Gioachino Rossini (1792–1868)
Moïse et Pharaon ou le Passage de la mer Rouge (1827)
Opera in quattro atti
Libretto di Luigi Balocchi e Etienne de Jouy
Prima assoluta il 26 marzo 1827 all'Académie Royale de Musique, Parigi (Opera della Rue Le Peletier)
Edizione Casa Ricordi

Direzione musicale : Giacomo Sagripanti
Regia, scene e costumi : Pier Luigi Pizzi
Collaboratore alla regia e luci : Massimo Gasparon
Coreografie : Gheorghe Iancu

Moïse : Roberto Tagliavini
Pharaon : Erwin Schrott
Amenophis : Andrew Owens
Éliézer : Alexey Tatarintsev
Osiride / Voix mystérieuse : Nicolò Donini
Aufide : Matteo Roma
Sinaïde : Vasilisa Berzhanskaya
Anaï : Eleonora Buratto
Marie : Monica Bacelli 
Ballerini solisti : Maria Celeste Losa, Gioacchino Starace (Del corpo di ballo del Teatro alla Scala)

Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del Coro Giovanni Farina

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI

Nuova produzione

Pesaro, Vitrifrigo Arena, 6 agosto 2021, Ore 19 (Prova generale stampa & professionali)

Moïse et Pharaon ou le passage de la mer Rouge è una delle opere più monumentali di Rossini, che anticipa la nascita del „Grand Opera“ che viene solitamente fissata a Guillaume Tell (1829). È una riscrittura e un adattamento di Mosè in Egitto (creato a Napoli nel 1818), ma un adattamento su larga scala, una specificità dell'Opera di Parigi. L'opera ha una sua personalità, poiché l'originale italiano è stato profondamente rielaborato, e non solo con il suo singolare balletto (quasi 30 minuti di musica). Il Rossini Opera Festival ripropone dunque l'opera, dopo la precedente produzione 24 anni fa (1997) firmata Graham Vick, scomparso recentemente, e diretta da un giovane Vladimir Jurowski che si è poi fatto un nome in un repertorio completamente diverso.
Pier Luigi Pizzi firma la produzione dell’edizione 2021, che è più simile a un oratorio monumentale che a un'opera, mentre l'orchestra è affidata a Giacomo Sagripanti, direttore molto popolare tra la nuova generazione di direttori italiani.

Una piramide ? Siamo in Egitto !

Sebbene Moïse et Pharaon sia stato creato il 26 marzo 1827 all'Opéra di Parigi, e sia stato un successo continuo per anni, il ricordo dell'opera è rimasto sepolto negli archivi dell'Opéra, di cui conosciamo da tempo la memoria corta, fino al 28 settembre 1983, quando Massimo Bogianckino (che aveva basato il suo mandato sulla rinascita di un repertorio dimenticato che aveva fatto le grandi ore di questo teatro) riscoprì Moïse davanti a un pubblico parigino stupito. Ricordava che c'erano molte opere italiane riadattate per Parigi, e molte creazioni "per Parigi" di compositori italiani che vivevano a Parigi o amavano risiedervi, non meno di Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi.

Ha quindi simbolicamente aperto il suo mandato con MoÏse et Pharaon, in una produzione storica di Luca Ronconi, sotto la direzione sgargiante di Georges Prêtre e con un cast che fa ancora sognare : Verrett, Gasdia, Merritt, Ramey e altri. Naturalmente, e come dovrebbe essere, si è trattato di un „unicum “fugace poiché la produzione non fu mai ripresa e l'opera non fu mai più rappresentata a Parigi : questo è tipico di Parigi e la dice lunga sui difetti della programmazione di questo teatro che fu un faro della musica e che ora è appena una fiammetta.

Personalmente, questo ricordo non mi ha abbandonato, ravvivato sia dalla produzione scaligera del 2003, che riprendeva la regia di Ronconi, sia ovviamente da questa attenta produzione del Rossini Opera Festival, che tuttavia manca proprio della maestosità che tanto mi aveva colpito all'epoca. Resta il fatto che il Rossini "francese" merita fortemente un ritorno sulle scene, e non solo a Pesaro.

