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Andiamo con ordine : nel primo atto l’impressione è decisamente positiva : il Mandarino di Armando Gabba è efficace, sferzante, asciutto e risoluto come il suo ruolo e la scrittura di Puccini richiedono. L’orchestra si destreggia con eleganza anche nei brutali urti che rammentano Stravinsky e di cui si ricorderà sin troppo bene Orff. La scenografia è minimale ed elegante ; i numeri degli atti, nella prima edizione della partitura, sono contenuti in graziose cornicette liberty ; regista e scenografa (Cecilia Ligorio e Alessia Colosso) si appropriano di tale decorazione, la ingigantiscono e le fanno racchiudere l’intero proscenio, creando un efficace distacco dalla realtà ; Turandot è infatti una fiaba crudele e priva di magia, con tutte le caratteristiche di questo genere ancestrale. L’immaginazione deve correre sulla realizzazione di una delle partiture più variopinte e del genio lucchese ; la scena è eloquentemente spoglia, – scolpita dall’intelligente luminotecnica curata da Fabio Barettin – e ospita pochi, ricercati elementi : una piattaforma lineare scende dalla torre scenica e si arresta a mezz’aria ; imperiosa vi incede Turandot spargendo petali. Quindi sorge una glaciale falce di luna, acuminata lama che precipita al momento dell’esecuzione del principe di Persia. Riusciti i costumi di Simone Valsecchi, disinvolti tra la lussureggiante verità fiabesca dei protagonisti, l’astrazione atemporale delle maschere e delle masse e l’attualità borghese del Mandarino.
Il trio Calaf-Timur e Liù è espressivo ed efficace : la schiava interpretata da Carmela Remigio è una donna risoluta anche nella sua condizione servile, che agisce per sincera devozione mantenendo una propria volontà, lettura coerente con lo sviluppo successivo del personaggio e rispecchiata nella vocalità decisa e piena del soprano. Simon Lim è un Timur dalla perfetta voce tartarea, cavernosa e sonante ; Calaf, inizialmente convincente nella concitazione, si rivela presto chiassoso ; ma si tratta di rabbia e sfida, potrebbe essere una screziatura ricercata dall'interprete : Walter Fraccaro. L’impressione s’incrina quando, abbagliato alla vista della principessa, si produce in un canto languido e affettato da portamenti più vicini a veri e propri glissandi ; ma riuscirà a superarsi.
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Un plauso al trio Ping, Pong e Pang (rispettivamente Alessio Arduini, Paolo Antognetti e Valentino Buzza), affiatati ed equilibrati, vocalmente convincenti e a loro completo agio in scena, dotati come sono di una verve ironica per nulla scontata.
Nel complesso, tutto risulta convincente e a tratti addirittura entusiasmante sino alla metà del secondo atto, quando fa il suo ingresso Turandot non più per mostrarsi alla folla ma – ahinoi – per cantare. Sin dalle prime sillabe si è colpiti dallo stridore di un timbro piatto e glaciale, privo di regalità ma anche di qualsiasi rotondità di armonici, tutto spigoli e linee spezzate, povero di inflessioni e, come se non bastasse, dotato di uno spiccato accento dell’Est Europa.
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Cercando distrazione nel libretto di sala, notiamo che si tratta di Oksana Dyka, autentica diva più attenta a primeggiare sul palcoscenico che a coltivare voce e dizione. Costei infatti, oltre a vessare il nutrito pubblico veneziano per tutto il resto dell’opera, commette anche uno sgarbo fulminando con lo sguardo la brava Remigio, colpevole di aver suscitato un’ovazione.
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Gossip da melomani, se si vuole, che però conferma il fatto che nel suo ruolo, la Dyka, ci crede poco o nulla. Lo stesso non si può dire, appunto, per Carmela Remigio, che interpreta una morte di Liù di tale intensità e commozione che il teatro si produce in un fragoroso quanto meritato applauso.
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L’apice della volgarità, tuttavia, lo tocca Fraccaro all’inizio del terzo atto, con un Nessun dorma di rara melensaggine e dalla dizione imperdonabilmente sciatta : consonanti inesistenti o trascurate, tutto un ululare tra vocali esageratamente aperte, ove le I e le U non esistono e trasmutano in É e Ó. Callegari ha il buon gusto di non concedere nulla agli inevitabili applausi scroscianti (che fortunatamente non ottengono il tradizionale bis) e continua come non si trattasse di uno dei più celebri e abusati brani operistici di sempre. Bravo, maestro.
Una delle sciagure della cultura (in qualsiasi sua manifestazione) si annida nel divismo, che – lungi dall’essere estinto – è riuscito a rendere spiacevole una Turandot altrimenti raffinata e ricercata, con tutte le carte in regola per essere ricordata come un'ottima produzione.
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