Tutto comincia quindici anni fa, nell’estate 2005, in un seminterrato di Castel del Piano, piccolo comune della Toscana, sulle pendici del Monte Amiata. Il giovane pianista Maurizio Baglini, nativo di Pisa, che come interprete già si va affermando sulla scena musicale, vara un nuovo festival, che intitola Amiata Piano Festival perché inizialmente dedicato al pianoforte. Una sfida temeraria. Ci sarebbe stato pubblico, in un paesino fuori dai maggiori itinerarî turistici ? Sarebbero stati disponibili artisti di qualità a venire fin lì ? Si sarebbero trovate le necessarie risorse ? Fortuna ha voluto che, poco dopo l’avvio dell’attività, assistessero ai concerti degli appassionati di musica, Claudio Tipa con la moglie Maria e la sorella di lui Maria Iris Bertarelli, da pochi anni trasferitisi nel territorio per gestire una grande azienda agricola della famiglia Bertarelli, con la quale Tipa è imparentato. Con la schiettezza del patito di musica, e il senso pratico dell’imprenditore, questi propone a Baglini di spostare il Festival poco lontano, nel comune di Cinigiano dove l’azienda Bertarelli ha sede, e dove dispone di spazi senz’altro più adatti. Soprattutto, la famiglia si offre di sostenere e sponsorizzare interamente il funzionamento del Festival, con un budget importante.
Sicché il Festival mette radici su un altro versante del Monte Amiata, sempre nella Maremma grossetana, tenendo i concerti nella palestra riadattata di una scuola media, e addirittura nella cantina della stessa azienda agricola, Colle Massari, spazio di singolare suggestione tra grandi botti e profumo di vini importanti. Intanto – sempre sotto la guida di Maurizio Baglini e di Silvia Chiesa, violoncellista di fama e sua compagna nella vita e nelle avventure artistiche, che per ciascuno dei due sono di respiro internazionale – il pubblico sta crescendo, con turisti stranieri e con appassionati che volentieri si spostano perché i concerti sono davvero attraenti. Concerti che ormai si possono permettere anche insiemi da camera, oltre al pianoforte ; sicché le proposte artistiche si arricchiscono. E cresce anche la risonanza nazionale della rassegna, grazie anche alla collaborazione con RAI-RadioTre, che registra i concerti per poi trasmetterli in differita, facendo ulteriormente conoscere la manifestazione. L’incremento continua, anno dopo anno, grazie all’originalità e all’alto livello dei programmi, e consolida il seguito di un pubblico, della zona o straniero, che ritorna con convinta fedeltà. Tradizionalmente, gli appuntamenti sono organizzati in cicli di tre-quattro serate, ciascuno nell’ultimo fine-settimana di ogni mese estivo. Ormai, lo sviluppo è tale da rendere evidente la necessità di una sala da concerto appositamente concepita, di uno spazio dotato di acustica e servizi adeguati.
Ed ecco che la famiglia Bertarelli-Tipa, che sostiene interamente i costi della manifestazione e non chiede sovvenzioni a enti pubblici per non doverne subire i condizionamenti, convinta della bontà del progetto, prende la decisione di finanziare la costruzione di un auditorium nei suoi terreni. Decisione coraggiosa, quella di un nuovo auditorium in piena campagna, immerso tra colli e vigneti. Decisione però corroborata, in una sagace visione imprenditoriale, dal costante successo dei concerti proposti anno dopo anno. In due-tre anni il nuovo edificio, intitolato Forum Bertarelli, è compiuto. Inaugurato nel 2015, ha già ricevuto diversi premi e riconoscimenti internazionali, nel campo della bioarchitettura : per il progetto innovativo, l’integrazione e il riguardo verso l’ambiente naturale, il controllo dei consumi energetici, l’impiego di tecniche e materiali non inquinanti, la sostenibilità gestionale e sociale. E, insieme alla coerenza ecologica e al fascino estetico, mirabile è la resa acustica, appositamente studiata.
L’edizione 2019, la quindicesima dell’Amiata Piano Festival, come sempre si è aperta con il ciclo denominato Baccus, che nel corso dell’estate è seguito dalle altre due serie, Euterpe e Dionisus. La prima serata è stata interamente dedicata a pagine concertistiche di Franz Joseph Haydn (1732–1809), nel cui catalogo i concerti, per vari strumenti, sono all’incirca una cinquantina. Interpreti Silvia Chiesa, violoncello, Maurizio Baglini, pianoforte, la Camerata Ducale, e Guido Rimonda, violino, che della Camerata è anche direttore musicale. Ed è stato un ascolto di Haydn come raramente è dato. I tre solisti e il gruppo orchestrale, lungo quattro differenti concerti, hanno esibito un’immersione profonda nel pensiero compositivo di Haydn, e nella dimensione creativa che egli viveva, nel suo contatto ravvicinato con l’orchestra che, nella dimora di Eisenstadt, il principe Esterházy gli metteva a disposizione.
