La produzione inaugurale
Per capire meglio il senso di questa recensione, credo valga la pena di ricordare che cosa ne è stato della produzione inaugurale del Teatro alla Scala. Non ha nulla in comune con quella dell'Opera di Roma o del San Carlo di Napoli, non in termini di qualità ma di impatto mediatico. Gli altri due teatri, insieme alla Scala i più importanti d'Italia, hanno inaugurazioni ad uso interno, “italiano”. L'inaugurazione della Scala è sulla bocca di tutti, un evento che è diventato il simbolo mediatico internazionale del genere lirico, al pari del concerto di Capodanno di Vienna, emblema del genere sinfonico.
L'inaugurazione della Scala è sempre stata una grande occasione sociale, oggetto di manifestazioni ostili da parte dell'estrema sinistra all'epoca del '68, e da quando si svolge il 7 dicembre (prima era il 26 dicembre) si è fusa con la festa della città, Sant'Ambrogio, la festa del patrono, seguita l'8 dicembre dalla festa dell'Immacolata Concezione. È quindi un succedersi settimana di festa locale, e non dobbiamo mai dimenticare che la Scala, prima di essere un fanale internazionale, è uno degli emblemi della città di Milano, il suo teatro con le stesse caratteristiche di un teatro cittadino “comunale”, un luogo di incontro, con i suoi riti, i suoi personaggi singolari di cui scrivono i giornali locali, la Scala appartiene prima di tutto ai milanesi, anche a quelli che non ci sono mai stati. “Il suo pubblico”, diceva Stéphane Lissner,” proviene principalmente da un raggio di 2 o 3 km”. La Scala ha un'atmosfera da “Teatro locale” vecchio stile, dove si incontrano le persone e dove ci si sente a casa, sia nel parterre (la Platea) che nelle gallerie (soprattutto il famoso “Loggione”).
La RAI trasmette regolarmente la Prima fin dagli anni Settanta, ma questa trasmissione è ormai diventata una questione che va ben oltre l'evento stesso.
E così lo schema si ripete ogni anno :
- La stampa locale inizia a distillare notizie sui preparativi dello spettacolo dal 15 al 20 novembre.
- Con l'avvicinarsi del 7 dicembre, le notizie si susseguono fitte e veloci, gli aneddoti abbondano e le indiscrezioni vengono abilmente distillate per far credere che questo sarà lo spettacolo dell'anno, o addirittura del secolo, con il miglior cast di sempre (Anna Netrebko è abbonata da alcuni anni). Chi ha visto una prova, chi ha assistito alla prima “under 30” per i giovani quando lui/lei ha il doppio dell'età, chi ha visto una prova, tutti lasciano le loro impressioni per alimentare l'eccitazione generale.
- Il 7 e l'8 dicembre non è il momento delle critiche, ma della “cronaca”: chi c'era, gli abiti scintillanti, i VIP, le cene chic, e soprattutto, essenziali, le opinioni autorizzate(?) delle celebrità, per non parlare degli orribili loggionisti (i selvaggi della seconda galleria) che hanno osato fischiare la meraviglia delle meraviglie. Poi arrivarono le recensioni, in cui le testate redattori cercano di far credere che si è trattato del più grande spettacolo del mondo, o per lo meno di un assoluto successo.
- Qualche giorno dopo il vento si calma, l'intera faccenda è dimenticata… si può finalmente tornare a parlare di musica…
Si potrebbe obiettare che mettere una prima d'opera al centro delle cronache è un'eccezione “culturale” di questi tempi che dovrebbe farci piacere… è difficile immaginare Le Figaro o Le Monde in Francia (che dedicano sezioni così ridotte alla lirica) dedicare colonne e colonne ai vapori di Anna Netrebko o ai segreti delle prove di uno spettacolo al Palais Garnier o alla Bastille. Non è improbabile, è impossibile, se non come pesce d’Aprile.
Possiamo anche applaudire l'atmosfera festosa che regna intorno al 7 dicembre tra gli appassionati d'opera ; è quasi unico in Europa che una rappresentazione sia accompagnata da una tale promessa di feste tra amici e questo è un bene.
La posta in gioco in questo clamore è chiara, ed è essenzialmente economica :
L'inaugurazione porta soldi alla Scala in termini di vendita di biglietti (i prezzi sono folli), pubblicità e diritti televisivi, e di questi tempi è tutt'altro che insignificante.
Ma la forza inerziale dell'inaugurazione è proseguita dall'afflusso di spettatori per tutto il mese di dicembre, perché da una parte tutto questo fracasso attira curiosità e poi la città di Milano pullula di turisti in questo periodo di festività, e questo facilita il riempimento della sala (di solito il cast A viene presentato prima di Natale, e il cast B subentra tra Natale e i primi di gennaio).
