Questo milanese DOC è apparso nel mondo dell'Opera poco più di cinque anni fa come direttore d'orchestra. Prima di allora era conosciuto e stimato come direttore di coro e soprattutto come organista, e musicologo specialista di musica antica. Si è subito affermato come uno dei più interessanti direttori d'orchestra del paesaggio lirico barocco, e come direttore musicale dei Musiciens du Prince-Monaco, la formazione barocca dell'Opera di Montecarlo. Da allora, ha diretto regolarmente Cecilia Bartoli (futura direttrice dell’Opéra de Monte-Carlo), sia in Rossini che, più recentemente, nell'Iphigenia in Tauride di Gluck che ha diretto in modo vivace et tagliente, liberandosi della grandiosità solitamente associata al compositore bavarese.
E discutendo con lui, molto liberamente, si scopre un percorso intellettuale di altissimo livello, perché il musicista è anche un filosofo, laureato dell'Università di Milano, e ha una forte passione per Wagner, che lo ha introdotto alla musica e all'Opera. Con una mente aperta e disponibile, parla della sua passione per Wagner e Strauss, della riflessione filosofica, del suo gusto per la voce e del suo approccio al repertorio antico.
Questa personalità atipica del panorama musicale doveva affrontare il Belcanto e Don Pasquale al Festival di Salisburgo, la Covid-19 ha deciso diversamente, e molte delle produzioni in cui era presente sono state cancellate, come in ogni altra parte del mondo. Ma i direttori di teatro hanno annusato il suo talento, e ora è chiamato in tutta Europa, con o senza Bartoli, a dirigere il repertorio barocco.
La conversazione, saltellando da un tema all’altro, affronterà a sua volta tutti questi argomenti, dove scopriremo questa personalità piuttosto serena, con una visione musicale senza compromessi, nutrita da anni di studio, occhi acuti sul repertorio, tuffandosi in profondità nelle partiture, che sorprenderà molti. Lavoratore instancabile e anche musicologo, gli dobbiamo anche un libro I segni della voce infinita. Musica e scrittura pubblicato nel 2002 da Jaca Book e sarebbe sorprendente se non avesse in mente un altro progetto.
Lo vedremo quest'estate 2020 a Salisburgo (27/08 alle 15.00 e alle 20.30) e a Lucerna (21/08 alle 19.30), con Cecilia Bartoli, e anche per un concerto dei Musiciens du Prince-Monaco per una Mozart-Matinee a Salisburgo il 16 agosto.
Quindi iniziamo questo viaggio lungo e piuttosto affascinante, di cui pubblichiamo la prima parte.
Cominciamo da una sua affermazione che mi ha molto sorpreso: Lei ha detto una volta che amava molto Wagner, ma che “sapeva che non lo avrebbe mai diretto”. Perché? Ci sono stati direttori specializzati in musica antica come Lei che hanno diretto Wagner.
Pochi.
È più una constatazione di mercato, devo dire che dirigerei Wagner molto volentieri. Però più vado avanti col lavoro e con la carriera, più capisco che ci sono barriere invisibili, ma spesso molto forti. Quindi per un direttore che acquista un nome su un repertorio diventa molto complicato poter fare un salto per andare altrove. Non che non ami quello che dirigo, ma penso che talvolta nuovi stimoli possano contribuire alla crescita di un artista.
Il mio amore per Wagner deriva dal fatto che l’ho sempre ascoltato fin da quando ero piccolo. È stato il primo compositore che ho ascoltato in modo intensivo, ero affascinato dal suo mondo e dalla cultura tedesca in generale, e i miei successivi studi filosofici sono per così dire confluiti naturalmente in questo interesse. Certamente Wagner è il più filosofico fra i compositori, ed è la figura che più ha dato da pensare alla filosofia contemporanea.
Del resto sono pochi i direttori italiani che affrontano il repertorio operistico tedesco, forse quelli più curiosi intellettualmente. Va anche detto che è necessaria una padronanza della lingua come precondizione per affrontare un determinato repertorio. Tutto il mio percorso di studi, la mia formazione, il mio gusto sembrerebbero destinarmi ad esso.
