messa in scena non abbia cercato un po' di più di individuare tutti i personaggi ; sarebbe stato forse troppo pretendere da un lavoro che non ha davvero contribuito a far risaltare questo Diluvio universale in questo festival 2023.

Tuttavia, non posso che consigliare ai lettori di recarsi sul sito del Festival Donizetti, alla voce « Donizetti Opera Tube », per scoprire lo streaming (a pagamento) delle opere presentate al Festival 2023, tra cui questo Diluvio universale, che merita almeno un'attenzione per la sua musica e le voci.

 

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