Umberto Giordano (1867–1948)

Andrea Chénier (1896)
Dramma di ambiente storico in quattro quadri
Libretto di Luigi Illica

 

Direzione Riccardo Chailly
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografia Daniela Schiavone

Andrea Chénier Yusif Eyvazov
Maddalena di Coigny Anna Netrebko
Carlo Gérard Luca Salsi
La mulatta Bersi Annalisa Stroppa
La Contessa di Coigny Mariana Pentcheva
Madelon Judit Kutasi
Roucher Gabriele Sagona
Il romanziero, Pietro Fléville, pensionato del Re Costantino Finucci
Fouquier Tinville, accusatore pubblico Gianluca Breda
Il sanculotto Mathieu, detto "populus" Francesco Verna
Un "Incredibile" Carlo Bosi
L'Abate, poeta Manuel Pierattelli
Schmidt, carceriere a San Lazzaro Romano Dal Zovo
Il Maestro di Casa/Dumas, presidente del Tribunale di Salute Pubblica Riccardo Fassi

 

 

 

Teatro alla Scala, vendredi 5 gennaio 2018

La scelta di Andrea Chénier  per l’inaugurazione della stagione è stata una sorpresa, ma Alexander Pereira e Riccardo Chailly  vogliono affermare una  politica di ritorno al repertorio tradizionale del teatro, dopo anni in cui quello emblematico della Scala è stato abbastanza trascurato. Per questa inaugurazione è stata chiamata la star tra le star, Anna Netrebko, che si è cimentata in un repertorio per lei ancora poco usuale (era reduce da Vienna dove aveva cantato Adriana Lecouvreur). Lo spettacolo, realizzato molto bene scenicamente e musicalmente molto curato, risulta abbastanza deludente per la mancanza di emozione, in un’opera che ne richiede ad ogni secondo.

Secondo quadro

Andrea Chénier è l’opera dei grandi sentimenti, basandosi sulla vita del poeta ghigliottinato nella Rivoluzione francese durante Il “Terrore”. il librettista, Luigi Illica, elabora un affresco che fa da cornice alla tragedia, quella dell’amore tra i due protagonisti che troverà il suo compimento sul patibolo, morte condivisa di un amore condiviso. Lui è Chénier, lei Maddalena di Coigny, di famiglia aristocratica, che prende il posto di un’altra per morire con l’uomo che ama. La rivoluzione ha ucciso gli amanti,e come dice il libretto, “la rivoluzione divora i suoi figli”. Purtroppo essere violente è il destino delle rivoluzioni, e l’opera di Giordano ci offre un concentrato di tutte le caratteristiche tipiche degli stati totalitari, dallo spionaggio, alle denunce, ai processi troncati e truccati. Però le rivoluzioni sono anche il motore della Storia.

La regia di Mario Martone avrebbe potuto lavorare appunto sul tema della violenza, delle tragedie della Storia, dell’individuo schacciato : invece, offre una successione d’immagini fotografiche (come ad esempio il balletto iniziale assai ridicolo), del coro che prende la posa, di personaggi sempre visti di fronte, in scene certo assai suggestive ma senza grande fantasia : abbiamo conosciuto una Margherita Palli un tempo decisamente originale più inventiva una volta, come scenografa di Luca Ronconi quando illuminava le sue produzioni. Palcoscenico assai nudo, scene su un palco girevole, ben costruite, efficaci, ma che non vanno di là dall’onesto artigianato teatrale o dal lavoro alimentare.

Il balletto…

Quello che delude è la mancanza d’inventività : cori in posa frontale e fissa facendo immagine, senza movimento, senza grande vita, gesti stereotipati, lavoro quasi inesistente sui personaggi, lasciati a se stessi : tutto ricorda l’opera di una volta, lussuosa per l’occhio, ma senza nulla di stimolante per la mente.

La presenza dell’Andrea Chénier come titolo d’inaugurazione della stagione anche se non è abituale (è un opera spesso presentata piuttosto nel corso della stagione), si giustifica pienamente, perché non è in cartellone dall’85 (Carreras, Cappuccilli, Marton/Chailly, regia Puggelli). Era tempo di riproporla a tutti costi, anche in stagione, anche nella vecchia produzione molto dignitosa di Lamberto Puggelli. Si è preferito metterla in risalto il 7 dicembre, ed è ancora migliore.
Ma se si presenta questo titolo in un’occasione cosi particolare, si deve proporre una visione artistica e musicale autentica che ne giustifichi l scelta d’onore, perché lo spettacolo di inaugurazione deve essere particolare e adatto all’occasione. Siccome le forze della Scala, coro, orchestra, tecnici sono di altissimo livello, il lavoro è impeccabile : la Scala dà la prova una volta di più che è un grande teatro.
Per quello che riguarda le novità, una tematica da difendere, un colore particolare, la cosa rimane più discutibile.