E cosa nel repertorio tedesco?

I due pilastri sono ovviamente Wagner e Strauss: nutro una passione speciale per lo Strauss operista, più che lo Strauss dei poemi sinfonici; e in particolare amo lo Strauss che mette in musica Hofmannsthal. Ma capisco anche che i direttori dei teatri cercano sempre più la specializzazione. È anche una cosa che trovo giusta.
Magari sarebbe interessante tentare esperimenti, ad esempio a me piacerebbe fare un Wagner con gli strumenti e gli organici dell’epoca di Wagner; non si fa praticamente mai e penso che darebbe un’immagine molto particolare della sua musica. Beh, so che si tocca un terreno un po’ minato… chiaramente questi grandi compositori hanno una tradizione così forte che mettere in discussione i singoli punti di questa tradizione può essere molto rischioso.
Però io amo anche il rischio.
Sul primissimo Wagner, ad esempio Das Liebesverbot ?
Perché no? O Die Feen, o Rienzi… Ma forse non mi fermerei sul primissimo Wagner, interessante che sia. Se si dovesse fare un'operazione un po' di rottura o dare una visione diversa, si dovrebbe fare su un titolo più importante…Almeno a partire dall'Olandese… Vediamo un po' cosa ci riserva il futuro appunto.
Ha parlato di filosofia. Da dove L’è venuto questo interesse per la filosofia?
È stato un interesse molto precoce nel mio caso e non avendo nessuno in famiglia né musicista né filosofo, guardando con gli occhi di poi probabilmente è stato Wagner proprio la scintilla da cui sono scaturiti i miei interessi. Verso i 20 anni, mentre studiavo all’Università pensavo di fare il filosofo nella vita, volevo fare la carriera accademica e quindi il mio interesse per la filosofia non è accessorio o marginale. Ancora oggi leggo molto filosofia, e scrivo quando ho un po’ di tempo.
Potremmo dire che si tratta di un destino: quando ero alle scuole medie, quindi diciamo tra i 13-15 anni, avevo già un interesse molto forte per questa materia, sapevo che avrei studiato Filosofia all’Università e avevo persino deciso con che professore laurearmi. E così è stato: mi sono laureato con Carlo Sini, uno dei massimi filosofi, oltretutto musicista come me di formazione. Avevo trovato la persona perfetta per le mie esigenze. Il mio Maestro. Ad un certo punto però, mentre mi accingevo a frequentare un Dottorato in Germania, la musica ha preso il sopravvento, la richiesta di concerti si faceva pressante e in breve ho rinunciato a una carriera difficile come quella universitaria in Italia per affrontarne una forse ancora più difficile. La filosofia per me non è un orpello, è al centro del mio essere musicista, del mio essere persona.
A partire da Wagner è venuto l’interesse per la filosofia?
Wagner e i greci: i miei campi di studio particolari sono stati la filosofia greca, Platone in primis e poi la filosofia tedesca, Nietzsche e Heidegger, dove i greci hanno un ruolo centrale: tutto un po' si tiene alla fine.
Ed è per quello che Lei è arrivato all’interesse per la musica antica, mettiamo da Platone e dalle sue teorie sulla musica?
Sicuramente! Mi sono avvicinato alla musica antica, in qualche modo per un’esigenza di verità. Perché ascoltavo e anche suonavo quel repertorio, ma vedendo come lo insegnavano in conservatorio mi rendevo conto che qualcosa che qualcosa non tornava.
