Gaspare Spontini (1774–1851)
Fernand Cortez
ou La conquête du Mexique (1809)
Tragédie lyrique en trois actes
Libretto di Etienne de Jouy e Joseph Alphonse Esménard

Maestro concertatore e direttore : Jean-Luc Tingaud
Regia : Cecilia Ligorio
Scene : Massimo Checchetto e Alessia Colosso
Costumi : Vera Pierantoni Giua
Luci : Maria Domenech Gimenez
Coreografia : Alessio Maria Romano

Fernand Cortez : Dario Schmunck
Télasco : Luca Lombardo
Amazily : Alexia Voulgaridou
Alvar : David Ferri Durà
Moralez : Gianluca Margheri
Il sommo sacerdote messicano : André Courville

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro : Lorenzo Fratini

Compagnia Nuovo BallettO di ToscanA

 

Firenze, Opera di Firenze – Teatro del Maggio, mercoledì 23 ottobre 2019

Fernand Cortez è abbastanza raro nei teatri, cosicché il titolo, proposto a Firenze all'inizio dell'autunno, poteva essere di grande interesse e attirare pubblico e stampa. La crisi all'Opera di Firenze, seguita dalle dimissioni di Fabio Luisi, ha costretto il teatro a chiamare un altro direttore, bravo, il francese Jean-Luc Tingaud, direttore musicale e artistico dell'Orchestra Ostinato. Purtroppo, il cast e l'allestimento  non rendono giustizia all'opera di Spontini. Per questo atteso ritorno, si poteva almeno scegliere interpreti con voce adeguata. Cronaca di un'occasione parzialmente mancata.

 

Coro del maggio musicale fiorentino

Il 28 novembre 1809 all’Académie Impériale de Musique andava in scena alla presenza di Napoleone Fernand Cortez, con musica di Gaspare Spontini, che aveva superato Cherubini, Méhul e Paisiello nei favori dell’imperatore e anche – aggiungono alcuni con una punta di malignità – dell’imperatrice Joséphine. Anche il nome del librettista indica che si era voluto il meglio disponibile sulla piazza : si trattava infatti di Étienne de Jouy (con la collaborazione di Joseph-Alphonse Esménard), che per Spontini già aveva scritto La Vestale e che in seguito avrebbe fornito i libretti a Cherubini e Méhul, chiudendo la sua carriera con Moïse et Pharaon e Guillaume Tell per Rossini.

L’opera era stata commissionata a Spontini per celebrare la conquista della Spagna avviata con successo da parte dei francesi e sembra che sia stato l’imperatore stesso a suggerire l’argomento e a dare anche precise indicazioni sul modo di svilupparlo : “L’opera avrebbe dovuto accentuare il contrasto tra le vedute umane di Cortez e il fanatismo dei messicani, stabilendo, attraverso una ideale trasposizione storica, un confronto tra il sentimento liberale dei francesi e il bigottismo spagnolo del tempo”, come scrive Paolo Fragapanenella sua ormai vecchia ma ben informata biografia del compositore((Paolo Fragapane, Spontini, Sansoni editore, Firenze 1954)). Inutile dire che oggi si resta stupefatti e increduli a leggere che Napoleone voleva essere paragonato a quello che ai nostri occhi è un conquistatore sanguinario e spietato, privo di ogni scrupolo e di ogni ideale.

Nel 1812, quando la guerra in Spagna si trasformò in una disfatta per i francesi, l’opera fu ritirata. Ma evidentemente aveva lasciato un buon ricordo, se nel 1817, tornati i Borbone, si chiese a Spontini di ritoccarla per adattarla ai tempi : in quella versione buona parte della musica fu conservata, ma qualcosa venne tagliato e qualcosa venne aggiunto (per esempio fu introdotto il personaggio di Montezuma) e parti di atti e interi atti furono spostati, alternando così la coerenza drammaturgica dell’opera. Seguirono due altre versioni nel 1824 e 1840, rispettivamente per Berlino e Parigi. È la versione del 1817 che Gioachino Rossini eseguì in traduzione italiana a Napoli nel 1820 e che è stata usata tutte le rare volte che negli ultimi cent’anni Fernand Cortez è tornato sui palcoscenici. Quella ascoltata ora a Firenze è invece la prima esecuzione moderna della versione originale del 1809, ricostruita da Federico Agostinelli.

Finora abbiamo definito Fernand Cortez genericamente opera ma in realtà è una tragédie lyrique, che conserva ancora qualcosa non tanto di Lully quanto di Gluck : pensiamo ovviamente all’importanza dei cori e delle danze, quest’ultime chiamate anche a chiudere l’opera quando ormai la vicenda è conclusa. Ma pensiamo anche alla severità dello stile melodico, che è talvolta così scarno da far dubitare delle doti melodiche di Spontini, quando invece la rinuncia alle melodie sentimentali ed espressive di tipo italiano è una scelta consapevole e conforme alla tradizione della tragédie lyrique.

