IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Commedia in due atti di Cesare Sterbini, da "Le barbier de Séville" di Pierre Augustin Caron de Beaumarchais
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Alberto Zedda

Direttore Yves Abel
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon

Il Conte d’Almaviva Maxim Mironov
Bartolo Pietro Spagnoli
Rosina Aya Wakizono
Figaro Davide Luciano
Basilio Michele Pertusi
Berta Elena Zilio
Fiorello/un ufficiale William Corrò
Ambrogio Armando De Ceccon

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Fortepiano Richard Barker
Chitarra Eugenio Della Chiara
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Maestro del coro Giovanni Farina

Nuova produzione

Pesaro, Adriatic Arena, 16 agosto 2018, ore 20

Comprensibilmente e sorprendentemente, solo nel 1992 Il Barbiere di Siviglia è stato messo in scena a Pesaro, 14 anni dopo la creazione del Festival, e ogni produzione (quella attuale è la quinta) è stata criticata senza lasciare un segno duraturo. Può darsi che questa produzione non segua le orme delle precedenti, perché è stranamente la prima volta che Pier Luigi Pizzi, alla veneranda età di 88 anni e ultimo mito vivente del palcoscenico italiano, si cimenta con il capolavoro rossiniano, dopo essersi lasciato alle spalle decine di produzioni leggendarie (Semiramide ad Aix e al TCE, per esempio), ed è un successo strepitoso, sia dal punto di vista musicale che scenico.

Pier Luigi Pizzi durante le prove

Pier Luigi Pizzi, il mago della scenografia

La generazione odierna di appassionati di opera lirica può a malapena comprendere cosa significhi Pier Luigi Pizzi per il teatro in Italia e altrove. Solo in Francia, oltre alla sua famosa Semiramide, abbiamo visto Les Troyens, che ha inaugurato l'Opéra-Bastille, e molte altre opere. All' Opéra di Parigi ha prodotto nove opere e progettato dieci scenografie.
Sebbene non sia stato un regista rivoluzionario, sono state le sue scenografie e il suo innato senso dell'estetica e dei contrasti cromatici, così come i suoi costumi, a lasciare un segno profondo nella storia del palcoscenico in Italia e altrove.

Pizzi fu innanzitutto un brillante scenografo. A lui si devono le sublimi scenografie del Ring di Luca Ronconi alla Scala nel 1974 e 1975, e di nuovo a Firenze nel 1979 e 1981. È stato anche responsabile delle prime grandi produzioni del repertorio barocco, tra cui l'Orlando Furioso di Vivaldi (con Horne) e l'Ariodante di Haendel, l'Alceste di Gluck e Hippolyte et Aricie di Rameau negli anni Ottanta, quando questo repertorio era appena stato scoperto.
Pizzi è un compagno di lunga data del Festival di Pesaro, eppure, come detto nell'introduzione, non aveva mai messo in scena Il Barbiere di Siviglia, né a Pesaro né altrove. Quindi perché dovrebbe sorprendere che gli sia stato chiesto di mettere in scena questa nuova produzione ? Ciò che più stupisce è che sia riuscito comunque a sorprenderci, e a fare di questa produzione l'inaspettata punta di diamante dell'edizione 2018.
Innanzitutto la scenografia (qui sotto i modelli), bianca e leggera, e tre spazi, a partire dal primo atto, con due atmosfere :

Atto I : la strada

il cortile della casa di Bartolo

e, per tutto il II atto, un unico ambiente più interno :

Lo spazio interno di tutto il secondo atto

Si inizia quindi all'esterno, di notte, con sublimi giochi di luci e ombre alla Strehler, poi nel cortile interno, inondato dalla luce del sole e protetto da un telo bianco che copre l'intero spazio.
Il secondo atto si svolge interamente nello stesso spazio, più ristretto, un po' meno arioso, dove i nodi dell'intreccio vengono annodati e sciolti.

I costumi in questi spazi sono al tempo stesso eleganti e semplici : tutto bianco e nero (dominante in tutto) per gli uomini, con qualche tocco di colore per le donne, pastello per Rosina, viola per Berta, un colore viola che si ritrova nella vestaglia di Bartolo.