Si sente nel corpo e nella pelle questa sorta di “falsità”. Non capirai mai cosa scrive Frescobaldi se lo suoni su uno strumento accordato equabile, non arriverai mai all’essenza dello stile di Monteverdi se non capisci che la parola viene prima del segno musicale e ritmico, e così via. Qualcosa non tornava. Da lì è nata l'esigenza di approfondire, di studiare frontalmente, insomma di “conoscere” per arrivare ad eseguire “in verità”. Quando capisci i codici sottesi alla musica dei secoli passati, quando vieni in possesso delle chiavi che ne dischiudono il senso allora vieni letteralmente folgorato. La conoscenza della prassi esecutiva è stata per me una rivoluzione copernicana nella comprensione della musica tout court. E di TUTTA la musica. Nel caso di Bach, altro compositore, per me che sono organista assolutamente centrale, la prospettiva della Performance Practice basata sulla conoscenza dei trattati, ma anche la comprensione retorica e teologica alla base della sua musica sono il punto di partenza imprescindibile per la conoscenza della sua musica. Diciamo che lo studio della filosofia, insieme agli strumenti forniti dalle discipline letterarie, storiche e artistiche, mi ha fornito un metodo, una clavis universalis per la lettura del passato e del passato musicale in particolare.
Se mi riferisco alla storia musicale degli ultimi 50 anni, la riscoperta della musica antica, non è venuta dall’Italia ma dalla Germania e dalla Francia. L’Italia è arrivata dopo e mi sono sempre chiesto perché, visto che buona parte di questa musica era nata tra Venezia e Napoli?
È difficile rispondere. Bisognerebbe fare una analisi sociologica, e anche studiare come la cultura viene finanziata (o meglio NON finanziata) e organizzata in Italia. Nei conservatori, nonostante un’apertura nei confronti dell’insegnamento degli strumenti storici negli ultimi anni, la tradizione tardo ottocentesca, possiamo dire, occupa ancora il cuore della didattica musicale. Milano, la mia città, è stata la prima città italiana a dedicare un festival (“Musica e poesia a San Maurizio”) al cosiddetto movimento HIP((Historically informed performance : movimento musicologico nato nella seconda meta del Novecento che interpreta la musica antica avvicinandosi ai contesti dell'epoca, con strumenti originali (o copie) rispettando ornamenti, temperamenti, diapason dell'epoca)). A Milano, quando ero adolescente, ho potuto ascoltare i grandi nomi della musica antica. Parlo degli anni 80-90, gli anni in cui studiavo. Per tutta la mia generazione era come guardare un altro mondo, come avere un'illuminazione, sulla scia della generazione precedente di musicisti (ad es. Alessandrini, Antonini, Biondi, Dantone) che si erano abbeverati alla fonte, studiando con specialisti all’estero. Ma la mancanza di insegnamenti di musica antica in Conservatorio e, di pari passo, la penuria di festival dedicati alla early music oltre al disinteresse delle stagioni “ufficiali” e dei teatri hanno creato una incolmabile arretratezza in Italia in questo campo. Ancora oggi ci sono critici e musicisti in vista che non comprendono, o non vogliono comprendere, questa esperienza che è un dato di fatto acquisito in tutto il mondo. Devo anche aggiungere che nel momento in cui gli italiani si sono messi a frequentare questo repertorio (soprattutto italiano) hanno veramente cambiato la storia dell’interpretazione. Basti pensare all’apporto interpretativo dei gruppi italiani nell’interpretazione del repertorio madrigalistico e del concerto e oratorio barocco.
Quindi per una sorta di rimbalzo culturale molti giovani musicisti hanno iniziato a leggere per proprio conto, a viaggiare e a vedere cosa si faceva nel resto di Europa. La situazione non è cambiata di molto dopo quasi quarant’anni. Solo negli ultimi anni i teatri italiani cominciano a interessarsi e ad aprirsi a questo repertorio che si colloca letteralmente al cuore della storia della musica occidentale. E certamente possiamo solo sognare di avere in Italia stagioni come quella del Concertgebouw o della Philharmonie di Parigi dove è possibile ascoltare il meglio della HIP, come le grandi orchestre, come il meglio della musica contemporanea.
Come è arrivato alla direzione d'orchestra?