Il MoÏse et Pharaon nella sua versione francese ha un profilo che ovviamente deriva dal dibattito che voleva fare dell'opera, come l'originale italiano, un "azione tragico-sacra", ed Etienne de Jouy avrebbe voluto che la qualifica fosse "oratorio", cosa che avvenne alla prima, in piena Settimana Santa. Questo non ha impedito che venisse eseguita in versione scenica. Ma questa qualifica, al pari del Messiah di Handel o della Creazione di Haydn, ha dato all'opera uno status monumentale. Rossini conosceva anche i suoi "classici", Mozart, Haydn e Gluck (non dimentichiamo neanche il suo soggiorno a Vienna nel 1822, cinque anni dopo la prima del Mosè in Egitto a Napoli, e cinque anni prima di quella del MoÏse et Pharaon a Parigi), e ci sono senza dubbio ricordi di Gluck in questa musica.

Questa monumentalità è il carattere dominante della regia di Pier Luigi Pizzi, che non è molto "operistica", lasciando poco spazio al dramma, ma molto spazio ad atteggiamenti quasi ingessati e a masse fisse come statue : poco accade tra i personaggi ; Pizzi non è mai stato un grande direttore di attori, ma più un compositore di quadri viventi, anche se alcuni suoi allestimenti possono contraddire questa affermazione (il suo ultimo Barbiere di Siviglia a Pesaro ad esempio).

L'allestimento nel vasto spazio della "Vitrifrigo Arena" (non mi abituerò mai a questo ridicolo nome) ricorda i pilastri di un tempio egizio in fondo, e circonda l'orchestra con una passerella che permette ai solisti di esibirsi talvolta in primo piano, e al coro di essere posizionato lateralmente, ma impedisce una recitazione che rimane limitata, inoltre, gli stessi cantanti si accontentano dei soliti gesti (mani sul cuore ecc…) i gesti "vintage" dell'opera di sempre o di un passato nostalgico.

Piaga d'Egitto : L'oscurità. Vasilisa Berzhanskaia (Sinai), Alexey Tatarintsev (Eliezer)

Così, al di là di questo dispositivo statico, ci sono le proiezioni che la modernità permette, e che evocano o l'Egitto eterno (una piramide, che originalità…) o le dieci piaghe d'Egitto, (la morte dei primogeniti, il buio…) con cieli tormentati e quindi angoscianti. Tutto sommato, è banale, ma superbamente prodotto, con colori contrastanti (blu, oro, viola) e un senso della composizione che è stato il marchio di fabbrica di Pizzi per molto tempo : la produzione è quindi piacevole da vedere, e piace agli occhi, senza porre troppe domande bibliche o filosofiche, ma comunque con un tocco di attualizzazione alla fine.

Piaga d'Egitto : pioggia di fuoco. Erwin Schrott (Pharaon), Vasilisa Berzhanskaia (Sinaïde)

Emergono alcune idee, di cui ci si chiede la pertinenza. In primo luogo, la presenza di un bambino che ovviamente rappresenta il futuro e dà fiducia, che appare all'inizio e soprattutto alla fine quando il Mar Rosso si è chiuso (inoltre, la realizzazione dell'apertura del Mar Rosso non ha il carattere spettacolare che ci si potrebbe aspettare con i video). È alla fine che si concentra l'UNICA idea drammaturgica : gli ebrei che hanno lasciato l'Egitto attraversano sia il Mar Rosso che il tempo, poiché arrivano nella terra promessa non solo con il bambino del futuro, ma vestiti come migranti del ventesimo secolo che possono essere facilmente assimilati agli ebrei sopravvissuti alla Shoah che arrivano in Israele.
Questa prospettiva fugace, l'ultima immagine della serata, evoca la questione del popolo ebraico oppresso, ma è anche una questione più ampia oggi, in un mondo in cui gli esuli in fuga dall'oppressione cercano (spesso invano) un rifugio sicuro. Ma questo è già troppo per la serata che abbiamo vissuto.

Abbiamo troppo rispetto per il lavoro e la carriera del 91enne Pïer Luigi Pizzi per essere duri con uno spettacolo pulito, che non ci insegna nulla di più sul senso dell'opera, ma che si svolge in modo piuttosto dignitoso.