Il rovescio della medaglia è che l'onnipotenza del mercato impone ormai non solo un cast brillante, perché quello c'è sempre, ma soprattutto uno spettacolo “consensuale”, che non susciti fischi, che sia “leggibile” da tutti (TV…) e che sia fotogenico, con il coro ben posizionato sul palco per la foto, e una scenografia monumentale e ricca per suscitare applausi, dettando così una produzione scorrevole, anche un po' noiosa. Il Don Carlo del 7 dicembre 2023, ad esempio, è stato micidiale, il che è un male per il pubblico televisivo, che era scarso ; la Tosca dorata e ridicola di Davide Livermore, invece, ha battuto ogni record.
Un'altra legge non scritta è che il repertorio è essenzialmente italiano, anche se Boris Godunov ha rotto l'abitudine nel 2022, ma Boris Godunov significa cori e masse, quindi va perdonato… Così si è pensato al Parsifal da inaugurare tra qualche anno, ma si è rinunciato… (chi ? Fortunato Ortombina, il nuovo sovrintendente con la sua ben nota mancanza di idee)?
Parsifal, è lungo, è in tedesco, non è molto televisivo e non si sposa con la festa e il risotto al tartufo che seguiranno… Parsifal ha già aperto la stagione con Muti nel 1991 (con Domingo e W.Meier però) e le autorità mediatiche e i VIP non l'hanno presa bene, intimando : questa non è un'opera da inaugurazione…
Per quanto riguarda l'allestimento, ricordiamo ancora la Traviata inaugurale di Tcherniakov, che (insieme a Beczala, che promise di non mettere mai più piede in questo teatro) suscitò le derisioni e buh di un pubblico refrattario a ogni innovazione e spesso ignorante.
Ricordo inoltre il trauma provocato dal Don Carlo del 1992, quando furono fischiati tutti, Pavarotti, Dessi, Zeffirelli e persino Muti. In mondovisione è un disastro.
Meglio una recita tranquilla…
Al di là dell'effetto “mediatico”, la Scala sta vivendo un rinnovamento del suo pubblico, una sorprendente internazionalizzazione del turismo, una società di selfies, di “bisogna andarci almeno una volta”, ecc… Quindi, da un lato, un buon Verdi eseguito correttamente soddisfa un pubblico che non va necessariamente all'opera molto spesso, e dall'altro, una produzione ben fotografata dà l'illusione che ci sia una vera “regia”, e non provoca eruzioni cutanee a un pubblico impreparato.
Un ultimo elemento storico da tenere presente, non indifferente : la Scala, ricostruita a tempo di record dopo essere stata distrutta dai bombardamenti (americani), fu riaperta nel 1946 con un leggendario concerto di Toscanini, che tornava in Italia dopo averla lasciata nel 1930. La Scala diventa così il simbolo della ricostruzione, della rinascita del Paese nel dopoguerra, della nuova Italia. E così tutto questo substrato invade lo spettatore che entra in questo leggendario teatro : la Scala è italianità,
Un'italianità a metà strada tra la verità e la fantasia, ma che tiene in moto la macchina dei sogni.
La Forza del destino e le sue complessità
Queste sono le leggi del genere, e l'allestimento de La forza del destino risponde punto per punto alla legge del mercato, che tende a disneyzzare questo teatro che, nonostante tutto, amiamo tanto. La produzione inaugurale della Scala è un prodotto di lusso, una vetrina, e quindi oltre alla perfezione tecnica che si addice a questo tipo di prodotto, e che caratterizza tutte le produzioni di questo teatro, ha bisogno degli immancabili grandi nomi, perché tutto ciò che luccica deve essere Oro : Jonas Kaufmann doveva apparire accanto ad Anna Netrebko e Ludovic Tézier… ma le ultime esibizioni del tenore hanno fatto capire che, dato lo stato attuale della sua voce, non sarebbe stato in grado di cantare Alvaro… Così ha disdetto ancor prima di iniziare le prove.