Anche questo è stato abbastanza precoce: in Italia per accedere al corso di direzione d'orchestra in conservatorio, bisogna studiare 7 anni di composizione obbligatoriamente e poi si può tentare di accedere al corso di direzione che dura 3 anni. Ma io ancora prima di studiare composizione e di frequentare il corso ufficiale in conservatorio ho sempre diretto cori e ensemble strumentali. Come anche ho sempre ascoltato e mi sono affezionato ai grandi interpreti di tutto il repertorio, non solo del mondo del barocco.
Poi c’entra il mio l'interesse per Wagner: chiaramente conoscevo fin dalla tenera età tutte le versioni del Ring, quindi diciamo che fruivo delle differenze tra un direttore e l’altro come una sorta di esercizio di ermeneutica del testo musicale.
Ma il primo corso di direzione d’orchestra che ho frequentato in conservatorio era un corso sperimentale dedicato specificamente all’opera. E qui si riallacciavano i fili del mio interesse per la voce in generale e per i testi messi in musica in generale. Poi è subentrato anche l’interesse per la regia, che nell’opera non né proprio l’ultimo degli orpelli. Anche in questo caso sono partito dalle regie delle opere di Wagner. So che Lei conosce meglio di me la storia della regia delle opere di Wagner. Ma quale compositore se non il creatore del Gesamtkunstwerk si presta meglio a stimolare le domande sul rapporto tra musica, testo e messa in scena?
La questione della regia è d’ordine intellettuale, filosofico, pone la questione della lettura di un testo in tutti i suoi significati… Quando è arrivato all’Opera più o meno?
Dirigo Opera in maniera continuativa da 5/6 anni circa. Posso definirmi un “novizio” dell'Opera, che però ho sempre frequentato da spettatore, e ho diretto in passato in maniera saltuaria, soprattutto Opera barocca e qualcosa di contemporaneo. E’ sempre qualcosa che mi ha molto incuriosito, e inoltre sono un appassionato di teatro; ho frequentato tanto il Piccolo Teatro di Milano negli anni del liceo e dell'Università. Sicuramente si tratta della forma d’arte più complessa; coordinare così tanti elementi è una sfida e, in qualche modo direi che ero destinato a occuparmene.
E poi ovviamente la passione per la voce! Questo è anche un punto centrale.
Mi pongo una questione un po’ più ampia sull’opera barocca. Oggi come oggi, sia l'opera ottocentesca, novecentesca o barocca si fa sempre nello stesso modo, con la gente seduta che ascolta ore di musica. Ma si sa che nel Settecento la gente non aveva quel modo di ascoltare la rappresentazione. Come si può risolvere questo nodo oggi?
È vero. Non solo gli interminabili recitativi, ma anche le arie non venivano ascoltate se non piaceva un cantante. Questo pone un problema a noi oggi che è quello del museo; ovvero noi oggi, esecutori e fruitori della musica del passato, abbiamo la tendenza (questo devo dire anche per colpa della HIP) a pensare le forme d’arte come oggetti da museo da fare rivivere, da rispolverare e da riproporre secondo i canoni di fruizione nostri, ovvero con un pubblico zitto, al buio, condizioni inedite nella storia del melodramma.
E qui entra il discorso della regia chiaramente, perché la regia è l’elemento di modernità, è quello che - uso una parola che non mi piace ma non posso evitarla- “attualizza” quest’oggetto museale; lo rende vivo e lo rende disponibile alla nostra fruizione. Tutti siamo interpreti, l’ascoltatore come l’esecutore e, aggiungerei, il “commentatore” ovvero chiunque parli o scriva di musica: questa incessante operazione ermeneutica è quanto avviene allorché si propone un titolo del passato che non può mai essere la riproduzione di un oggetto assoluto, immutabile. Questo vale per la musica ma anche per l’arte figurativa, per il teatro, per il cinema, per tutte le forme d’arte insomma. Più che di “riproduzione” operata dall’interprete sarebbe corretto parlare di “produzione”.