Purtroppo, un'altra insoddisfazione ci coglie quando sentiamo il modo in cui Giacomo Sagripanti, a capo di un'eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI che da quando officia a Pesaro ha davvero cambiato il livello delle forze musicali.
Sagripanti, che ormai è un direttore d'orchestra richiesto anche a livello internazionale, è molto attento all'equilibrio, si preoccupa di controllare tutte le forze importanti presenti, e infatti, nessun disaccordo buca-palcoscenico, cantanti ben sostenuti e accompagnati, nessun problema tecnico : ecco l'essenziale della sua direzione, che è già molto.
Ma è sul lato interpretativo che ci aspettavamo di meglio. Il suono molto analitico, che permette di sentire molti dettagli dell'orchestra e della partitura, da cui spiccano gli strumenti singolari (i legni, per esempio), sorprende con una chiarezza che ricorda più gli accompagnamenti delle opere buffe rossiniane che quelle più serie o monumentali ; il brio c’è, ma c’è quasi troppa luce, non necessariamente prevista in questa misura in Moïse et Pharaon. Manca talvolta di "maestosità" e di angoscia mistica, e soprattutto di spessore sinfonico : i momenti sinfonici sono più forti in volume, ma non sempre in intensità : la pasta orchestrale manca di corpo, manca di monumentalità, manca, insomma, di grandezza. È un peccato perché il tutto avrebbe potuto essere tradotto meglio, più colorato, più commovente anche, anche se ci sono momenti di innegabile successo come il finale del terzo atto.
Questa direzione manca di sensibilità, e anche di teatralità (in questo alla pari con la regia), l'insieme è accettabile, serio, preciso, ma non dice nulla di "forte", anche se certi momenti, come il lunghissimo balletto (che è quasi tutto il terzo atto) sono benvenuti e accompagnano la scena con brillantezza, e anche delicatezza : ma il balletto è un "intrattenimento" e non la musica che ci si aspetta in Moïse et Pharaon. Quanto alla preghiera di Moïse e il finale, meravigliosi momenti di emozione, essi rimangono musicalmente indifferenti, e anche piuttosto piatti, per non parlare del coro Chantons, bénissons le Seigneur : tutto finisce in una relativa indifferenza. Senza rilievo.
Inevitabilmente si ripensa (è colpa dei veterani del mio genere) all'immenso Moïse che Georges Prêtre ci aveva fatto scoprire, e anche quello piuttosto convincente (e ben cantato) di Muti alla Scala nel dicembre 2003.
Il coro invece, molto ben preparato da Giovanni Farina, molto sollecitato nell'opera e in prima linea data la sua posizione su entrambi i lati del palcoscenico, ha la potenza e l'intensità desiderata, l'esecuzione è particolarmente convincente.

Gioacchino Starace e Maria Celeste Losa

È l'esecuzione completa del balletto che sorprende per prima, un balletto la cui musica, come abbiamo sottolineato, è musica da intrattenimento, e che quindi giustifica una coreografia di Gheorghe Iancu che si distacca completamente dalla trama, con i solisti della Scala che meritano di essere menzionati in primo luogo Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace, che sono davvero eccellenti, con un vero stile e un lavoro atletico impressionante. Meritano di essere menzionati perché sulla locandina appaiono in coda a tutti, in quarta pagina, perfino dopo le maschere, anche se occupano il palco per ½ ora delle quattro dell'opera… e trovo curioso, se non scandaloso, questo modo di metterli in fondo alla locandina.

Eleonora Buratto (Anaï) Monica Bacelli (Marie)

Il cast rimane molto eterogeneo, e si possono rimpiangere certe scelte inappropriate.
Monica Bacelli come Marie ha la stessa voce esausta nel registro acuta come nella recente Marcellina di Aix, ma tiene invece una vera presenza vocale nei registri centrale e grave che compensa i pochi problemi di questa eccellente cantante. Gli altri ruoli più piccoli sono ben tenuti, Matteo Roma è un tenore solido che si mostra promettente e questo può essere verificato nel suo Aufide sonoro e vigoroso, e Nicolò Donini come voce misteriosa e come Osiride (è curioso che lo stesso cantante debba interpretare due parti opposte nell'opera, la voce misteriosa che guida Moïse e Osiride, il sacerdote di Iside, nemico degli ebrei) è un basso abbastanza potente con un timbro interessante.