Dobbiamo quindi tornare alla realtà musicale, con qualche osservazione :
- C'è una crisi del canto verdiano oggi, così come c'è stata una crisi del canto wagneriano alla fine della generazione dei grandi quali Nilsson, Rysanek, Hotter e altri, dalla fine degli anni Settanta alla fine degli anni Novanta… Oggi non c'è un solo soprano veramente verdiano (forse la Sondra Radvanovsky fa eccezione) sul mercato, per non parlare dei tenori, merce rara, e forse di qualche mezzosoprano, e gli unici che sopravvivono in questo desolato paesaggio sono baritoni e bassi…
- A questa crisi del canto si aggiunge una crisi dello stile : Verdi viene interpretato con accenti veristi, con una preminenza del canto e dell'orchestra voluminosi, senza le raffinatezze insite in questa musica la cui profondità e complessità sembrano essere state dimenticate. Quello che sta accadendo oggi a Verdi è lo stesso che accadde a Puccini una quarantina di anni fa : per il pubblico, per molti critici e per alcuni manager (Mortier…), la complessità di questa musica non è stata percepita perché la tradizione esecutiva aveva creato incrostazioni e cattive abitudini. È così anche per Verdi oggi : errori di tempo, errori di equilibrio, tradizioni stabilite dal palcoscenico e dai capricci dei cantanti hanno appiattito la musica, rendendo certi momenti fin troppo facili, e di fatto opacizzando l'estrema teatralità della musica verdiana. Come Wagner, Verdi era molto attento alle parole, al peso del libretto, e spesso lavorava per cesellare le parole in modo che musica e parole si fondessero in un'unità che oggi è difficile da trovare. In effetti, il fatto che alcune delle grandi opere verdiane facciano parte del repertorio teatrale, riproposte all'infinito da una varietà di direttori mediocri, fa un grande torto a questa musica potente, profonda, precisa, attenta a ogni respiro del dramma, che troppo spesso si riduce a Zim bum bum.
- Il gusto del pubblico sembra orientarsi più verso i decibel che verso le raffinatezze, che senza dubbio sono troppo faticose da individuare : Verdi deve fare rumore, fare effetto, da qui quello che ho sempre denunciato, la lenta deriva verso interpretazioni “veriste”. Per me questa è un'orientazione completamente sbagliata. C'è certamente un'emozione immediata, palpabile, nell'opera di Verdi, ma ci sono anche continue domande : perché, ad esempio, Il Trovatore è una catena ininterrotta di arie e di ensemble che non si ferma mai, affascinando il pubblico e lasciando in ombra la spinosa questione drammatica ? E perché, al contrario, La forza del Destino è un'opera diseguale, che alterna scene sublimi ad altre più volgari. Ho citato nell'introduzione “Urna fatale del mio destino” e “Rataplan” come due estremi, ma Verdi li colloca volutamente uno dopo l'altro… Ci sarà un motivo.
E leggiamo con più stupore ancora il primo finale (1862) dove Alvaro si getta da una roccia :
- Guardiano. Padre Raffaele…
– Alvaro. (dall'alto della rupe 🙂 Imbecille, cerca il Padre
Raffaele… Un inviato dell'inferno
Son io…
– Melitone L'ho sempre detto…
– Alvaro. Apriti, o terra, M'ingoia l'inferno ! precipita il cielo !
Pera la razza umana…
(sale più in alto e si precipita in un burrone sottoposto)
Alvaro, divenuto religioso, sfida le leggi della religione e si suicida, rompendo con Dio. Verdi lo modificò nel 1869, rendendo questo finale opposto, una sorta di ricongiungimento in Dio dove Padre Guardiano “recupera” Alvaro in Dio…
Guerra, amore e religione si intrecciano in modo inestricabile, ed è per questo che al trio di protagonisti vanno aggiunti Padre Guardiano, che spesso è interpretato da un basso di grand rilievo internazionale, e Fra Melitone, l'altra figura religiosa più popolare… e questi ultimi due non sono affatto personaggi casuali o secondari.