Fiorello distribuisce i soldi ai musicisti (Atto I)

 

Messa in scena con precisione al millimetro

La prima scena determina i ruoli attraverso i costumi : bianco e nero per tutti i musicisti, per Fiorello, poi per Figaro. Almaviva appare in balcone a torso nudo, poi scende e si veste con una camicia bianca, pantaloni neri e un magnifico mantello damascato vermiglio, che è un tocco di colore e isola il personaggio di alto rango che è. Tanto che in questa prima scena, in cui Fiorello e Almaviva si trovano sotto la finestra di Rosine, abbiamo l'impressione di rivivere l'inizio del secondo atto del Don Giovanni : stessa scena di seduzione, stesso rilievo dell'aristocratico, stessa finestra chiusa.

Almaviva (Maxim Mironov) con i musicisti nell'ombra (Atto I)

Pizzi gioca con luci e ombre, gesti e movimenti di per sé esteticamente piacevoli, e soprattutto costruisce un meccanismo che aderisce alla musica, aiutato da interpreti di altissimo livello. Ci fa capire che la commedia di Rossini è una sorta di meccanismo alla Feydeau : tutto deve essere in fase, tutto deve essere preciso come un orologio, altrimenti non funziona. Da qui la necessità di un'orchestra che dia anche il tempo : se fossimo in Wagner, diremmo “Gesamtkunstwerk”: in Rossini, e in particolare nella commedia rossiniana, se palcoscenico e orchestra non seguono gli stessi ritmi, tutto l'effetto comico svanisce.

Maxim Mironov (Almaviva) e Davide Luciano (Figaro) Atto I

Quello che Pizzi ci mostra è anche che le idee devono fluire, mai rozze, sempre eleganti : la comicità rossiniana non è mai volgare. Fin dall'inizio, il dispiegamento dei musicisti nell'ombra ricorda un origami vivente.
Sebbene la cornice dell'Adriatic Arena non sia ideale per uno spettacolo di tale raffinatezza, ha il vantaggio di un'ampia superficie scenica che permette alla scenografia di dispiegarsi.

C'è una differenza notevole, anche nella drammaturgia, tra il primo tempo roteante, molto aperto e arioso, e il secondo tempo più circoscritto : nel secondo tempo, i combinaguai (Figaro, Almaviva) sono in casa e si sono insediati, facendo crollare l'intera famiglia, compreso Basilio, e isolando completamente un Bartolo intrappolato. Tutto è vivace, attento, sorprendentemente giovane e fresco. Da sottolineare anche l'eleganza dei costumi, quello di Figaro è appena ispanico e mai eccessivo : i vari abiti di Rosina sono tutti dello stesso taglio, cambia solo il colore, ma sempre in toni pastello. La scenografia monumentale, fatta di facciate bianche, potrebbe essere a Siviglia, ma altrove, in un clima mediterraneo, con una fontana che ricorda quelle romane in cui Figaro si lava (è una firma tipica di Pizzi) così come l'idea di tende di tessuto bianco che stranamente alleggeriscono l'insieme, segni del caldo opprimente ; infine, un piccolo dettaglio che fa anch'esso segno : l'albero di limoni in vaso che Figaro porta con sé, che rimanda a precedenti spettacoli del maestro, che non esita a citare se stesso.

Davide Luciano (Figaro)

Sorprende anche il modo in cui vengono gestiti i movimenti, le relazioni tra i personaggi e i gesti : ricordiamo Pizzi come pittore di atmosfere, non sempre come regista che lavora sul personaggio. Eppure qui Beaumarchais obbliga, le relazioni tra i personaggi sono minuziose : Bartolo-Basilio, Rosina-Berta (è vero che la magnifica Elena Zilio ha una presenza incredibile), il Figaro volteggiante di Davide Luciano o Fiorello (William Corrò), che canta solo all'inizio ma è sempre presente come fedele organizzatore di malefatte, e Ambrogio, un personaggio muto, compagno di Berta (Armando de Ceccon), che riempie completamente la scena con la sua goffaggine. Infine, l'uso del podio che circonda l'orchestra (un richiamo al Viaggio a Reims di Ronconi, che rimane la più leggendaria delle produzioni pesaresi), con gli ensemble cantati quasi in platea, avvicina il canto e la tecnica al pubblico, dando un effetto ancora più festoso e gioioso all'insieme.
In questo modo, i dettagli, i piccoli fatti veri, la costante allegria, la vivacità dell'ensemble rendono questo Barbiere quasi stendhaliano, e sappiamo che Stendhal amava Rossini.

