Rigoletto, si sa, è un'opera meravigliosa di un compositore (e un librettista!) in assoluto stato di grazia. Che il pretesto per riproporla al Teatro Massimo di Palermo a soli cinque anni dall'allestimento precedente sia di affidare la regia a un attore famoso al suo debutto nel teatro operistico, con un bagaglio specifico che consiste solo nell'essere un “appassionato di musica”, è di quelli che si ritorcono immediatamente contro chi lo concepisce. John Turturro (Il grande Lebowski, Gigolò per caso) ha infatti l'entusiasmo e l'inesperienza del neofita, messi a disposizione di un'opera che rappresenta la quintessenza del teatro romantico italiano dal punto di vista di una sofisticata dialettica con le convenzioni del genere e con le dominanti espressive del suo autore. L'amore di un padre per la figlia non è solo uno dei temi più sentiti da Verdi, che lo declina in modi diversi e a volte anche contraddittori – c'è traccia di quest'amore persino nel tormentato rapporto tra Germont e Violetta nella Traviata -, ma rappresenta un topos del teatro musicale ottocentesco italiano : il rapporto del baritono con il soprano coinvolge infatti due “tipi vocali” la cui caratterizzazione psicologica viene mediata dalla tradizione. Si possono così accettare sfumature diverse nella resa di una più complessa parte baritonale, in cui la tradizione operistica fa convivere il bene e il male, lo slancio verso la giustizia e una incomprimibile tendenza alle bassezze, gli splendori e le miserie di un padre che è anche uomo maturo e malvissuto, ma quello che non si può fare è rendere il personaggio della fanciulla candida, qual è Gilda, come una ragazza civettuola che si agghinda per l'innamorato facendo mossette che si addirebbero a una cocotte. Il soprano angelico dell'opera italiana non è una ragazza della porta accanto alle prese con la scelta dell'abbigliamento per il primo appuntamento : è per l'appunto un “tipo” operistico in cui la somma delle occorrenze precedenti, e anche di quelle future, contribuisce a creare una stratificazione dei significati.
Ovviamente, privilegiare la resa di Gilda nel senso di una sottolineatura della sua parte femminile è legittimo, ma bisogna essere consapevoli che dietro la sua presunta “umanità” si stagliano tutte le altre eroine romantiche pure di sentimento e disposte al sacrificio, innamorate e caste, premurose e trepide, che somigliano a Gilda come sorelle e la stilizzano nel senso di un'occorrenza in buona parte convenzionale. Fare di Gilda una semplice ragazza innamorata, persino un poco frivola, significa mostrare una totale imperizia nel manovrare gli apparati simbolici del teatro d'opera. Ogni volta che Turturro ha un'idea, si scontra contro una montagna di significati trasmessi dalla tradizione che pesano come macigni anche quando vengono ignorati : la decisione di far muovere i cortigiani a tempo di musica quando interloquiscono con Rigoletto fa pensare più a un musical come A chorus line che all'opera italiana, e le larve nerastre che si agitano nella foresta intorno alla locanda di Sparafucile quando scoppia la tempesta comunicano l'ignoranza di un altro topos operistico – la tempesta – che, in quanto tale, non ha bisogno di essere sottolineato in maniera naïve. Belle, per altro, le scene di Francesco Frigeri, che con il palazzo délabré del Duca evoca in maniera convincente un Ancien Régime in disfacimento, irretito nel vizio e nella violenza perpetrati nella totale impunità – prima che l'angelo vendicatore della Storia renda giustizia a tutte le Gilde con la forza purificatrice della ghigliottina.
Discreta la parte musicale. Ruth Iniesta presta a Gilda uno smalto vocale incontestabile, apprezzabile soprattutto nell'agilità con cui vengono affrontate le difficoltà virtuosistiche della parte (il duetto con Rigoletto “Sì, vendetta, tremenda vendetta”, con l'acuto finale facile e pieno della Iniesta, viene ripetuto a grande richiesta). Le manca però il versante malinconico del personaggio, la nobiltà di chi è destinato al sacrificio, l'aura di sublimità di cui Verdi la circonfonde, e la sua resa diventa veramente soddisfacente solo dal secondo atto, quando il presagio insinuato dalla musica fin dall'inizio come un fremito appena udibile si trasforma prima in dramma – il rapimento, l'invocazione della vendetta – e poi dilaga finalmente in tragedia.
George Petean è un Rigoletto elegante ma forse di timbro troppo chiaro per la parte : non potremmo immaginare contrasto più forte con Leo Nucci, che ha cantato quel ruolo in due repliche. Petean tornisce le frasi in maniera ineccepibile, ma manca di quel fondo torbido nella voce che deve dare a Rigoletto il suo spessore e testimoniare l'ethos contrastato del personaggio. Buoni la Maddalena di Martina Belli e il Monterone di Sergio Bologna, ottimi il Duca di Stefan Pop – ben centrato nella parte di un seduttore spregevole ma di nobili natali – e lo Sparafucile di Luca Tittoto. Stefano Ranzani dirige tutto con sufficiente efficacia ma con i difetti consueti : la paletta dinamica è talmente uniforme che tutte le sfumature vengono appiattite, e i tempi sono troppo veloci. Il desiderio di mantenere vivo l'impulso spinge a volte Ranzani a staccare tempi così rapidi da far degenerare le battute dei personaggi e del coro in un rap forsennato e privo di senso, ed è un peccato perché Francesco Maria Piave firma con Rigoletto un libretto che, pur piegato essenzialmente alle esigenze della musica, contiene tesori di finezza drammaturgica.