Quanto a Preziosilla, è un personaggio che ha fatto molta strada, un profilo indispensabile nelle scene di guerra : la “vivandière”, personaggio che ritroviamo ne “La Chartreuse de Parme” di Stendhal (1839) nella famosa scena della battaglia di Waterloo (una battaglia vista dal basso, a livello di popolo) una donna al tempo stesso brutale e benevola, protettiva e materna ; è anche il ruolo di Marie ne “La fille du régiment”, da cui Verdi ha tratto il celebre Rataplan ! accompagnato da canti di gioia per la guerra (esattamente come in Donizetti). In quest'opera c'è un desiderio di affresco umano, una sorta di tavolozza di umanità, che va dal mondo chiuso dell'aristocrazia a quello delle guerre che hanno attraversato l'Europa (quasi) ininterrottamente dal 1750 al 1815, passando per la religione e la religiosità, e il suo ruolo sociale di balsamo per i poveri e gli indigenti. In un certo senso, La forza del destino è molto più un quadro di umanità, da cui emergono personaggi singolari, Guardiano, Melitone, Preziosilla, ma anche Trabuco, un'altra figura pittoresca che vive dell'economia di guerra vendendo le sue cianfrusaglie, un personaggio di venditore ambulante che Puccini, in tutt'altro contesto, ricorderà ne La Bohème per il suo Parpignol (anche lui tenore)…
In realtà, Verdi dipingeva per la prima volta la brulicante e variegata umanità del popolino, diviso tra guerra e religione, e giocava costantemente sui contrasti, come nel quarto atto con la prima scena con Melitone, che inveisce contro Padre Raffaello mentre distribuisce la minestra ai poveri, e il tragico finale. Verdi è un drammaturgo troppo bravo per sbagliare, per fare errori di gusto : i due eroi maschili che si sono rincorsi fin dal primo atto “cadono” nella gente comune, attraversano le loro miserie, con uno di loro, Carlo, accecato dalla morale aristocratica che non è in grado di dimenticare, anche quando l'amicizia umana gli permetterebbe di perdonare, e l'altro, Alvaro, un personaggio unico perché di razza mista, anch'egli aristocratico, ma emarginato, che diventa suo malgrado un reietto e da un episodio all'altro cerca di espiare nella vita militare, poi monastica, non nell'isolamento ma nella carità, mentre Leonora espia anche nella religione ma da eremita, che è l'altra soluzione. Leonora appare nel primo e nel secondo atto, e alla fine del quarto, fuori dal mondo, la sacrificata, la reietta, ancora una volta emblema della sconfitta delle donne.
Gli uomini, invece, attraversano il mondo e le sue vicissitudini, mentre la donna si astrae dal mondo e si offre in sacrificio. È questo mondo del popolo la grande originalità dell'opera, un mondo che fino ad allora non era mai stato descritto nell'opera lirica, se non marginalmente nelle commedie (non dimentichiamo mai il ruolo dei Meistersinger nell'opera di Wagner del 1868, nello spazio tra il 1862 e il 1869 che separa le due versioni dell'opera verdiana).
E se prendiamo La forza del destino come una sorta di proposta parabolica, un'esposizione dell'umanità in tutta la sua diversità, troviamo la coerenza di una visione del mondo in cui si scontrano la morale aristocratica e quella religiosa, la fede semplice, il ruolo sociale della chiesa, umanità in preda alle guerre in atto (le scene di guerra autentiche sono rare nell'opera … bisogna aspettare Guerra e Pace di Prokofiev…) e le vittime delle guerre, le conseguenze, e poi, in mezzo a questo vortice, i singoli personaggi che attraversano tutto questo, fuggendo gli uni dagli altri. In tale contesto, il tempo e lo spazio sono quindi irrilevanti : non ha senso mettere in discussione la pertinenza o la coerenza di questi inseguimenti e ricongiungimenti, perché l'essenziale è altrove. Verdi costruisce una parabola quasi astratta dell'individuo e della società, dove l'individuo è prigioniero del suo destino o dei suoi destini, ma nel mare dell’umanità sofferente : insomma una sofferenza tra le altre. Tutte queste scene molto concrete – taverna, convento, guerra, ecc. – sono in realtà astrazioni che hanno senso in una parabola in cui luogo e tempo hanno poca importanza : ciò che interessa a Verdi è l'idea finale di una sorta di unione in Dio, un Dio riconciliatore, al di là del Bene e del Male, al di là della Vita e della Morte. Un futuro in cui si spera, nella certezza della fede o l’incertezza del dubbio
Leonora, sacrificata diventa martire in questo caso, e viene immolata in nome di una vendetta che non ha più senso da un moribondo accecato che non si arrende fino alla morte : la morale aristocratica fino all'ossessione che nega i legami di sangue e tutti legami umani, e Alvaro viene reclamato dalla religione, in nome di una trascendenza che trascende tutti gli eventi e chiude l'opera…
È facile capire perché Verdi rifiuti il suo primo finale suicida, che fa di Alvaro la terza vittima, insultando la religione (“imbecille!”) e gettandosi nel vuoto. Ci sarebbe stato solo un dramma sanguinoso. Con il ritorno di Alvaro al seno della religione, a Dio, si chiude la sua parabola (che ci creda o meno, d'altronde aveva bisogno di un finale coerente con l'idea di umanità da salvare…): il destino di Alvaro sarà quello di vivere, che è peggio della morte forse, ma che significa anche essere nel Mondo e del Mondo, e lì il futuro è aperto…
La religione qui è più “funzionale”, offre una soluzione agli individui, come istituzione di uomini per gli uomini : salva Leonora dal vagabondaggio, protegge e accoglie gli indigenti, accoglie anche Alvaro, che diventa una specie di santo per le persone che aiuta, e alla fine gli salva la vita. Verdi, agnostico, non insiste troppo su Dio ; fa della religione l'unica forza sociale al servizio dell'umanità sofferente, anticipando di quasi tre decenni le idee della dottrina sociale della Chiesa, nate con l'enciclica rerum novarum di Leone XIII (1891).