Un esempio: ritengo inattuale e inattuabile la proposta di un'opera su testo di Metastasio in forma “integrale”, ovvero quattro o cinque ore di musica con recitativi anche di sette pagine in un italiano molto forbito ma anche molto difficile per noi italiani e ancor più per un pubblico straniero. La vulgata tende oggi a identificare “filologia” con “integralità” (questo vale soprattutto per una certa epoca del melodramma), quasi che proporre un’opera “senza tagli” possa essere una garanzia di rispetto verso l’oggetto artistico e verso la fantasmatica volontà del compositore (di cui non sappiamo niente, persino qualora venga espressa). Questo atteggiamento riporta al feticcio dell’oggetto museale da mettere sotto una teca e da ammirare a debita distanza, ma non ha niente a che fare con la “filologia”. A volte il compositore non arriva a “chiudere” l’opera, non decide quale sia la versione “corretta”, lascia aperte questioni strutturali. Pensiamo per esempio a Idomeneo: in realtà non esiste un’opera con questo nome, è l’interprete che di volta in volta decide per un’unità sempre originariamente destinata a rimanere incompiuta e frammentaria. E questo ne fa un oggetto vivente e palpitante, altro che feticcio museale.
Un altro esempio: nel “Belcanto” che senso ha eseguire integralmente le riprese se queste non vengono variate, procedimento ovvio agli occhi del compositore ma a volte tacciato di blasfemia dall’interprete di oggi? Il direttore d’orchestra e il regista oggi non solo possono ma devono prendersi la responsabilità di “confezionare” - anche qui uso una brutta ma efficace espressione - la partitura, e quindi di esporsi all’assenso o al dissenso del fruitore. Un’opera del ‘700 con tagli non è più uno scandalo per nessuno, né deve esserlo.
Fino alla metà dell'Ottocento almeno, ma abbiamo anche esempi più tardi, la partitura non era mai sacralizzata e si poteva prendere molta libertà, per esempio quando cambiava il cantante, o il luogo di rappresentazione. Oggi fino a che punto il direttore ha questa libertà?

“Confezionare” una partitura non significa stravolgerla, su questo bisogna essere molto chiari. Per esempio la grande libertà che la scrittura del barocco - di per sé povera di segni - concede all’interprete deve trovare un limite nel rigore. E il rigore deriva dalla conoscenza non solo dell’oggetto in questione, ma anche di tutto l’”extra-musicale” che lo circonda. Si tratta di un equilibrio molto delicato. in un’attimo la libertà diventa arbitrio. L’arbitrio deriva dalla non conoscenza. Chi dice “no, io non tocco una virgola” è ignorante, letteralmente non conosce quello che avveniva nel passato.
A volte preparando una produzione con Cecilia ((NdR: Cecilia Bartoli)) lei mi dice: “ma senti quest’aria la possiamo trasportare?”. Io sempre per scrupolo da musicologo vado subito a vedere che trasposizione ha fatto Haendel stesso, ad esempio. E ne troviamo a piene mani! Così come troviamo arie in cui lui eseguiva solo la A e non la B, o solo A e B e non da capo: sono tutte trasformazioni attestate. Questo avveniva soprattutto in occasione di riprese di melodrammi con cantanti diversi da quelli della prima versione, o per un’esecuzione in un teatro diverso per un pubblico differente che aveva altre esigenze.
Nel passato la musica si faceva per il presente con tutte le variabili empiriche imposte dalle condizioni di produzione. Nel presente, in cui si esegue quasi esclusivamente la musica del passato, si tende a ipostatizzare e feticizzare questo passato.
