Il Festival Verdi ha previsto questa produzione per lo storico Teatro Farnese, costruito nel 1618 dall’architetto Aleotti ma inaugurato solo dieci anni più tardi, poi restaurato dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Oggi, al centro del complesso della Pilotta e della Galleria Nazionale di Parma, il teatro non è dotato dei congegni tecnici di un teatro ordinario : è impossibile, pertanto, prevedere grossi cambiamenti di scene. Chiamare Robert Wilson per la regia si spiega nella misura in cui l’opera si svolge in un’ambiente fisso (una scatola con tre pareti) sul quale si proiettano diverse luci, che cambiano a secondo delle scene.
Questo assunto di base non significa che lo stile ieratico che Robert Wilson propone in tutti i teatri dai suoi primi successi (Einstein on the beach, 1976) convenga ad un’opera cosi scapigliata e movimenta quale Le Trouvère. Come prevedibile, quindi, abbiamo avuto diritto alle figure d’obbligo del “wilsonismo”: gesti lenti, profili e ombre, trucco pallido, vagamente ispirato al Nô giapponese (costumi di Julia von Leliwa e make up design di Manu Halligan) e a immagini, riconosciamolo, che non mancano né di eleganza, né di bellezza, né di plasticità, ma che tengono a distanza da un’opera che appunto non sopporta la distanza. Forse la versione francese è supposta più contenuta della vibrante versione italiana ?
Movimenti minimalisti, gesti di una lentezza millimetrica, sguardi fissi diretti spesso solo verso il pubblico, con variazioni minimaliste di colore nelle scene : buchi rossi, bianchi, oro, in un universo azzurro, come sempre da Wilson.
Ci sono alcuni elementi originali per adornare questa cornice fin troppo abituale : un vecchio, specie di vagabondo da favola, e una vecchia, che sembrano usciti da un racconto di Grimm, una badante che spinge un passeggino, bambini che giocano, immagini ideali che si distinguono dall’orrore della storia fatta di madri sacrificate o di bimbi buttati nel rogo.
Unico momento un po’ movimentato (anche in sala…), il lungo balletto, che diventa una lotta di pugili con guanti rossi, prima isolati, poi in gruppo : uomini, donne, bambini… Come una metafora della storia, raccontata come una lunga lotta. Ma la lunghezza ripetitiva e una musica non sempre affascinante finiscono per annoiare un pubblico che si agita.
Il carattere globale di questo lavoro, impeccabile a livello tecnico, di incontestabile plasticità, è di essere troppo “prevedibile” e mai sorprendente : Bob Wilson “Quale in Sé stesso alfine l'eternità lo cambia” ((Stéphane Mallarmé da “La tomba di Edgar Poe”))
Le Trouvère in lingua francese avrebbe forse richiesto qualche cantante madrelingua, con uno stile più idiomatico, soprattutto oggi che (non sempre è stato vero) esistono cantanti francesi o francofoni adeguati per un Trouvère. Il cast riunito è quasi esclusivamente italiano e dobbiamo riconoscere une vero sforzo per fraseggiare in francese, e proporre una dizione assai chiara, in particolare per Gipali (Manrique) e Vassallo (Luna), mentre Nino Surguladze (Azucena) non riesce a rendere chiaro il suo francese.
Deve essere difficile per cantanti italiani o abituati alla versione italiana riuscire ad acquisire le inflessioni legate alla versione francese, perché Le Trouvère non richiede sempre né lo stesso stile, né le stesse cadenze che in italiano. Il primo esempio evidente è offerto dalla cabaletta che segue la prima aria di Leonora “L’amour ardent sublime et tendre” (“Di tale amor che dirsi mal può dalla parola “nell’originale italiano). Il modello di questo tipo d’aria con variazioni specifiche risale alle origini del Grand Opéra, e richiede gran controllo sulla voce in particolare nei passaggi all’acuto e nei sovracuti che devono essere sicuri : due anni dopo Gounod nel Faust se ne ricorderà per la sua Marguerite.
È qui ancor più difficile per via dell’acustica della sala che risulta pressappoco impossibile, con effetti d’eco degni di una cattedrale, con una eccessiva risonanza, molto disturbante per le parti corali che risultano così piuttosto confuse, da sembrare spesso in disaccordo con l’orchestra – puro effetto acustico e non tecnico, e per la voce dei cantanti che si perde. Il legno fa cassa di risonanza multipla, perché la sala non ha soffitto se non il tetto del palazzo : ne risulta una perdita di suono, diluito in uno spazio ben più ampio che la sala stessa.
Franco Vassallo (Luna) si è impadronito dello stile e della lingua : il suo francese è netto, anche con raffinatezze. Riesce ad incarnare un Luna assai nobile : il suo “Son regard, son doux sourire, tout ajoute à mon délire” (“il balen del suo sorriso” nell’originale italiano) è perfettamente impostato, con grande eleganza e non senza emozione. Il trionfo dopo l’aria è pienamente giustificato. Grande prestazione.
Giuseppe Gipali possiede anche lui un francese chiaro e ben fraseggiato, il suo canto è giusto e molto curato, lirico, ma manca di quell’eroismo giovanile che richiede il personaggio. L’incarnazione scenica rimane un po’ pallida e il Manrique di Wilson è un po’ troppo maturo. È pur vero che l’esigenza di ieraticità e di fissità non facilita una personificazione coerente col libretto. Il canto, pur sicuro, manca di personalità : è un peccato perché tecnicamente funziona.