Se da una parte Fernand Cortez guarda al secolo passato, dall’altra parte guarda al futuro, ed è questa la parte più interessante. L’inizio del primo atto, che fonde solisti, coro e orchestra in un grandioso blocco musicale di vastissime proporzioni, è un antecedente diretto dei grandi quadri che aprono alcune delle ultime opere serie italiane di Rossini, come Mosè in Egitto e Semiramide. Ancor più in anticipo sui tempi sono gli effetti spettacolari, che preludono al grand opéra e avrebbero influenzato l’opera francese per i decenni seguenti. E con la sua scrittura orchestrale, ricca di impasti sonori stupefacenti, fino ad allora inauditi, Spontini precorre Berlioz, sebbene l’orchestra di Berlioz mostri indubbiamente maggior varietà. Non è un caso che le critiche del tempo abbiano usato per Spontini parole che vennero più tardi ripetute quasi identiche per Berlioz : “rimbombante come il tuono”, “effetti impressionanti […] ottenuti con strumenti molteplici e rumorosi e con accordi bizzarri”, “follia”.

Il massimo esempio di questi impressionanti effetti orchestrali e di questi bizzarri accordi lo offre il quadro iniziale del terzo atto, nel tempio del “dio del male”, quando si alternano i cori sanguinari e feroci del popolo, dei guerrieri e dei sacerdoti messicani, le preghiere dei prigionieri spagnoli destinati ad essere sacrificati, la voce dell’oracolo (Spontini si servì di ben sei bassi per renderla terrificante come voleva) e le danze selvagge dei messicani. Il colorito esotismo dei canti e delle danze dei nativi messicani è totalmente inventato, ma è proprio questo a dare a Spontini la libertà di sbizzarrirsi in sonorità orchestrali e armonie audaci e originali, totalmente al di fuori dei canoni del classicismo, che proprio allora era al suo apogeo. Si può immaginare quale choc dovette essere tutto ciò per l’ascoltatore del 1809, se anche l’ascoltatore attuale non può non restare dapprima sorpreso e poi conquistato da quell’orchestra così violentemente colorata, da quelle armonie dissonanti, da quei ritmi selvaggi, che possono far pensare addirittura a L’Oiseau de feu e a Le Sacre du printemps, naturalmente senza dimenticare che Spontini scriveva un secolo prima e non poteva spingersi così avanti come Stravinsky.

Cavalli e balletto

Un’altra scena che resta particolarmente impressa è quella del primo atto, allorché nel 1809 entrarono in palcoscenico i cavalli montati dai soldati spagnoli ricoperti dalle loro ferrigne armature, che i messicani – come raccontano le cronache del tempo – scambiarono per spaventosi esseri divini. Se mi è consentita una nota di colore, i cavalli e i cavalieri erano allora forniti dal circo di Antonio Franconi, ancora oggi ricordato per la sarcastica battuta che Napoleone rivolse a Murat, quando gli si presentò con la fantasiosa uniforme che indossa in alcuni ritratti, fornita di pennacchi sul cappello e di pelli di animali selvatici gettate sulle spalle : “Sembrate il grande Franconi”. All’epoca i cavalli erano ben quattordici, poco meno dei sedici che Cortez aveva effettivamente con sé. Alcune testimonianze del tempo riferiscono addirittura di una carica di cavalleria sul palcoscenico dell’Opéra, ma più verosimilmente si trattò di evoluzioni meno irruenti. La musica che Spontini scrisse per questa scena non è esotica e pittoresca di quella della scena nel tempio, ma è comunque di grande effetto. Si tratta di un balletto in cui la paura dei messicani (e soprattutto delle messicane) per quelle creature spaventose si trasforma in qualcosa di diverso, in cui lo spettatore moderno può cogliere un mix perverso di violenza e attrazione, che la coreografia ha portato alla luce senza calcare troppo la mano : facendo di necessità virtù ha rinunciato ai cavalli veri, sostituiti da tre grandi statue di cavalli un po’ nello stile di Pier Luigi Pizzi, e ha portato in scena ballerini dal corpo umano seminudo e dalla inquietante testa equina, che intrecciavano con le donne messicane danze dai risvolti sadomaso .

Indubbiamente Spontini amava le scene grandiose, ma non perché fossero un facile mezzo per conquistare il pubblico con effetti spettacolari, bensì perché sapeva che erano quelle in cui poteva dare il meglio di sé. A tal proposito vanno citati anche l’incendio delle navi spagnole nel primo atto e la marcia con coro degli spagnoli all’inizio del secondo.

Il direttore Jean-Luc Tingaud – chiamato a sostituire Fabio Luisi – ha assicurato la buona riuscita di queste scene spettacolari, contando anche sul buon livello dell’orchestra e del coro fiorentini, tuttavia non sempre evitò sensibili squilibri tra le grandi masse di esecutori.

