Due favole pastorali, due serenate ancora tardo-seicentesche per impianto e per natura, nate come musica d’occasione e destinate a esecuzioni private, episodiche, effimere e prive di riprese, esse mettono in scena due degli encomiastici exempla metastasiani, in cui il dedicatario doveva riconoscersi e sentirsi vezzeggiato, adulato e instradato verso il miglior governo. Tutta settecentesca la grazia rococò dei libretti : piani, eleganti, gentili dell’italiano passepartout di Metastasio, autentica lingua franca dell’Europa galante, nonché educazione sentimentale per fanciulle, dottrina di valori illuminati per regnanti in potenza e in atto.

Il teatro La Fenice, nel proporle all’interno della sua Stagione Lirica, compie una scelta coraggiosa che si rivela felice, dal momento che offre a molti l’opportunità di scoprire questi due piccoli capolavori, raramente presenti nei cartelloni benché colmi di meraviglie. Ulteriormente azzeccata è la scelta di affidarli alla direzione musicale di Federico Maria Sardelli che, al netto del suo istrionismo e di una bacchetta talvolta isterica, riesce a creare un amalgama al contempo delicato ed energico, agile e cantabile, molto ben bilanciato nella scelta dei tempi, cui sa dare una varietà non semplice da cavare dalle piccole partiture votate alla medietas, in cui il metronomo non conosce niente al di sopra dell’Allegretto e nulla al di sotto dell’Andantino.

Le voci si rivelano tutto sommato all’altezza, senza infamia né lode. Ne Il sogno di Scipione il tenore (Giuseppe Valentino Buzza) non brilla : a tratti è poco sonoro e più di qualche volatina gli riesce ostica ; l’aria Delira dubbiosa lo vede poi particolarmente scoordinato con l’orchestra, la quale dal canto suo sa creare una varietà sonora davvero interessante dagli impasti timbrici del giovane Mozart. Nemmeno Fortuna (Bernarda Bobro) svolge un lavoro memorabile : nell’ampia aria Lieve sono a par del vento nel primo atto, che scorre su di una splendida parte orchestrale, s’irrigidisce a sua volta nelle agilità, risulta legnosa e riesce addirittura a perdere il fiato. Morbida e di grande eleganza invece Costanza (Francesca Boncompagni), che spicca sul resto del cast anche per intenzione drammatica e convinzione nel proporre il suo ruolo in ogni momento del dramma.

Originali e raffinate la regia e la scenografia – quest’ultima firmata da Francesco Cocco con gli studenti dell’Accademia di belle arti di Venezia – che sceglie di mettere in scena la stessa finzione teatrale. Geniale e bellissimo gesto mettere a nudo le quinte del Teatro Malibran nel finale, in corrispondenza ai versi Ah perché cercar degg’io / Fra gli avanzi dell’oblio / Ciò che in te ne dona il Ciel !

Il Re pastore risente di un impianto scenico più debole e statico, dovuto forse alla maggior estensione della partitura, e di una certa discrasia qualitativa tra le voci : primeggia infatti sul cast Silvia Frigato, l’unica pienamente a suo agio in quel linguaggio memore dell’ultimo barocco veneziano-napoletano, che riesce naturale alla sua voce leggera e piena, dotata di inflessioni difficilmente spiegabili a parole, quasi micro-appoggiature straordinarie per naturalezza ; la spontaneità del suo canto rende motivo di interesse anche quelle che in altri casi passerebbero per imperfezioni della dizione, come le S e le C che tradiscono la sua origine veneta. Al suo cospetto, gli altri interpreti scivolano in secondo piano, con l’eccezione di Roberta Mameli : il suo Aminta regala infatti un’ottima performance. L’amerò, sarò costante – l’aria più nota de Il re pastore, che prevede un celestiale intervento dialogico del violino solista – viene interpretata con grande raffinatezza, riuscendo a creare un pianissimo serico quanto ben sostenuto e mantenendo un’elegantissima e coerente sobrietà nell’ornamentazione. Gli altri membri del cast presentano non di rado alcuni problemi : la dizione difficoltosa di Agenore, la gestualità caricaturale di Elisa e i suoi parodistici squittii, le diffuse legnosità nelle cadenze ornate, la scarsa sonorità e la piattezza attoriale di Alessandro. Musicalmente lo spettacolo può dirsi degnamente riuscito, anche se dal punto di vista visivo si finisce inevitabilmente col chiedersi se ci sia bisogno di ricorrere al ridicolo per suscitare l’interesse verso una partitura poco nota ; in quell’unica, effimera recita nel 1775 forse nemmeno c’era un impianto scenico, né dei costumi : la musica di Mozart parla a chi devotamente vi si accosta e a chi è disposto all’ascolto, e forse non richiede goffi interventi didascalici o esili letture secondarie.