Quest'opera innominabile e piena di tante incongruenze la dice più lunga del previsto, in modo più lungimirante, anche più politico perché si salva il più singolare di razza mista, ma anche il più umano. Viva Verdi, che ha cercato di tradurre musicalmente questi sbalzi d'umore e i cosiddetti contrasti. Ma se, invece di concentrarci sugli individui, ci concentriamo sulle scene corali, troviamo un filo rosso di umanità, un filo rosso attraversato dalla linea di fuoco dei destini individuali : è il mondo nel suo complesso che viene messo in discussione qui, il mondo di quelli che sono sotto, come dicono coloro che credono di essere sopra…
Che io sappia, Frank Castorf è l'unico grande regista contemporaneo ad aver affrontato La forza del destino nel 2019. Ha preso sul serio il libretto di Piave e Ghislanzoni nella sua visione di un mondo dilaniato dalla violenza, dove il Bene e il Male si mescolano, dove il Bene può anche generare il Male (allusioni a “La Pelle” di Curzio Malaparte), affondando un ferro rovente nel detto e nel non detto di questa storia, compreso Alvaro con la sua doppia identità, compreso il Marchese di Calatrava con la sua morale franchista o fascista, compresi i popoli che pagano caro le guerre (V. Malaparte)…
Aveva trasformato l'opera in un'esposizione scomposta e tragica del mondo e della sua permanenza, nel suo disordine, nel suo estremismo, in cui i piccoli e i diversi vengono schiacciati. Ma una messa in scena del genere avrebbe fatto arrabbiare il pubblico ben pensante della Scala.
La produzione scaligera
Leo Muscato ha avuto indubbiamente delle intuizioni nel tentativo di abolire il tempo e lo spazio, con una scenografia (di Federica Parolini) e dei costumi che si evolvono con i tempi (di Silvia Aymonino) su un piano girevole (particolarmente rumoroso questa sera, che avrebbe bisogno di un po' di grasso per ingranaggi): la prima scena inizia nel Settecento (e in estate) e le ultime scene nel Novecento (e in inverno), in una campagna desolata e devastata da guerre che lasciano campi di rovine.
Il piano gira, simboleggiando la ruota del destino che va, e i personaggi si muovono in questi ambienti diversi ma anche un pò simili, facilitando la fluidità dei cambiamenti di scene e di ambientazione, con una marcata presenza del popolo, il coro disposto a gradinate davanti, in modo che possa essere visto dal direttore d'orchestra, una presenza permanente e fissa di cui non fa nulla. Non c'è nulla dell'urgenza che attraversa l'opera. « Rataplan » è trattato come un coro da operetta, senza un briciolo di distanza o di ironia, una parola che Muscato deve ignorare.
Le intuizioni che un vero e grande regista avrebbe potuto sfruttare, Leo Muscato non le sfrutta affatto, innanzitutto per una totale mancanza di lavoro sulle folle, compatte, con momenti ridicoli (quei soldati che entrano ed escono come nei peggiori dei teatri del passato), tranne il momento di guerra del terzo atto, vagamente coreografato (coreografia di Michela Lucenti, che ha coreografato anche il ridicolo secondo atto in un'osteria) con fumo e baionette.
Se non c'è movimento di folla, i movimenti dei solisti sono lasciati all'iniziativa dei cantanti, come tutta la recitazione, con alcune assurdità (Curra nel primo atto che trasporta il bagaglio di Leonora da destra a sinistra poi da sinistra a destra mentre la situazione tra i protagonisti è tesa, il terzo atto in cui Carlo e Alvaro dopo il loro duetto scappano senza che si sappia bene come e perché stiano correndo, Carlo nella scena finale sullo sfondo, quasi invisibile, tanto che è difficile vedere l'omicidio di Leonora, ecc.) ), è la debolezza delle soluzioni sceniche e dei dettagli, l'assoluta concessione alle visioni più tradizionali e superate a rendere questo spettacolo polveroso, la cui polvere annega le poche intuizioni.
