
Può un progetto di videoanimazione risultare prevaricante e autoreferenziale ? Sì, quando il punto di riferimento non è la musica. La Turandot andata in scena tra qualche tempo fa al Comunale di Bologna, in un allestimento coprodotto con i teatri di Palermo e Karlsruhe, induce a riflettere sugli eccessi della creatività scenica, quando questa c’entra poco con l’opera, e molto con le attuali mode sociali. Al pubblico, si badi bene, la produzione è piaciuta. Sarà stato così, probabile, anche a Palermo e Karlsruhe. Perché uno degl’immancabili effetti della tecnologia elettronica sta nell’incantare lo spettatore, che ne rimane intrappolato. La messa in scena di questa Turandot poggia su alcuni maxischermi in palcoscenico, uno di fronte e due obliqui ai lati più un quarto che sale e scende all’occorrenza, sui quali schermi si proietta ininterrottamente la vita pulsante e convulsa di una Pechino dell’anno 2070. Un immenso acquario ipertecnologico e ipercolorato, con un turbinìo incessante di veicoli volanti. Splendidamente realizzato, e bellissimo da vedere. Seguono una piovra i cui tentacoli avvolgono figure maschili in mutande : vittime di Turandot, si deve presumere. Poi una serie di personaggi vari, maschili e femminili, anche in biancheria intima ; poi teste mozzate e busti decapitati in sezione anatomicamente perfetta, e graziosamente senza sangue. E via continuando. Insomma, una narrazione visiva inquietante, deliberatamente traumatica, realizzata al meglio. Ma l’impatto è soverchiante rispetto alla musica, e finisce per distrarre e disturbare l’ascolto.

Responsabile del progetto scenico è il regista Fabio Cherstich, che per video scene e costumi (terribili, se non ridicoli) si è affidato al gruppo AES+F, collettivo di quattro artisti russi neanche giovani, anzi attempati. Questo gruppo vanta un lungo e onorevole curriculum di attività nelle arti visive in tutto il mondo, con performance, installazioni, illustrazioni, pittura. Di recente, il suo lavoro si è orientato all’uso di video e tecnologie digitali. Quanto alla regia vera e propria (il disegno luci è di Marco Giusti), c’è ben poco. Il movimento dei personaggi è ridotto al minimo, e si svolge innanzi agli schermi, davanti ai quali sono collocate ai lati, di sbieco, due gradinate destinate al coro. L’unica idea decente è confinata al terzetto delle maschere, a inizio dell’atto secondo, quando i personaggi trafficano nelle rispettive valigette ventiquattrore deposte su tavoli, mentre nostalgicamente cantano il ricordo dei tempi felici. Conclusione : impianto visivo e musica viaggiano dissociati, senza interazione apprezzabile. E tutto il carrozzone, dopo l’incantesimo iniziale, diventa fastidioso, e quasi ostativo alla percezione musicale.
Se la messa in scena è ridondante e dispersiva, per fortuna la resa musicale ne risolleva le sorti. E si deve proprio a questa il successo dell’allestimento. Il direttore d’orchestra, Valerio Galli, quando occorre sa scegliere stacchi decisi e a volte stringenti, ma dà anche rilievo ai necessari momenti di cantabilità più distesa e delicata, tenendo in attento equilibrio il dialogo tra orchestra e voci. La sua concertazione sorregge con cura il canto, e ne fa affiorare ogni sfumatura senza perdere di vista l’insieme dell’affresco. Ecco quindi che, sotto la bacchetta di Galli, l’incedere della vicenda e l’afflato lirico si saldano, illuminando sia la bellezza del canto sia l’evento collettivo. Sicché teatralità e modernità della partitura pucciniana ricevono meritato rilievo. E, a fronte del fastidioso frullatore visivo, si deve proprio a questa lettura musicale il successo dello spettacolo. Bella figura rendono i complessi del Comunale : l’orchestra nella sagace concertazione di Galli, il coro ben preparato da Alberto Malazzi, e il coro di voci bianche guidato da Alhambra Superchi. Da osservare, a confermare la povertà della regia, che il coro si esibisce immancabilmente su due tribune sistemate di sguincio, dalle quali sale e scende in brutti abiti color pastello, per non dire dei retini da spiaggia posti in mano alle voci bianche.

Ben assortita la compagnia di canto. Hui He è al suo debutto nel ruolo di Turandot e, per quanto vanti una carriera di soprano più lirico che drammatico, si disimpegna a dovere gestendo con intelligenza le proprie risorse. E anzi, al di là dei lampi di ruvidezza e acredine del personaggio, non si lascia sfuggire l’occasione di esibire un bello smalto nei momenti di cantabilità. Il colore è morbido, pieno, anche se la resa del personaggio dovrà progredire, con successive esperienze, sotto l’aspetto del fraseggio e della verità drammaturgica.

Nella parte di Calaf, il tenore statunitense Gregory Kunde si conferma interprete di fine intelligenza. Egli disegna il proprio personaggio (di sensibilità alquanto ottusa) con un gusto che soppesa ogni accento, e con un fraseggio sensibile e partecipe che si apre anche a pieghe di tenerezza, come in Non piangere Liù. Un Calaf umanizzato, questo di Kunde, lontano da pose eroiche e atletismi vocali anche nel registro acuto e nell’aria-simbolo, Nessun dorma. La sua traiettoria vocale è sempre condotta con sagace compostezza, lungo uno snodo espressivo che si nutre di fluidità e senso del legato.

Nei panni di Liù, una strepitosa Mariangela Sicilia. Gli applausi scroscianti hanno premiato in lei sia l’intensità espressiva e la dedizione appassionata conferite al personaggio, sia l’impeccabile vocalità, calda e vellutata, ricca di filati e morbidezze. Il tutto è somministrato dalla Sicilia in ideale equilibrio, con uno sfoggio di mezze voci che rifulgono come cristallo purissimo. Musicalmente inappuntabile In-Sung Sim nella parte di Timur, e come lui Bruno Lazzaretti nella parte di Altoum ; avrebbe però giovato a entrambi una maggiore penetrazione drammaturgica. Pienamente a fuoco, per vocalità e peso interpretativo, il Mandarino di Nicolò Ceriani. Delle tre maschere, riesce meglio Vincenzo Taormina, Ping, e con lui si disimpegnano accettabilmente Francesco Marsiglia, Pang, e Cristiano Olivieri, Pong. Da ricordare anche il Principe di Persia di Massimiliano Brusco, e le ancelle di Turandot, Silvia Calzavara e Rosa Guarracino.
