In streaming sul sito del Teatro Comunale di Modena Luciano Pavarotti
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Prima di tutto, una sorpresa : ci si poteva aspettare di vedere la versione “modenese” del 1886 del Don Carlo, in cinque atti e in italiano. Invece è stata scelta la versione in quattro atti (1884, Milano). La versione in cinque atti è stata eseguita nel 2012. È probabile che trasmettere in forma di concerto uno spettacolo troppo lungo non sarebbe stato molto televisivo (questo dura già 3h05, ci vogliono circa 4 ore per la versione in cinque atti) e avrebbe forse scoraggiato gli spettatori), scommettiamo che una ripresa con messa in scena avrebbe forse portato a una scelta diversa.
È sempre più frequente oggi, anche nella versione in quattro atti, introdurre certi momenti della versione originale, come il famoso "Lacrimosa" nel quarto atto (nella versione in cinque atti, dopo la morte di Posa), che un pezzo reintrodotta negli anni '80, senza dubbio uno dei momenti più commoventi dell'opera. Agli occhi di alcuni direttori, questo giustificava l'introduzione anche dove non dovrebbe essere… non è il caso qui, abbiamo diritto a una versione in quattro atti “autentica”.
Ma non c'è spazio per polemiche o osservazioni bizantine sulle versioni di Don Carlo. Come sottolineato sopra, una versione concertante di un “Grand-Opera” in cinque atti, di cui lo spettacolare è una delle chiavi, non è necessariamente una buona idea. Ci accontenteremo di quella in quattro atti.
E questo Don Carlo, con una compagnia di canto molto accurata, è una vera opera d'arte in sé, perché l'omogeneità di tutti i cantanti deve essere sottolineata fin dall'inizio. Questo è il merito dei "Teatri di Tradizione", particolarmente attivi in Emilia-Romagna, e per questa produzione, Modena, Reggio Emilia e Piacenza hanno unito le forze, e l'orchestra regionale "Arturo Toscanini" sta suonando sotto la direzione di Jordi Bernàcer, direttore d'orchestra spagnolo di Valencia che dirige spesso in Italia, ma anche in Germania dove è stato ascoltato in particolare né La Forza del Destino a Berlino con la regia di Frank Castorf. In questo tipo di esecuzione concertante, il direttore d'orchestra non deve seguire il ritmo della scena, è padrone del tempo e dei ritmi. La direzione è attenta ai cantanti, non è segnata da una serietà o pesantezza affettata, ma segue la trama in modo piuttosto flessibile, con momenti drammatici molto marcati (autodafé, colloquio con il Grande Inquisitore per esempio), pur lasciando sviluppare il lirismo (primo duetto Carlo-Posa). Detto questo, a volte vorremmo che questa sublime musica brillasse sotto altre luci. L'esecuzione molto onesta rimane molto (troppo?) saggia, e forse meno approfondita, meno scavata, senza far emergere sempre tutte le sottigliezze del testo musicale. Nel complesso la "Toscanini", che è anche l'orchestra principale del festival Verdi di Parma, sistemata nella "platea" del teatro, mantenendo le distanze dovute ai desideri del Sig.Covid19, tiene un livello corretto, non senza qualche scoria e imprecisione negli attacchi, soprattutto all'inizio della registrazione dove tutti sembrano un po' tesi.
Al di là della performance molto degna del Coro Lirico di Modena, diretto da Stefano Colò, la serata è servita da una compagnia di bel livello, tra le voci più notevoli della penisola, e che rende onore ai dedicatari della serata Nicolai Ghiaurov e Mirella Freni, rispettivamente il Filippo II e l'Elisabetta della loro generazione.
Tutto il cast ha questa salutare omogeneità dove grandi e piccoli ruoli sono difesi con onore, nonostante qua e là qualche ombra che è ben lontana dall'oscurare l'insieme.
