Fra i registi italiani della sua generazione Daniele Abbado, classe 1958, è uno dei più versatili e più attivi a livello internazionale. Ha lavorato nella prosa e in diverse forme di spettacolo, anche multimediale, prima di dedicarsi in modo quasi esclusivo a quella che è diventata la sua passione prevalente, l’opera lirica, che l’ha fatto approdare con successo nei principali teatri italiani ed europei e gli ha valso nel 2012 il prestigioso International Opera Award per il complesso della sua attività. Un trentennale e felice percorso, lungo il quale le messinscene verdiane appaiono di frequente. Da qui parte la nostra intervista.
Ved.sotto i link verso la stagione d'Opera e la stagione di Balletto del Teatro dell'Opera di Roma
Nella sua attività operistica, Verdi sembra porsi fra i compositori prediletti. E’ così?
Assolutamente sì. Ed è una predilezione cresciuta nel tempo, dal mio primo Nabucco affrontato al Regio di Torino nel 1997, che subito mi fece capire quale straordinario uomo di teatro sia stato questo nostro geniale compositore. Negli ultimi anni, a partire dal Don Carlo che misi in scena nel 2012 all’Opera di Vienna, Verdi ha segnato il mio cammino di lavoro dandomi, ad ogni progetto che ho realizzato, una grande felicità. La forza comunicativa della sua musica è trascinante, ti entra dentro e ti aiuta a costruire la scena.
In occasione del Macbeth con il quale ha inaugurato il recente Festival verdiano di Parma, Lei ha parlato di Verdi contemporaneo: vuol spiegare questa definizione?
La modernità di Verdi ha forti basi culturali: infatti egli diede una sferzata alle convenzioni dell’opera lirica introducendovi situazioni e soggetti che non vi erano mai apparsi e quindi proiettando in avanti nel tempo il teatro musicale. E per farlo s’ispirò a grandi autori che alla sua epoca in Italia erano sconosciuti o quasi: nel 1847, data della prima edizione del Macbeth verdiano, il dramma di Shakespeare non era ancora andato in scena sui nostri palcoscenici e il pubblico italiano iniziò a conoscerlo attraverso l'opera di Verdi. Così come fu attraverso le opere tratte da Victor Hugo, a cominciare da Rigoletto, che quel pubblico ne scoprì il fascino narrativo e la profondità di pensiero condivise e potentemente esaltate da Verdi.
A proposito di questo Rigoletto che apre la Stagione dell’Opera di Roma, come intende sottolinearne la modernità?
Rigoletto ha catturato e cattura il pubblico attraverso melodie affascinanti, da sempre diventate popolari. Ma possiede anche una drammaturgia avvincente, disseminata com’è di contrasti, di misteri e di colpi di scena. Nelle vicende narrate e nei loro protagonisti c’è una commistione fra bene e male inestricabile come nella vita reale, l’aspetto politico si mescola a quello dei rapporti privati, il dramma ha un avvio nel primo atto con elementi comici, ripresi ogni volta che riappaiono in scena i cortigiani. Ed è come se tutti i personaggi, tranne Monterone il nobile offeso, fossero doppi: Rigoletto buffone crudele e padre amoroso che non ha un nome o non vuol rivelarlo, il Duca che si nasconde a Gilda dietro una falsa identità per giocare fra corteggiamento e sensualità, la stessa Gilda che mente al padre, e così via. Essendo molto complessa, l’opera va rappresentata non in modo letterale nell’ambientazione e nella narrazione scenica ma cercando di rendere il senso e la verità di una vicenda sempre attuale perché senza tempo. Quindi nello spettacolo vi saranno scene quasi astratte, un po’ labirintiche per contenere tutte le trasformazioni dell’azione, ma con riferimenti ad architetture italiane riconoscibili, segnate da una porta fra interno ed esterno come metafora di pubblico e privato, di vita e morte. La recitazione sarà frutto di prove riflessive ma libera e spontanea nel risultato. Da questo punto di vista intendo mettere in rilievo particolare l’ultimo atto, uno dei pezzi di teatro più geniali di Verdi, con l’invenzione del quartetto separato da ciò che sta avvenendo dentro la casa di Sparafucile e il dramma di Gilda che si svolge fuori. Di una modernità straordinaria.
Quali sono, in rapporto al suo lavoro, i punti di forza di questa produzione?
So di poter contare su una collaborazione ideale con Daniele Gatti, direttore milanese come me e della mia generazione. Siamo cresciuti professionalmente nello stesso clima culturale e abbiamo già avuto modo di collaudare la nostra intesa lavorando insieme, al Comunale di Bologna per Lohengrin e all’Auditorium di Santa Cecilia per un Wozzeck in forma semiscenica. Lo stesso vale per il protagonista Roberto Frontali, già interprete con me di ruoli verdiani tra cui Rigoletto. Ma tutto il cast, dagli artisti della scena alla compagnia di canto, è non solo straordinario ma molto affiatato.
Oggi è in corso un dibattito sulle regie che divide il pubblico fra sostenitori di una presunta tradizione (e, come tali, avversari di ogni novità) e altri favorevoli alle cosiddette attualizzazioni. Qual è, in proposito, il suo punto di vista?
Secondo me, e parlo da spettatore oltre che da uomo di teatro, la questione dell’attualizzazioone è mal posta. Come ci hanno insegnato i grandi, da Peter Brook a Chéreau a molti altri, attualizzare non significa trasferire la vicenda teatrale in un contesto storico più vicino a noi puntando solo su scene e costumi. Significa leggere l’opera in modo non letterale, con occhi contemporanei e, se necessario per rivelarne i significati e valori eterni, sostituire l’ambientazione d’epoca del libretto con una più vicina a noi o, meglio, senza tempo. Tutti i capolavori, infatti, sono immersi in un contesto ampio, atemporale e non possono essere affidati né a uno stile scenico vecchio e di maniera né a qualche trovata puramente esteriore.
Lei ha messo in scena almeno una decina di capolavori verdiani, da Attila a Nabucco, Falstaff, Trovatore, Rigoletto. Quale altro titolo che non ha ancora affrontato vorrebbe portare in scena?
Mi piacerebbe che fosse Un ballo in maschera, opera alla quale sto pensando da tempo.
Nella sua trentennale attività sono numerose anche le messinscene di autori del Novecento da Berg a Britten, da Stravinsky a Dallapiccola (che le valse il premio Abbiati della Critica nel 2005) e le collaborazioni con musicisti del nostro tempo da Berio a Battistelli, da Henze a Vacchi. Ritiene che le opere dell’era recente e attuale siano abbastanza rappresentate nei nostri teatri?
Penso che dovrebbero essere rappresentate più spesso, con la stessa frequenza di quelle del repertorio classico. Invece, in generale, nei programmi dei teatri italiani (a differenza che in Francia o in Germania, per esempio) sono piuttosto delle eccezioni. Io mi sono sempre battuto perché le opere contemporanee avessero più spazio, l’ho fatto negli anni della mia direzione artistica ai Teatri di Reggio Emilia dove ancora oggi si continua a produrre ogni anno un titolo nuovo. Sarebbe auspicabile che ciò avvenisse in tutte le istituzioni musicali.