Roberta Mantegna è arrivata recentemente sulle scene italiane : il timbro non è troppo seducente, ma la musicalità, lo stile, la tecnica ne fanno una bella Leonora, con una notevole presenza vocale. Il francese non è sempre chiaro in questo spazio, ma le variazioni richieste e le cadenze sono impeccabili, e tanto “Brise d’amour fidèle” (“D’amor sull’ali rosee” nell’originale) quanto il “Miserere” sono momenti (attesi) molto belli. Un nome da seguire che comincia a cantare all’estero (Valencia , Montecarlo, Francoforte…).
Nino Surguladze ha senza dubbio il colore e gli acuti, ma mancano un po’ i centri e la voce ha una linea un po’ eterogenea, anche se il timbro è molto bello. Con una dizione francese pur poco chiara, le grandi arie sono tutti bei momenti, cosi come ovviamente “C’est là qu’ils l’ont traînée en larmes, enchainée” (“Stride la vampa” nell’originale) oppure nell’atto terzo “ Je vivais pauvre et sans peine “ (“Giorni poveri vivea”) che sono cantate con intensità e impegno.
Così il famoso quartetto del Trouvère (di cui Caruso diceva che basta avere il baritono migliore, il tenore migliore, il soprano e il mezzosoprano migliori per far funzionare Trovatore”) funziona tutto sommato bene e in maniera omogenea.
Ai quattro protagonisti aggiungiamo il Fernand di Marco Spotti di cui l’aria iniziale “De mon maître le père avait deux fils…“ (ossia “Di due figli vivea padre beato”) e “Paraît à ses regards une sorcière” ( “Abbietta zingara, fosca vegliarda!”) viene cantato con nobiltà e con una bella voce ben proiettata. Bisogna riconoscere che non è favorito dalla sorpresa di una acustica così difficile da obbligare all’inizio l’ascoltatore ad abituarsi : quest’aria ne soffre forse un po’.
Tutti gli altri ruoli minori sono ben eseguiti.
La questione del Trovatore e del Trouvère è ben nota ; fin dall’aria di Fernand (Ferrante), non c’è una nota da togliere. Di sicuro è la più perfetta opera di Verdi, la più equilibrata e la più intensa. Lo spettatore viene rapito in un tunnel ansimante fatto di arie e di concertati che concatenano senza una sola caduta di ritmo, senza abbassamento di tensione, senza lasciar mai il tempo di fermarsi.
Lo spiegava bene Gianfranco Bettetini in un divertente libro sul Trovatore uscito nel 1989 “Deserto sulla terra” che ogni innamorato del Trovatore dovrebbe aver letto ((Gianfranco Bettetini, Deserto sulla terra, Bompiani, 1989)).
La vicenda non ha cadute di tensione, ma è tesa fino alla conclusione. La versione italiana è una specie di modello che Verdi stesso non riuscirà a riprodurre.
La versione francese, nella traduzione misurata di Émilien Pacini, con la sua minore fluidità, la sua dizione più prudente, le sue rotture di ritmo, il suo balletto di 25 minuti che rallenta l’azione all’inizio dell’atto terzo, non ha sempre questo lato ansimante che tanto affascina nella versione italiana, ma possiede altre qualità di lirismo e di puro stile , anche se i cambiamenti musicali rimangono minori (salvo che negli ultimi minuti). La questione della lingua e del suo adattamento alla musica si pone in una maniera molto diversa rispetto al caso del Don Carlos ad esempio, la cui musica è scritta per un testo francese. Ecco perché si dovrebbe aspettare dall’Opera di Parigi un Trouvère totalmente idiomatico, per giudicare del suo colore e dei cambiamenti rispetto alla versione originale italiana.
Coro e orchestra del Comunale di Bologna, invitati dal Festival per le produzioni fuori dal Teatro Regio, cioè a Busseto e al Farnese, sono ovviamente impeccabili in questo repertorio, come tutte le orchestre di questa terra emiliana consacrata a Verdi. Il coro è molto ben preparato da Andrea Faidutti : ha il respiro, il ritmo, la potenza, pur in un contesto acustico gli è del tutto sfavorevole, così come l’orchestra, impeccabile, malgrado lo stesso problema.
Roberto Abbado, nuovo direttore musicale del Festival, cerca con un approccio piuttosto delicato e raffinato, di dare risalto alla differenza tra Trouvère e Trovatore. Viene privilegiata une certa soavità, une vera dolcezza, una delicatezza che non si sente spesso in quest’opera. L’acustica non favorisce sempre la limpidità del suono che viene reso, e la chiarezza dei livelli di lettura di ogni strumento in particolare, ma l’approccio molto raffinato e molto sensibile nei riguardi dello stile e del colore (anche in relazione con la regia di Wilson, tra l’altro) nella sua differenza con la versione italiana s’impone in questa prima esecuzione dell’edizione critica di David Lawton.
Roberto Abbado, notevole musicista, cura in particolare il colore : se si trattasse di un copia/incolla tra italiano e francese, l’operazione sarebbe inutile. Si tratta anzi dell’altro colore di un’opera molto popolare e molto rappresentata, e dunque una visione nuova che viene proposta. In questo senso l’impresa suscita un interesse incontestabile, ma dimostra anche, come in Wagner, ma anche in Verdi che curava con estrema cura l’adeguazione testo-musica, che la lingua determina sempre un ascolto diverso e uno sguardo nuovo sulle opere. Verdi ha scritto qualche elemento diverso nel suo Trouvère perché stimava che alla lingua francese doveva corrispondere uno stile un po’ cambiato, onde illuminare l’opera in modo nuovo. Ecco perché questa presentazione e la direzione di Roberto Abbado sono cosi interessanti.
Allora, ribadisco la mia richiesta : quando Le Trouvère a casa sua, Parigi ?