Le scene liriche e intime appaiono inferiori ai momenti più grandiosi. Come si è accennato prima, le melodie di Spontini sono severe e poco seducenti, probabilmente per una sua precisa scelta stilistica. Ma c’è un altro grosso problema : Spontini non era un grande melodista e le sue melodie suonano generiche, non adeguate a caratterizzare i protagonisti e a esprimere i loro affetti D’altronde bisogna riconoscere che le arie e i duetti dei protagonisti concedono poco o nulla al sentimento e quindi qualsiasi operista italiano dell’epoca si sarebbe trovato nella situazione di non poter giocare la carta vincente della scuola italiana, la melodia. L’argomento del Fernand Cortez è “politico” ed evidentemente nel 1809 i tempi non erano maturi per scavare a fondo nell’animo dei potenti e per mettere in risalto i nodi politici di un dramma, come avverrà poi in Don Carlos e Boris Godunov.

Cortez è un guerriero tutto d’un pezzo, che pensa solo a combattere e a vincere, costi quello che costi : in fin dei conti poco interessante. La protagonista femminile, Amazily, è un personaggio ben più complesso : non solamente una donna innamorata – ispirata a Malinche, l’amante messicana di Cortez – ma anche un’eroina tragica che cerca una conciliazione tra spagnoli e messicani e che è disposta a morire per questo. Il libretto crea per loro delle situazioni interessanti, che la musica non valorizza nel modo migliore. E anche l’esecuzione fiorentina non aiuta. Ad esempio, nel loro primo duetto, dopo aver passeggiato a vuoto per il palcoscenico per qualche minuto, i due concludono seduti su due bauli a una mezza dozzina di metri di distanza l’uno dall’altro : se loro stessi non sembrano affatto coinvolti in quel che cantano, tanto meno lo saranno gli ascoltatori.

Alexia Voulgaridou ( Amazily) e Fernand Cortez (Dario Schmunck)

Le responsabilità vanno divise tra la regia molto statica – non solo in questa scena – e i protagonisti Dario Schmunck e Alexia Voulgaridou, due casi di evidente miscasting. Lui è un tenore lirico-leggero e non può essere abbastanza autorevole ed eroico nella parte di Cortez, scritta per un baritenore. Lei non ha i fiati per sostenere le lunghe frasi melodiche e per scolpire i recitativi e soprattutto non ha il temperamento di una tragédienne e dà alla principessa Amazily un tono uniformemente sentimentale e un po’ lamentoso da piccola borghese (non per nulla canta soprattutto Puccini) totalmente estraneo al personaggio. Entrambi questi interpreti ignorano lo stile francese e per rendersene conto basta paragonare i loro deboli recitativi a quelli nobili ed energici di Luca Lombardo, francese di nascita e di formazione, che conosce e rispetta “la prosodia della lingua del Grand Siècle, in versi alessandrini, una delle meraviglie dell’opera spontiniana”, come afferma il direttore d’orchestra nel programma di sala. Lombardo non è più giovanissimo e il suo timbro si è un po’ prosciugato, ma interpreta comunque adeguatamente Telasco, il fratello di Amazily.

Gianluca Margheri (Moralez) e Dario Schmunck (Cortez)

Sommando autorità vocale e consapevolezza stilistica, Gianluca Margheri è l’interprete più completo del cast e dà un bel rilievo a Moralez, compagno d’arme di Cortez. Bene il Grande Sacerdote di André Courville e l’Alvar di David Ferri Durà. I ruoli minori erano affidati ad artisti del coro del Maggio, che nel complesso non hanno sfigurato.

Come già accennato, la regia di Cecilia Ligorio era statica e povera di idee. Ma un’idea c’era : Moralez talvolta si siede a lato del palcoscenico e scrive un diario, le cui parole (prese, credo da La Historia verdadera de la conquista de la Nueva España di Bernal Díaz del Castillo) esprimono dubbi e critiche sulla conquista spagnola del Messico e sono proiettate sul fondale, moderando così il non più accettabile trionfalismo celebrativo dell’opera.

Essenziali ma suggestive le scenografie di Alessia Colosso e Massimo Cecchetto : in palcoscenico pochi elementi stilizzati – un campo di mais, le navi spagnole, il tempio messicano – e sul fondale immagini del mare e antiche carte. Il tutto valorizzato dalle bellissime luci di Maria Domènech Gimenez. Belli anche i costumi di Vera Pirantoni Giua. Le coreografie di Alessio Maria Romano, realizzate dalla Compagnia Nuovo BallettO di ToscanA, supplirono alla regia nel dare animazione e drammaticità ai momenti culminanti dell’opera.

Danze nel tempio messicano
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Mauro Mariani
Mauro Mariani ha scritto per periodici musicali italiani, spagnoli, francesi e tedeschi. Collabora con testi e conferenze con importanti teatri e orchestre, come Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Real di Madrid. Nel 1984 ha pubblicato un volume su Verdi. Fino al 2016 ha insegnato Storia della Musica, Estetica Musicale e Storia e Metodi della Critica Musicale presso il Conservatorio "Santa Cecilia" di Roma.

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