Annalisa Stroppa, Anna Netrebko, Luca Salsi

Il clou della produzione era Anna Netrebko che aveva suscitato commenti non sempre benevoli sulla presenza nel cast del marito Yusif Eyvazov nel ruolo di Andrea Chénier. Ha attirato per tutte le rappresentazioni il pubblico delle grandi serate, e in quest’ultima replica c’era una folla incredibile al botteghino : evento raro ormai e motivo di soddisfazione. Lo spettacolo è stato accolto con immenso successo, altro motivo di soddisfazione. Ma cosa rimarrà dello spettacolo tra un’anno ? Forse è stato una gioia effimera.

Molti punti sono da discutere :

  • La questione del pubblico : il trionfo ottenuto da una produzione, certo formalmente degna, ma molto meno interessante di altre (Rosenkavalier o Meistersinger ad esempio) ben lontane dall’aver segnato il tutto esaurito, pone il problema di cosa voglia il pubblico ? Una produzione ovvia che non faccia pensare troppo piuttosto che qualcosa di impegnativo : è questa la Scala di Toscanini, di Abbado o di Muti ?
  • La produzione stessa è classica e tradizionale, ben fatta. Non è questo il problema. Il problema sta nella povertà di idee, della rappresentazione delle tematiche dell’opera, dell’azione scenica, povertà anche nell’idea stessa di teatro che vuole trasmettere : un teatro che è solo quadro fisso, belle composizioni fotografiche e vacuità del resto.
  • Musicalmente colpisce una visione assai formale, di là dalla precisione e dalla perfezione gelida dell’orchestra. Un’orchestra che suona magnificamente, ma la direzione di Riccardo Chailly tende a rifiutare ogni sensibilità, ogni pathos, si rifiuta di rendere quello che ha fatto da più di un secolo il successo dell’opera di Giordano : la vibrazione, l’urgenza, il calore comunicativo della passione (delle passioni). Più che uno sguardo sulla qualità intrinseca di ogni particolare, quello che delude, è il raduno di tanta eccellenza per un prodotto senza troppo profumo, che ha perso il suo odore caratteristico. Forse è questa la novità, proporre un altro sguardo su Chénier. Ma è uno sguardo che non mi ha commosso per niente anche se Chailly è un grandissimo direttore, Martone uno dei registi italiani di spicco, e Netrebko la star che conosciamo.

 

L'abate (Manuel Pierratelli)

Ci troviamo davanti a una realizzazione musicale di notevole livello tecnico. La direzione di Chailly è precisa, equilibrata : si nota spesso che il suono della sua orchestra è forte – in Turandot, o nella Fanciulla del West-, ma non in questo caso. L’orchestra è davvero attenta, le singole parti eccelse, gli archi ovviamente sono il punto forte dell’orchestra, ma nessun problema negli ottoni o fiati, con un insieme omogeneo, un suono chiaro, preciso. Ciò malgrado (e purtroppo) l’insieme mi è parso freddo, senza altro carattere. Chailly si rifiuta di lasciare spazio ad ogni tipo di sentimentalismo in un’opera che al mio parere ne è piena : buoni di fronte a cattivi, gli innamorati amorosi contro il mondo ostile, il rivale cattivo all’inizio ma generoso alla fine. Chailly privilegiando altre caratteristiche che vede nell’opera, allontanandola dal verismo, si concentra sul valore intrinseco dell’orchestrazione, evitando qualcosa di troppo “zuccheroso “ma spingendosi troppo oltre in quanto a rigore e freddezza andando troppo in là nel rigore del freddo.

Quindi il risultato mi è sembrato un prodotto scaligero dal “packaging perfetto”. Ma dietro il sontuoso packaging, non ci trovo molta sostanza.

 

Il tribunale rivoluzionario

L’emozione verrebbe forse dal palcoscenico, dal cast riunito ?

La prestazione del coro, preparato da Bruno Casoni, è come sempre notevole : dizione esemplare, senso delle nuance, articolazione, capacità di rendere piccoli particolari, come i suoni “sospesi”, i momenti più lirici, di ammorbidire anche con espressività collettiva. Un lavoro esemplare. Il coro della Scala è sempre uno dei migliori al mondo e in tutti i repertori, per la sua disponibilità, versatilità e il suo professionismo.

Carlo Bosi (L'incredibile)

Stessa impressione per l’insieme delle parti secondarie, numerose in quest’opera, figure singolari, con uno o due interventi, dettagli pittoreschi assai bene rappresentati, anche nell’arco di un’istante solo : Fouquier-Tinville (Gianluca Breda), Roucher (Gabriele Sagona) Mathieu il Sans-Culotte (Francesco Verna). Vicino ai protagonisti esistono figure più scolpite, come la Madame de Coigny dell’espressiva Mariana Pentcheva, oppure “L’incredibile” di Carlo Bosi, sempre eccellente per il fraseggio e il colore di un vero caratterista, con una voce ben impostata e che sa sempre disegnare il contorno di un personaggio ; c’è anche la Bersi di Annalisa Stroppa, in una parte forse al di sotto delle possibilità attuali,  dove afferma come sempre la sua forte personalità scenica con una voce precisa, controllata , ben proiettata e potente, ma soprattutto di bel colore ed espressiva. Più deludente la Madelon di Julia Kutasi. L’intervento di Madelon è un “momento” dell’opera, una sorta di “pezzo chiuso” melodrammatico, dove la madre che ha già perso un figlio offre il secondo alla nazione in guerra. Spesso la parte viene affidata a una cantante a fine carriera con notevoli doti interpretative, che sono sconvolgenti (Mi ricordo di Helene Schneiderman a Zurigo qualche anno fa). Julia Kutasi esegue la partitura, ma l’intervento è un po’ artificiale, rimane esterno e non molto sentito.