Maxim Mironov (Almaviva) Aya Wakizono (Rosina) Pietro Spagnoli (Bartolo) e la bella fontana “romana” in fondo…

Un cast straordinariamente omogeneo

Come abbiamo sottolineato, una produzione di questo tipo deve essere eseguita da artisti completamente immersi nella follia rossiniana e nello stile desiderato. Alla fine, il cast nel suo complesso è stato accolto con un lungo e meritato trionfo. Composto sia da giovani cantanti che da rossiniani storici, era innanzitutto notevolmente omogeneo : non c'era un solo anello debole e se c'erano alcune piccole debolezze, erano compensate da un'intelligenza tecnica e interpretativa senza pari.
Tra i “grandi vecchi”, e anche se lo abbiamo appena sentito a Lione in un meditativo e cupo Filippo II di Verdi, Michele Pertusi è un rossiniano storico intimamente legato ai grandi momenti pesaresi (ha in repertorio una ventina di ruoli rossiniani). Il suo Basilio forse non ha più il volume sonoro richiesto (si ricorda quello che faceva Ruggero Raimondi ai tempi d'oro) e il timbro è leggermente velato, ma che stile ! Con un fraseggio perfetto, una rara espressività e una tale varietà di accenti e colori, ha dato una vera e propria lezione di canto rossiniano, e “La calunnia” rimane un pezzo da antologia.

Pietro Spagnoli (Bartolo) e Michele Pertusi (Basilio) durante l'aria de “La Calunnia”.

Pietro Spagnoli, con poco più di venti ruoli rossiniani in repertorio, è un Bartolo dal timbro relativamente chiaro, ma anche impagabile ; la sua padronanza stilistica e tecnica lascia senza fiato. I suoi accenti, i suoi ritmi e i suoi sillabati sono così perfetti da lasciare a bocca aperta. Mai ridicolo, mai esagerato, sempre elegante e sempre preciso, il suo Bartolo è anche antologico.
Di fronte a tali mostri sacri del canto rossiniano, i membri più giovani del cast non sono da meno. William Corrò è un Fiorello di bella presenza scenica, anche se la sua voce non riesce a proiettarsi a sufficienza nella vasta sala dell’Adriatic Arena, pur con la sua acustica.

Maxim Mironov (I atto) come soldato ubriaco di fronte a Michel Pertusi (Basilio) e Pietro Spagnoli (Bartolo)

Maxim Mironov ha in repertorio una decina di ruoli rossiniani e canta regolarmente a Pesaro. La sua tecnica ferrea, gli acuti e i sovracuti stratosferici e la capacità di dominare le agilità lo hanno predisposto a questo. Ma ha anche una perfetta dizione italiana e una bella emissione, anche se il timbro è leggermente nasale, cosa che alcuni gli rimproverano. Si potrebbe forse chiedere più colore in una voce che a volte rimane monocromatica in una sorta di fredda perfezione, ma resta il fatto che il suo Almaviva è eccezionale, compresa la temibile aria finale “cessa di più resistere”, eseguita con cadenze stratosferiche e un acuto finale che ha mandato in visibilio la sala. Prodigioso.
La sua Rosina è la giapponese Aya Wakizono (già ascoltata al Festival Donizetti di Bergamo nel 2017): un mezzosoprano ben proiettato e omogeneo, senza problemi di intonazione e con note basse notevoli. Forse solo il registro centrale avrebbe bisogno di un po' di lavoro, ma i suoi acuti, le sue agilità e le sue cadenze sono davvero straordinarie, e dà vita a una Rosina giovane, vivace, attenta, che riempie il palcoscenico. Una vera promessa.

