Milioni di persone hanno già lasciato l’Ucraina per trovare rifugio in altri paesi europei. "Nello spettacolo abbiamo incorporato dei video girati durante gli ultimi due anni in modo da stabilire delle analogie tra un capolavoro della tradizione lirica e la nostra realtà e questo è più importante di qualsiasi elaborazione scenica” (così il regista nella interessante intervista contenuta nel programma di sala). Turandot non esiste, dice a un certo punto il libretto : per Ai Weiwei evidentemente l’unico modo di esistere per Turandot è legarsi in modo potente al quotidiano e ai disastri dell’oggi. Una Turandot, questa, che sarebbe giusto chiamarla la “Turandot di Ai Weiwei” piuttosto che di Giacomo Puccini, in quanto l’intervento del regista è dominante, totalizzante e favorisce il confronto su opportunità e legittimità di simili operazioni nel contesto operistico.
La scena è praticamente fissa, pur ruotando e scivolando di lato : una scalinata irregolare (vaga rappresentazione della superficie terrestre) percorsa da profonde fenditure e con elementi verticali che danno la suggestione di antiche rovine ma con un senso di atemporalità che le rende futuribili. I costumi combinano opere di Ai Weiwei negli elaborati copricapi a grandi camicioni e contribuiscono a rendere l’allestimento non legato a un luogo e a un tempo precisi.
I video, proiettati sull’intera parete di fondo scena, catturano l’interesse dello spettatore al punto da essere soverchianti sulla stessa musica, una ininterrotta serie di filmati di archivio e immagini in movimento realizzate al computer. Lo scopo evidente è mostrare la disumanità del mondo contemporaneo, forse in linea con la disumanità del mondo di Turandot : città sterminate costituite solo da periferie, selve di grattacieli fittissimi privi di spazi aggregativi, folle di persone in movimento che non parlano e riempiono strade, incroci, treni, stazioni, labirintici snodi stradali e ferroviari visti dall’alto come a formare destabilizzanti mandala, medici e pazienti in ospedale al tempo del Covid, brutali repressioni delle proteste a Hong Kong. Un labile collegamento con la storia di Turandot si potrebbe trovare, oltre alla disumanità della situazione e dell’oggi : la folla delle moderne metropoli come il popolo di Pechino, la brutalità della polizia nella Cina di oggi come le guardie imperiali dell’opera pucciniana. Ma tale collegamento non interessa ad Ai Weiwei e probabilmente neanche allo spettatore, che forse fatica un poco a seguire contemporaneamente i video e la rappresentazione sul palco ma certamente non può non emozionarsi davanti a immagini di tale potente attualità.
Ai filmati si alternano, nel secondo atto, telecamere di sorveglianza, manette e catene dorate che fluttuano e volteggiano in varie combinazioni come in un balletto (tutte immagini realizzate al pc): telecamere, manette e catene dorate perché un regime reprime la libertà ma la ripaga con il benessere economico in modo da “accontentare” i cittadini-sudditi ; dorati anche gli uccellini di Twitter in mezzo a telecamere e catene, perché i social media sono usati per controllare e sorvegliare e dunque per imprigionare oppure anche per isolare dal contesto globale. Nel terzo atto disegni di arte grafica simile a quella vascolare dell’antica Grecia ritraggono combattenti con lance e fucili, poi fotografie e immagini di migranti a piedi o su barconi e mezzi di fortuna, accompagnati sul palco dal movimento dei ballerini da un lato all’altro del proscenio, avanti e indietro, senza mai arrivare a una meta.
Le immagini sono soverchianti rispetto al resto degli elementi scenici, come detto, ma proprio per questo i movimenti dei protagonisti e delle masse si limitano all’essenziale, per lasciare spazio al contemporaneo che entra sul palcoscenico e fornisce una forte emozione. Le luci sono calibrate alla presenza dei video e i movimenti mimici risultano funzionali alle scelte registiche. Lo spettacolo si chiude con la morte di Liù, in quanto si è scelto di suonare solo la partitura originale di Puccini.
La direttrice Oksana Lyniv (ci tiene a farsi chiamare direttrice, non direttore) dà risalto alle sonorità novecentesche della partitura e ne approfondisce l’aspetto sinfonico, risultando l’amalgama perfetto con la presenza soverchiante dei video in scena ma registrando qualche sfasamento tra buca e palco e con qualche sovrapposizione alle voci, in quanto il suono è imponente, duro e crudele come le crude immagini sullo sfondo. L’ingresso in sala della direttrice (ora a capo delle compagini del Comunale di Bologna) viene salutato da un lungo, corale, partecipato applauso, segno anche di vicinanza del pubblico al suo essere ucraina. L’orchestra deborda dal golfo mistico e occupa i primi palchi di due ordini e ciò amplifica la forza e la potenza del suono. Il coro risulta ben preparato da Roberto Gabbiani, a livello di eccellenza.
Ewa Vesin è una algida Turandot ingabbiata in un abito che le rende quasi difficile camminare, chiusa in un involucro che la separa da tutto e da tutti ; il canto è quasi malinconico, non insiste sulla gettata vocale ma indugia su una morbidezza che, da sola, non può non irretire Calaf, di cui Angelo Villari dà una interpretazione convincente, giovanile e partecipe (il pubblico di certo non dimenticherà il suo cantare tutto il primo atto con una enorme rana dagli occhi fosforescenti sulla schiena a mo’ di zaino).
Con loro non delude la Liù pur non memorabile di Adriana Ferfecka, i toni e gli accenti sono giusti e hanno un particolare risalto in quanto, come detto, lo spettacolo si conclude con la sua morte e la trenodia funebre che segue. Marco Spotti è un Timur dolente e partecipe, Rodrigo Ortiz (proveniente dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, come Andrii Ganchuk che interpreta un Mandarino) è uno ieratico e inaccessibile Altoum, il Principe di Persia ha le movenze del ballerino Chao Hsin e la voce di Giuseppe Ruggiero, il terzetto delle maschere è guidato da un ottimo Alessio Verna (Ping) e composto da Enrico Iviglia (Pang) e Pietro Picone (Pong).