Anna Netrebko, Luca Salsi

Tra i protagonisti, Luca Salsi è Carlo Gérard, è ben calato nel ruolo, ne ha la voce, e l’impegno scenico. Di sicuro è quello la cui presenza scenica è più forte e anche la più sensibile, nonché la più commovente : è il baritono italiano più convincente. La voce è potente, addirittura imponente, anche se lo stile non è sempre molto controllato. Confesso che ho sentito tante volte Piero Cappuccilli in questa parte nella quale era cosi sconvolgente da rimanere insuperato. Fu il Gerard della mia generazione e senza dubbio uno dei grandissimi Gerard del secolo scorso : sono formattato così ed è difficile cambiare. Ma riconosco ben volentieri che Salsi ha una voce, una presenza, una sensibilità, e si sforza realmente di rendere il carattere del personaggio, lo fa esistere e lo rende commovente.

Yusif Eyvazov (Chénier), Anna Netrebko (Maddalena)

Anna Netrebko era l’attrazione principale della serata. Ormai comincia a cantare il repertorio verista, è stata Adriana Lecouvreur a Vienna prima di Maddalena di Coigny a Milano. Si sa che la voce è stupefacente, con rarissima omogeneità dai gravi all’acuto, con gravi profondissimi e puliti senza mai usare il petto come tante cantati slave, con un timbro dolce e carnoso, e somma tecnica. Gli acuti forse non mi sono sembrati così splendidi come una volta. Però il suo è senza dubbio un canto di eccezionale bellezza da tutti i punti di vista, con una perfezione formale che ci ricorda quale cantante belcantista fu la Netrebko. Appunto, questo canto tende verso il belcanto, caratteristica allo stesso tempo inattesa e voluta dal direttore.
Manca però una interpretazione autentica. La cantante, poco guidata dalla regia, si affida spesso a gesti stereotipati, a un’espressività minimale, alla quale manca vibrazione. Non mi sembra che la Netrebko, che sapeva legare la perfezione del canto con l’espressività, o meglio fare del canto una pura espressione (la sua leggendaria Traviata!), sia riuscita stasera a combinare l’uno e l’altro. Siamo agli antipodi di Anja Harteros a Monaco di Baviera, questa primavera (con Kaufmann), che, con una voce certamente meno rara di quella della Netrebko, ci sconvolgeva, facendo emergere il personaggio dietro la cantante con un colore espressivo, con un gesto, con uno sguardo. Netrebko dice il testo, esegue la partitura a meraviglia : ma non emerge Maddalena, rimane Netrebko.

Andrea Chénier era intepretato da Yusif Eyvazov. Il tenore russo senza dubbio ha i mezzi vocali che fanno dimenticare il suo status cosi mediatizzato di “Signor Marito”. La voce è forte, il timbro comune ma chiaro e sonoro, la dizione e l’articolazione sono veramente impeccabili : si capisce tutto del testo, gli acuti sono potenti a spesso riusciti anche se alla fine (nel duetto finale con lei) sembra un po’ più stanco e spento. Ma non basta a fare uno Chénier, perché manca la qualità che fa i grandi e mostra l’eroe sulla scena : il carisma. Arriva in scena in mezzo al coro e nessuno ci fa caso (A Monaco, Kaufmann entrava discretamente ma gli occhi di tutti erano già abbagliati prima che aprisse bocca), non costruisce il personaggio, né a livello espressivo, assai povero e senza molti accenti, né a livello scenico, con gesti convenzionali da tenore anni cinquanta : nessun impegno scenico, nessuna vibrazione che provocherebbe  emozione da parte dello spettatore ; tutto rimane serio, didascalico, corretto nell’insieme, ma mai incarnato. Il suo Radamès così insipido mi aveva sorpreso a Salisburgo, il suo Chénier conferma una mancanza totale di personalità scenica. Siccome il canto è buono senza essere eccezionale, la sua interpretazione rimane complessivamente una delusione.

“Non male” dicevano certi spettatori che si aspettavano di peggio. Ma dire “non male” di uno spettacolo inaugurale alla Scala è già problematico. Uno spettacolo realizzato molto bene, con la solita cura e professionalità ma senza calore, uno spettacolo vetrina, uno spettacolo freddo : mancano solo cuore e anima.

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