L'opera si produce non per il dramma o per il teatro, ma per la fotografia finale di ogni atto, che dia al pubblico venuto per questo l'impressione di essere stato ripagato. In questo senso, Muscato ha rispettato il suo contratto : non scioccare nessuno, andare nel senso giusto del conformismo e lasciare tutti soddisfatti, appagati, e poi dimenticandosene. Una pura operazione di facciata, senza alcun interesse scenico o teatrale.
Le voci
Quando il regista è assente dal trattamento delle figure e dei personaggi, spetta ai cantanti farsi carico dell'incarnazione, con risultati ovviamente diversi. Il canto verdiano funziona solo se è incarnato, se parole, colori, musica e movimento lavorano insieme per produrre l'effetto desiderato. E questo è ancora più impegnativo ne La force du destin, con i suoi sei personaggi principali, tre dei quali sono protagonisti. Perché la musica di Verdi è teatro in se. .
Dobbiamo rendere giustizia alla Scala, la cui prima e giustificata esigenza è quella di offrire il 7 dicembre una produzione formalmente e tecnicamente impeccabile, con forze particolarmente preparate e ineccepibili. È sempre così, e stasera ne abbiamo la prova.
Tra i solisti, i ruoli “minori” sono interpretati alla perfezione da Marcela Rahal (Curra), Huanhong Li (Un alcade) e Xhieldo Hyseni (Un chirurgo), membro dell'Accademia. Non includo Mastro Trabuco nei “piccoli” ruoli, perché è una figura dell'opera, una singolarità meravigliosamente incarnata e interpretata (e con quale poesia) dall'inimitabile Carlo Bosi. Ho citato Parpignol in riferimento all'opera italiana, ma il contrasto di questa voce tenorile poetica e “assente”, che si confronta con il coro di un popolo, si ritrova anche nell'altra opera popolare, rappresentata per la prima volta lo stesso anno (1869) nella sua versione originale, il Boris Godunov di Mussorgsky. Julian Budden, uno dei maggiori specialisti di Verdi, suggerisce un debito di Mussorsgsly verso Verdi nel ruolo dell'innocente, anche se non nello stesso contesto o nello stesso tipo di personaggio, ma nello stesso tipo di contrasto di una voce tenorile singolare che emerge da un gruppo, e Budden evoca anche la parentela di Melitone e Varlaam. Non ci sono prove che indichino che Mussorgsky o qualsiasi membro del gruppo dei cinque abbia assistito a rappresentazioni de La Forza del destino, ma gli echi esistono, come una sorta di infra-testo.
Fra Melitone è Carlo Filippo Romano, meno “buffo” che in altre visioni, ma altrettanto espressivo e presente, con un'emissione chiara, una voce ben proiettata e un timbro soave che rende il personaggio meno caricaturale e comunque forte. Carlo Filippo Romano è oggi una voce ricercata nel circuito internazionale e uno dei baritoni in ascesa. Il suo Melitone è originale nel profilo e impeccabile nello stile.
Alexander Vinogradov, invece, è un basso di tutto rispetto in Padre Guardiano, con un'emissione sana e chiara e una proiezione facile, ma senza la potenza e la profondità necessarie per un ruolo in cui abbiamo sentito i più grandi bassi della storia recente. La voce rimane inespressiva, priva di vibrazione o di presenza teatrale, come un personaggio secondario, un po’ indietro, e nel complesso piuttosto pallido, cosa che Padre Guardiano non è. Come ho già detto, i protagonisti de La forza del destino non sono tre ma almeno sei e Vinogradov non soddisfa le esigenze del ruolo, che sono ben più ardue di una semplice presenza vocale pulita ma senza effetto.
Diverso è il caso di Vasilisa Berzhanskaya, che è molto presente sul palco e “riempie” la scena ; è il personaggio giusto.
Se fosse la voce del personaggio sarebbe ovviamente la perfezione, ma la strada è ancora lunga e la voce non ha l'ampiezza e la profondità necessarie per sostenere il peso del ruolo, che vocalmente deve superare di gran lunga il volume dell'orchestra (anche se Chailly si sforza). La voce della Berzhanskaya è più adatta ad uno stile più lirico…lo si verificherà nella la parte del mezzo della Petite Messe solennelle eseguita due giorni dopo in modo molto più adatto alla sua voce. La Berzhanskaya non è un mezzo eroico per un ruolo in cui bisogna imporsi vocalmente in modo definitivo.