Ad aprire il programma, il Concerto in do maggiore n.° 1 per violino e archi Hob. VIIa:1. Trattandosi di uno dei primi lavori di Haydn in questa forma, l’impianto dei due movimenti estremi ricalca il profilo del concerto di epoca barocca, con la dialettica alternanza fra solo e tutti. Va osservata però l’evoluzione più varia assunta via via dai ritornelli orchestrali, e così l’aggancio dei momenti solistici allo sviluppo complessivo. La Camerata Ducale conferma la nitidezza di un suono e la duttilità di un incedere, che soltanto una lunga consuetudine ai livelli più alti possono consentire. Pagina straordinaria è il brano centrale, Adagio, nel quale Guido Rimonda incanta con il suo fraseggio avvolgente, elegante nel gusto e nella misura, e con un “legato” tanto soave da estrarre le suggestioni più intense dal magnifico Stradivari che impugna. Stradivari conosciuto come “Le violon noir”, perché appartenuto al violinista settecentesco Jean Marie Leclair, il quale, misteriosamente assassinato in casa, fu rinvenuto soltanto qualche tempo dopo abbracciato al suo strumento, sul quale la mano destra aveva intanto impresso una macchia scura, prodotta dal processo di decomposizione, e rivelatasi indelebile.
Tocca poi a Silvia Chiesa dare rilievo alla nobiltà del Concerto in re maggiore per violoncello e orchestra n.° 2 Hob. VIIb:2, meno noto e ben più impegnativo del frequentato lavoro in do maggiore dello stesso Haydn. La voce luminosa della violoncellista milanese disegna un eloquio vibrante di calore comunicativo, grazie all’autorevolezza di accenti e alla morbidezza del suono. Ammaliante il suo incedere nell’Adagio, reso con tratto squisito grazie all’intima intesa con la Camerata Ducale, frutto di un lavoro preparatorio che permette a solista e orchestra di pensare e respirare insieme. Il che emerge anche dalla serena sicurezza nelle agilità del Rondò conclusivo. Il successivo Concerto in fa maggiore per violino, pianoforte e archi Hob. XVIII:6 vede affiancati Guido Rimonda e Maurizio Baglini. La voce del violino, come nel concerto precedente, si conferma fuori dal comune. Da parte sua, il suono del pianoforte sembra possedere la leggerezza e la limpidezza del fortepiano, che era di certo il destinatario originario. Si conferma qui una delle molte doti di Baglini, quella di riuscire sempre idiomatico e appropriato alle diverse situazioni interpretative. E questo tocco particolare, d’impalpabile nettezza, nell’Adagio offre ai due solisti l’indispensabile levità che gli permette di scambiarsi i ruoli, di volta in volta l’uno accompagnando l’altro. E infine è Maurizio Baglini che, nel conclusivo Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra Hob. XVIII:4, propone un fraseggio quasi neoclassico all’inizio, marca nell’Adagio un itinerario di pregnanza avvincente, per poi affrancarsi in un terzo movimento scintillante e sonoro.
Di alto significato anche un altro programma di questo ciclo Baccus, che ha impegnato un sestetto d’archi. Formazione che ha affiancato tre prestigiosi solisti – Sonig Tchakerian, violino, Alfredo Zamarra, viola, Silvia Chiesa, violoncello – a tre giovani musicisti emersi da solide esperienze di perfezionamento, e già avviati a promettente carriera : Damiano Barreto, violino, Alessandro Acqui, viola, Ludovica Rana, violoncello. Tre esordienti accanto a tre illustri maestri. È il prodotto di un particolare progetto promosso da Silvia Chiesa in seno al Festival : ogni anno unire, in una diversa compagine cameristica, professionisti e giovani, questi ultimi provenienti da istituzioni italiane di alto livello. Infatti questa collaborazione abbina al Festival la Fondazione Stauffer di Cremona, l’Accademia di Santa Cecilia e l’Associazione Musica con le Ali. Il concerto ha accostato due pagine molto famose, e molto differenti tra loro. Souvenir de Florence op.70 di Čajkovskij, e Verklärte Nacht op. 4 di Schönberg. Già il tracciato della pagina di Čajkovskij, così articolato e dialettico, fa emergere il perfetto amalgama raggiunto dagli interpreti. Nei quattro episodi del Souvenir de Florence, attraversati da accenti diversi – ora cantabili, ora echeggianti stilemi popolari russi – il sestetto del Festival percorre i varî momenti solistici e d’insieme con equilibrata affabilità, sempre su un binario di alto grado espressivo e tecnico : prova eloquente di un sensibile, accurato lavoro di montaggio, prezioso sia per gli ascoltatori, sia per la consapevolezza che i tre giovani mostrano di avere assorbito dai tre maestri. E riesce a emozionare profondamente l’esecuzione, nella seconda parte, di Verklärte Nacht, che avvolge la sala in tutt’altra atmosfera. Il suono levigato, fluido del sestetto d’archi rende con poetica trasparenza i connotati innovativi della pagina di Schönberg, il di lui inedito, avveniristico protendersi verso un compendio tra linguaggi fin lì considerati inconciliabili : l’impiego di un diffuso cromatismo, dal sapore wagneriano, e l’uso dilatato della variazione, di ascendenza brahmsiana. Una sintesi geniale, che sconfina dagli orizzonti stilistici dell’epoca. E il sestetto dell’Amiata Festival propaga da par suo questo palpito innovativo, creando un clima di intensa, raffinata emozione.
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