Armando De Ceccon (Ambrogio) e Elena Zilio (Berta)

Elena Zilio è Berta. Elena Zilio ha dietro di se una lunga carriera di oltre quattro decenni, mai al top ma sempre impeccabile, che si è ormai specializzata in ruoli di carattere che canta sui grandi palcoscenici internazionali. La sua aria “il vecchiotto cerca moglie” è stata un successo, con il suo stile, il fraseggio, l'espressione e il colore che l'hanno resa uno dei punti salienti della serata, per non parlare della sua forte presenza vocale negli ensemble. Una grande artista, che comunica immediatamente con il pubblico.

Davide Luciano (Figaro) alla toilette, mentre canta “Largo al factotum”.

Figaro è il giovane Davide Luciano, la cui carriera sta iniziando a esplodere. Ormai familiare con i grandi ruoli da basso-baritono, tra cui Figaro (Mozart e Rossini), Leporello e Don Giovanni, è un Figaro incredibilmente vivace e slanciato. Corre, salta, si lava, vortica, con forse l'unica voce in scena a superare completamente la fatalità dell'acustica pericolosa della sala : una voce sonora, magnificamente proiettata, con acuti trionfali e omogenei in tutto il registro, una voce tipicamente italiana, con accenti idiomatici e uno stile rossiniano impeccabile (si è formato a Pesaro con Alberto Zedda), sillabati da capogiro, fraseggio esemplare : un Figaro che si afferma subito come uno dei punti di riferimento di oggi, da non perdere.

Atto I (finale)

Accompagnamento musicale attento ai cantanti e al ritmo del palcoscenico

Eppure, quanto è difficile collocare comodamente la propria voce in una sala che non è stata concepita per l'opera, e ancor meno per Rossini. Certo, nella vasta navata l'impianto scenico è isolato, una sorta di parallelepipedo i cui echi sono stati limitati e le voci non si perdono nelle altezze : resta il fatto che anche da molto vicino parte del volume si diluisce nello spazio e questo penalizza i cantanti che hanno una minore proiezione. Bisognerà risolvere l'assillante questione della ricostruzione del Palasport o di una sala che possa contenere almeno 1.500 spettatori.

Bella prestazione del coro, qui proveniente dal Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno ben preparati da Giovanni Farina, con un fraseggio chiaro e interventi ben calibrati, anche se il coro non è essenziale per l'opera.
L'orchestra è l'eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Torino, la migliore orchestra sinfonica italiana insieme a Santa Cecilia. E si sente, con i suoi ottoni non ingombranti, gli attacchi precisi e le belle sonorità degli archi. Da due stagioni è l'orchestra di riferimento a Pesaro, e questo è un fatto molto gradito.
Yves Abel, il direttore franco-canadese, la guida con una rara precisione, un tocco sicuro e un'attenzione alla trasparenza. Inoltre, tiene sotto controllo le esecuzioni dell'orchestra, producendo risultati di rara omogeneità. Confesso di essere stato piacevolmente sorpreso e sedotto da un approccio che non mi aspettavo fosse così convincente. È vero che non ascoltavo Yves Abel da molti anni. Aveva già diretto il Barbiere di Siviglia a Pesaro nel 1997 nell'allestimento di Luigi Squarzina, allora criticato. Ritorna con un'interpretazione matura e imponente, vivace e profonda al tempo stesso, mai superficiale, mai dimostrativa, attenta al colore e al ritmo, in perfetta sintonia con l'allestimento.

Ecco finalmente un Barbiere di Siviglia “di qualità” a Pesaro, grazie a un ensemble virtuoso in cui tutti sono al loro posto, in un allestimento che dovrebbe essere un punto di riferimento e che merita di diventare “cult”, come quello di Michieletto per motivi diversi, come quello di Ponnelle a Salisburgo e alla Scala, mentre meriterebbe di essere riproposto regolarmente a Pesaro. Evviva, ancora una volta.

Acte II, finale

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