Questa specialista di ruoli rossiniani o belcantistici non ha alcun interesse ad affrontare un repertorio in cui ci sono solo colpi da prendere. Preziosilla è un ruolo che deve imporsi innanzitutto vocalmente, ed è per questo che, con la scusa di un ruolo secondario, l'hanno affrontato a suo tempo leggende come Ebe Stignani, Giulietta Simionato, Fiorenza Cossotto (torrenziale) e Shirley Verrett. Questo ruolo richiede una Eboli o niente. E la Berzhanskaya, che per il resto apprezziamo molto, sbaglia.
Jonas Kaufmann avrebbe dovuto essere Alvaro, per ricreare il duo che è diventato il punto di riferimento della produzione di Monaco di Baviera del 2014 (vedi il nostro articolo) accanto a un'incandescente Anja Harteros. Ma Jonas Kaufmann non ha più lo scintillio, il volume e la duttilità necessari per Alvaro e ha dovuto rinunciare ancor prima dell'inizio delle prove. Verdi non perdona. Il giovane Luciano Ganci e Brian Jagde si sono alternati nel ruolo.
Brian Jagde è stato incaricato della Première e del cast A, tornando in scena questa sera dopo un'indisposizione che ha portato a un annuncio al pubblico.
Brian Jagde è un tenore dagli acuti smaglianti, una voce solida, ben impostata e proiettata, con un timbro luminoso. Ha il volume e le note, ma non è la voce giusta nel ruolo giusto, senza alcuna interiorità o momento di poesia. Canta tutto allo stesso modo, dall'Alvaro brioso dell'inizio all'Alvaro sofferente della fine. Ha strappato gli applausi di un pubblico che indubbiamente ama i decibel, e l'interpretazione è stata ovviamente onorevole, ma questo canto, che si avvicina a Turiddu, ruolo in cui eccelle, non è abitato da Verdi…
L'unico che era nello stile, nel ruolo, nel personaggio, nel testo, è stato Ludovic Tézier, che ha dato la prestazione più intensa e incarnata di tutto il cast. Ha tutto. Il fraseggio, gli accenti, l'intensità, la vivacità e la presenza scenica, quella vera, quella che si ottiene cantando davvero e con i giusti gesti e movimenti. Mi ha sempre ricordato Piero Cappuccilli in Verdi, soprattutto in questo ruolo, che è una sfida definitiva per i baritoni verdiani.
È un'interpretazione stupefacente che schiaccia tutto e lascia pensare a cosa sia il vero canto verdiano quando è totalmente incarnato. Tutti gli altri impallidiscono al confronto. Un monumento.
E poi c'è Anna Netrebko. Assidua frequentatrice della Prima della Scala (Don Carlo, Macbeth, Tosca, Andrea Chénier, Giovanna d'Arco), è diventata una specie di icona, il marchio essenziale del prodotto “Prima”. La sua voce ampia, con acuti voluminosi e talvolta anche strani gravi abissali, fa dimenticare la cantante che ha iniziato con il bel canto e Mozart, e con il Verdi più lirico, come la sua indimenticabile Traviata a Salisburgo, diretta da Willi Decker. Ha affrontato i repertori più pesanti, Turandot e il verismo, e lo si sente nella sua voce, che è ancora impressionante, ma che a volte lascia dubbi sullo stile.
Ci si chiede quindi in che cosa questa Donna Leonora sia cosi imponente sul palcoscenico, c'è qualcosa di monumentale in lei che ci porta a chiederci se sia lei o le nostre proiezioni su di lei. Ma non gestita da un regista che trascura i personaggi, non riesce a commuovere.
La Netrebko mi ha impressionato in Lady Macbeth nella produzione di Kosky a Vienna perché aveva lavorato con Kosky e ne era l'incarnazione. Era più che impressionante, era mitica. In Donna Leonora, la presenza della “Diva” non ci fa dimenticare alcune approssimazioni stilistiche, colori veristici che a volte mi hanno ricordato Santuzza (con Jagde e la sua voce di Turiddu, era coerente), con un uso strano e abusivo del grave, con una mancanza di controllo di questa voce enorme che balla un po' e dove si cercherebbero invano raffinatezze, problemi di intonazione qua e là… E’ stata un’Aida meravigliosa a Salisburgo perché aveva lavorato al pianoforte con Muti : Muti può piacere o meno, ma non si può negare che tenga d'occhio i cantanti e li segua. Con Chailly è diverso.