Il giovane basso toscano Andrea Gramigni (un frate) ha un bel colore, la voce proietta bene senza essere di una profondità sepolcrale, ma tutte le frasi di apertura e chiusura sono ben lanciate, solide, senza sbavature… Da seguire nel futuro. Corretto anche il Lerma di Andrea Galli, con bel timbro.
Ma è senza dubbio la giovane Michela Antenucci che seduce con la forza della sua presenza vocale nella parte di Tebaldo, dove si afferma con ardore, ma anche con grande precisione in un momento ingrato dove il paggio è spesso cancellato dalla personalità di Eboli. Qui accompagna la Eboli di Judit Kutasi con grande efficacia. Anche lei sarà da seguire con attenzione.
Judit Kutasi è uno dei mezzosoprani più richiesti (è la futura Erda di Rheingold sia a Berlino nella nuova produzione di Herheim che a Monaco nella più vecchia produzione di Kriegenburg), canta in Italia, a Verona in particolare, perché la sua voce è grande, con un ampio spettro necessario per gli acuti di Eboli. Però In Eboli in questa serata ci mette un po' ad ambientarsi nella parte. Inizialmente nella “canzone saracena”, la voce non sembra avere la duttilità desiderata con suoni un po' fissi o trilli poco modulati, fa però molto meglio nel da capo. Ottimo il suo duetto con Carlo nel secondo atto e soprattutto molto bello il suo Don Fatale, energico e allo stesso tempo disperato, con un vero sforzo nell’interpretare le parole con precisione ed emozione, in un pezzo dove ci si aspetta tutte le Eboli del mondo.
Il Posa di Luca Salsi beneficia della sua voce impressionante e della sua facilità, vibra di emozione, cerca di interpretare, soprattutto nella sua scena con Filippo II che conclude il primo atto dove afferma veramente una bella personalità : il modo in cui lancia "la pace dei sepolcri ! "è un vero momento di teatro. Ma la voce (enorme, sana) ha il difetto delle sue qualità : non sempre riesce ad essere controllata, soprattutto nel modo in cui viene "lanciata" o proiettata. Nella scena della prigione (seconda parte del terzo atto) interpreta meno il personaggio in una parte dove il fraseggio, la delicatezza del discorso, le sfumature infinitesimali fanno il grande Posa più che il volume o l'energia. Commuove meno di altri, pur uscendone con onore, ma senza quel tocco sublime che dimostrano altri grandi baritoni del passato o del presente.
Il Grande Inquisitore di Ramaz Chikviladze, particolarmente impressionante, ha la potenza e l'autorità necessarie, di fronte al più sottile Michele Pertusi. L’opposizione delle due voci è molto interessante, quasi didascalica, perché non è più il combattimento (circense) di due bassi, come spesso si sente o ci si aspetta, ma al contrario la dialettica di due personalità diverse, due tipi di autorità portate da due voci, e qui la differenza delle voci illumina anche il significato del libretto ; è veramente uno dei grandi momenti della serata.
Michele Pertusi è Filippo II. È diventato il Filippo II o Philippe II (a Lione!) di riferimento oggi, non tanto per la potenza della sua voce – ci sono stati e ci sono ancora Filippo II che sono molto più impressionanti, ma per il modo di cantare, per l'arte del fraseggio eccezionale, per l'arte del colore e il modo in cui sposa e cesella ogni parola. Ella giammai m'amò è una meraviglia di canto interiorizzato, di meditazione tragica. La sua cultura belcantista spicca qui in quest'arte del “bel cantare”, senza mai esagerare, senza mai spingere acuti o gravi senza intenzione. Alcuni cavilleranno su questa voce, ma lui costruisce un personaggio torturato, isolato, amaro con questa voce lacerante. Questo è uno dei Filippo II psicologici dove l'arte dell'interprete (ah, quest'ultima nota del suo monologo dell’atto terzo) conta più della potenza vocale o dei decibel. Una vera performance.