Andrew Owens (Aménophis)

Andrew Owens, invece, fatica a convincere nel ruolo di Amenophis, il figlio del faraone innamorato di Anaï. Il ruolo è difficile, e deve sostenere il soprano di Anaï ; il timbro non è seducente, la voce senza la rotondità né il volume richiesto, spesso coperto, soprattutto all'inizio, le note acute sono goffamente dardeggiate, la coloratura non ha la facilità prevista, Questo migliora poco a poco ma non abbiamo qui un Amenophis che entusiasta con la sua agilità e che si impone sulla scena ; il ruolo è stato scritto per Adolphe Nourrit, il che lascia intuire la sua difficoltà e la personalità necessaria per interpretarlo. Qui non ci siamo.

Alexey Tatarintsev (Éliézer)

Alexey Tatarintsev, invece, come Éliézer (fratello di Moïse), è valoroso, con un buon appoggio e bella proiezione, la voce è presente, energica e convincente.

Erwin Schrott (Pharaon)

Erwin Schrott è Pharaon, come nel 2003 con Muti. La voce è ancora incredibilmente potente, ma lanciata piuttosto che cantata. Lo stile ovviamente soffre e di fronte al Moïse molto composto, molto controllato e molto elegante di Roberto Tagliavini, è un po' un a caricatura. Schrott è un fenomeno vocale che merita di essere addomesticato un po'. Senza molto interesse, tranne che per lo show.

Eleonora Buratto (Anaï)

Anaï è Eleonora Buratto, molto controllata nella prima parte, mostra una voce insolente nei primi due atti, acuti trionfali, controllo, agilità, e anche stupende morbidezze, così come i filati, tutto formidabilmente cantato.Purtroppo, mentre ci aspettavamo un'aria del quarto atto, la sua grande aria Quelle affreuse destinée ! controllata allo stesso modo, la cantante ha voluto strafare, mostrare la potenza della voce a scapito del legato, a scapito delle agilità, il che delude pesantemente volendo mostrare la potenza di una voce che ora canta anche Aida… E Anaï non è né un'Aida né un'eroina verista : il ruolo era di Laure Cinti-Damoreau alla prima, non c'è altro da dire… Anaï ha meno bisogno di acuti trionfali e guizzanti che di rotondità, di un'agilità molto fluida e non a scatti e di un lavoro interpretativo più approfondito.

Vasilisa Berzhanskaya (Sinaïde)

Trionfo assoluto e giustificato invece per la Sinäide di Vasilisa Berzhanskaya, ascoltata ne Il barbiere di Siviglia in video all'Opera di Roma così come in Romeo ne I Capuleti e i Montecchi, sempre a Roma. Esplode in questo ruolo che richiede sia agilità che potenza (Sinaïde era Verrett nel 1983!) la sua aria Ah, d'une tendre mère manda la sala in delirio giustificato. Formatasi all'Accademia rossiniana di Pesaro, ha controllo, intelligenza nel modo di scolpire le parole, ha potenza e acuti, oltre che agilità, senza mai forzare, senza mai essere troppo dimostrativa : è una vera lezione di canto rossiniano. Ecco il livello di canto che tutta la serata avrebbe dovuto raggiungere.

Roberto Tagliavini (Moïse)

Un altro trionfatore è Roberto Tagliavini in un Moïse trattenuto, quasi poetico, che forse non ha l'autorità di un Ramey, o di un Abdrazakov, ma che non cerca di essere il Moïse profetico che ci aspettiamo sempre ; non vuole competere su questo lato. È un Moïse invece di grande umanità, e in questo senso si oppone al Pharaon un po' selvaggio di Schrott. Il suo canto è molto interiorizzato, con un fraseggio magnifico e una sorprendente morbidezza di tono. Ciò che colpisce di questo canto è il rigore, il controllo, la "modestia" e l'emozione che trasmette. La preghiera è in questo senso un modello di canto che guadagna la sua autorità attraverso la sua forza interiore, attraverso un vigore che non è esposto ma sentito : lo strumento vocale è allo stesso tempo robusto e quasi tenero, come in un colloquio privato con l'Eterno, ma che trae la sua forza persuasiva dagli accenti più che dalla potenza. Un Moïse molto personale, tenero e formidabilmente convincente.

Tutto sommato, una serata di sicura dignità, ma non la definitiva grande serata rossiniana. Sarebbe stato necessario un tenore più convincente in Amenophis e un Anaï più rigorosa e controllata, così come una direzione musicale con una linea interpretativa più chiara. Ma Rossini è sempre difficile, sempre sul filo del rasoio, sempre a rischio : è questo che rende la sua produzione così incomparabilmente bella.

Roberto Tagliavini (Moïse)

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