Quindi l'impressione è strana e un po' schizofrenica. La Netrebko è teatrale nella sua voce, il che è sempre impressionante, ma questo non fa uno stile verdiano. Non attraverso il suo canto, non attraverso una tecnica che si è un po' allentata, lavorando sugli effetti immediati senza approfondire le raffinatezze della partitura. Ci fa dimenticare che la scrittura di Verdi, anche di questo Verdi che si dice abbia lasciato le sue origini belcantistiche, è un Verdi complesso e raffinato. Per convincersene, basta ascoltare una Leyla Gencer su YouTube, ad esempio, per capire che siamo lontani anni luce in termini di appropriatezza, dizione, chiarezza, raffinatezza, interpretazione ed emozione. La Netrebko continua a stupire, e questo è il suo successo di pubblico, ma non commuove, non tocca il cuore. Anche ne La Vergine degli angeli, senza dubbio uno dei momenti più sublimi dell'opera, è il sublime coro della Scala a vincere il premio per l'emozione.
L'unico all'altezza degli alti standard verdiani è senza dubbio Ludovic Tézier…
Le forze locali al servizio di Verdi
Le esigenze verdiane sono soddisfatte dalle forze locali del Teatro alla Scala, a cominciare dal coro, diretto da Alberto Malazzi, sublime dall'inizio alla fine e raramente ascoltato a tali livelli. Negli ultimi anni il coro ha ritrovato una forza e una precisione che non si vedevano da tempo. È vero che negli ultimi anni Dominique Meyer ha effettuato una serie di assunzioni che erano state a lungo trascurate. Il risultato qui è assolutamente sorprendente, diffondendo un'emozione che la maggior parte dei solisti non riesce a trasmettere. Insostituibile e unico in questo repertorio, senza rivali.
Lo stesso vale per l'orchestra, come vedremo anche due giorni dopo in Rossini. In questo repertorio, quando l'orchestra scaligera è impegnata, ha pochi rivali. Qui ogni strumento spicca, preciso, con ottoni senza scorie, archi vivaci e sonori dal suono ricco, fiati sontuosi. In Der Rosenkavalier, galvanizzata da Kirill Petrenko, l’orchestra appariva trasfigurata. Qui è trasfigurata dal Verdi che scorre nel suo DNA, ed è affascinante.
È ancora più affascinante perché Riccardo Chailly suona con una precisione formidabile e un'attenzione al dettaglio che fa invidia a questi livelli. Chailly lavora sul volume e sui contrasti, accentuando il lato un po' schizofrenico dell'opera, con serafici diminuendi accanto a fortissimi, soprattutto negli accordi finali, che suonano sempre violentemente come i terribili colpi del destino che avanza. Questa direzione musicale è un meccanismo di precisione, un mosaico di suoni messi insieme per formare una composizione, un tableau, forse un affresco qua e là.
Ma l’insieme fa teatro ? Non si sente la pelle d’oca del teatro.
Si sente Chailly al capo dell'orchestra, che la guida maniacalmente in ogni dettaglio, ma non si sente la stessa solidarietà con il palcoscenico, dove i cantanti sono seguiti, a volte protetti (Berzhanskaya), ma non galvanizzati da un direttore che li accompagna, ma che non li trascina in questo vortice di musica che è il teatro. Chailly non è teatrale, non coglie la dinamica del cuore, una pulsazione, una vibrazione.
La sinfonia è impostata in modo impeccabile, impeccabilmente precisa e sottilmente equilibrata, e dimostra una grande arte direttoriale, ma in qualche modo si presenta non come un'ouverture drammatica, nel senso di “apertura su un dramma”, su un'azione, ma come un pezzo isolato magnificamente al suo posto e girato su se stesso, come un pezzo da concerto. E per me le grandi sinfonie verdiane dovrebbero aprirsi sul dramma, lasciandoci già senza fiato. Qui, questa ouverture ci lascia ammirati, ma non teatralmente senza fiato. Non si tratta di freddezza, di cui Chailly è spesso accusato, ma di una preoccupazione per la perfezione musicale, per un risultato impeccabile da cui è assente la vibrazione teatrale. E in Verdi sono necessarie entrambe le cose, ed è questo che rende così difficile il pieno successo. Soprattutto, è ciò che spesso ci fa accontentare della bottiglia mezza piena.
In conclusione, uno spettacolo che è una bella vetrina di ciò che è la Scala, un teatro enorme con forze locali fantastiche quando sono preparate e motivate, un teatro più attento all'apparenza e al lustro che alla sostanza degli allestimenti : questa produzione è sontuosamente mediocre sul palcoscenico, fotogenica come deve essere una produzione inaugurale, e musicalmente naturalmente di alto livello senza commuovere ne trascinare veramente, vocalmente abbastanza lontana dai requisiti scaligeri in materia verdiana (con la constatazione della crudele mancanza di voci verdiane oggi), e con un'eccezione, immensa : Ludovic Tézier, il più grande baritono verdiano del nostro tempo.