Andrea Carè è Don Carlo, in un ruolo in cui l'illustre dedicatario del teatro, Luciano Pavarotti, si schiantò un 7 dicembre (1992) alla Scala in una serata particolarmente tempestosa e infelice che i muri del teatro e gli spettatori di allora ricordano ancora. Il suo giovane e lontano successore senza schiantarsi non è riuscito ad assumere pienamente la parte.
Don Carlo è un ruolo particolarmente difficile, lirico-eroico, in cui pochi cantanti riescono a convincere totalmente, oggi Kaufmann forse, un tempo Domingo naturalmente, e Carreras che era meraviglioso, con la sua voce chiara e il suo slancio. Pur non essendo disdicevole, (tutt'altro!) è forse un po' presto abbracciare la parte per il giovane Andrea Carè, con il suo timbro luminoso (che ricorda un po' il compianto Veriano Luchetti) e il suo canto così controllato da avvicinarsi a questo ruolo allo stesso tempo lirico e agitato dove lo sentiamo un po' prigioniero. È molto rigido e molto teso, non può mostrare, se non in alcuni momenti, le sue eminenti qualità. È particolarmente in difficoltà durante la scena dell'autodafé e nel finale del III. Sarebbe stato probabilmente avventato dargli questo ruolo in una versione teatrale. È un po' costretto, soprattutto di fronte all'esperto Salsi in Posa. Gli acuti escono, ma sempre al limite e il volume vocale non sempre soddisfa i requisiti. Tuttavia, si sente una personalità accattivante e una voce eminentemente interessante. Questo cantante è senza dubbio più adatto a ruoli meno pesanti nell'incarnazione, dovrebbe annidarsi in Verdi più lirico e nell'oceano tenorile del bel canto, per dare alla sua voce un appoggio migliore.
Infine Anna Pirozzi si avvicina per la prima volta a Elisabetta. L'abbiamo sentita recentemente in una magnifica Aida a Napoli (vedi il nostro articolo) e siamo più abituati ai suoi ruoli di coloratura drammatica (Odabella, Abigail). Ora ha la maturità per Elisabetta, un ruolo lirico-spinto che una Freni, lirica pura, ha affrontato per la prima volta sostenuta da Karajan, che sapeva più di ogni direttore come accompagnare la sua voce, ma anche con quell'altro mago che era Claudio Abbado. Pirozzi più drammatica ha domato la sua voce che ha acquisito rotondità e molta sottigliezza per avvicinarsi al ruolo. Tu che le vanità è veramente un pezzo notevole. Sa trattare le scene drammatiche con Filippo II come con Eboli, ma anche i momenti lirici con Don Carlo dove sa controllare il volume e variare il colore, l'espressione, e mostra una vera intelligenza del testo. Inoltre, la sua nota finale alla conclusione dell'opera è stupefacente. Anna Pïrozzi, avvicinandosi a Elisabetta, combatte ormai nella piccolissima cerchia delle grandi verdiane internazionali. Si può salutare questo ingresso ricco di successo.
Nel complesso, un'esecuzione concertante che dà una misura del canto verdiano oggi in Italia : dopo lunghi anni di penuria vocale per Verdi (a differenza di Rossini, grazie soprattutto all'insostituibile lavoro di Pesaro), sembra che oggi si possano distribuire le grandi opere verdiane di riferimento con dignità. Per quanto riguarda i direttori d'orchestra, l'Italia non ne manca, di tutte le età, è un carattere di questo momento privilegiato dove stanno esplodendo grandissimi nomi, presenti e futuri. Jordi Bernàcer è spagnolo, ma dirige molto repertorio italiano, in un modo che non è proprio "di routine", ma senza l'inventiva o l'originalità necessaria per titoli così grandi che richiedono l'emergere costante di tutte le sottigliezze e lo spessore della partitura. Il suo onesto lavoro non sveglia l'Orchestra Toscanini dall'ordinario, malgrado la sua riputazione in questo repertorio, e questo è forse ciò che pesa di più qui. Ma indiscutibilmente la performance che è online, merita di essere guardata, perché è anche una lezione di canto.