A proposito dell’interpretazione: devo confessarLe una cosa che forse Le stupirà. Ho scoperto l’incoronazione di Poppea nella versione Leppard nel 1978 all'Opera di Parigi con un cast wagneriano (in seguito al cancellamento di una Valchiria). Con Christa Ludwig, Gwyneth Jones, Jon Vickers, Nicolaï Ghiaurov… Ed’ è stata in assoluto la più grande rappresentazione di quest’opera che abbia mai visto…
Interessante! Dimostra come il capolavoro è quello che sopravvive anche a eventuali stravolgimenti. Dal mio punto di vista chiaramente una versione come quella che Lei cita stravolge il “testo” musicale. Anche a me capita di ascoltare versioni di quegli anni, e ci trovo cose straordinarie: per esempio cantanti che cantano la leaderistica cantano benissimo Monteverdi. Ma se in Monteverdi si mette al centro il suono e non la parola, la tecnica vocale e non l’articolazione del testo, se non si è cresciuti leggendo l’italiano di Ariosto e Tasso, si è destinati allo scacco. Eppure nel caso da Lei citato non parlerei di profanazione.
Mi ricordo essere uscito dal teatro con la convinzione che Monteverdi aveva una potenza incredibile
E io per rimanere in tema ricordo di aver sentito un Oratorio di Natale con un gruppo filologico, non so più quale, ma diretto da Daniel Harding, un direttore che non frequenta normalmente questo repertorio e non so quanto lo conosca. Ebbene, anche perché si tratta senza dubbio di un ottimo direttore, tirava fuori dettagli nascosti, metteva in rilievo sfumature del testo, insomma mostrava una conoscenza che mi hanno profondamente stupito. Si trattava di un’interpretazione superiore a molte di quelle HIP da me conosciute. Questa è la bellezza dell’infinità dell’interpretazione. Certo oggi fare in un certo modo Monteverdi o Bach potrebbe “scandalizzare”, ma se si sente la Poppea di Karajan ((NdR: con la Wiener Staatsoper nel 1963 poi ripresa ne 1969. Da allora il titolo non è mai più stato riproposto)) che dura un’eternità per come stravolge il ritmo della parola, eppure è una testimonianza importante nella storia dell’interpretazione perché in quel momento Il Seicento era visto così.
Ma oggi c’è anche un fenomeno di moda…siccome il repertorio barocco va bene, il mercato si adatta, e per esempio vediamo tanti controtenori sorgere…
Sì il repertorio barocco va tendenzialmente bene, ma il mercato non è infinito. E molti si infilano in una strada senza uscita perché il mercato (specie nel tempo del tramonto del disco) si satura velocemente. 4 o 5 controtenore interessanti li seguiamo e li ascoltiamo, 20 controtenori che il mercato vorrebbe assurgere a star non li seguiamo più. Oltretutto sono voci che si logorano presto, quindi hanno una parabola artistica limitata nel tempo. Il tentativo di allargare i confini di repertorio, per esempio i controtenori che cantano Rossini non mi sembra abbiano riscosso molto successo. Eppure ci sono artisti straordinari con cui ho collaborato, dalla tecnica impensabile solo 20 anni fa. Certamente l’opera metastasiana in particolare ha secondo me tratto grande giovamento dalla presenza di questi artisti. Ma, ripeto, il mercato non è infinito e ci sono tante voci femminili altrettanto affascinanti che cantano questo repertorio.
Devo dire che la Francia ha giocato un ruolo molto importante per tutti noi europei con la tenace e coraggiosa riscoperta e riproposizione del repertorio sei-settecentesco anche italiano. Ha creato e ha saputo nutrire un mercato ancora rigoglioso nonostante le preoccupazioni economiche. Ammetto che soffro un po’ l’egemonia dei gruppi francesi soprattutto nella proposizione del ‘600 italiano, mentre i gruppi italiani sono condannati all’inerzia dalla totale mancanza di supporto pubblico e di una rete di mecenati. Ma anche in questo caso è il mercato che decide, e rendo merito al mercato francese di aver fatto apprezzare questo repertorio rendendolo appetibile al grande pubblico.
Visto che doveva dirigere quest’anno a Salisburgo il Don Pasquale di Donizetti, volevo conoscere il Suo parere sulla continuità dal barocco al belcanto, passando per Gluck, Mozart e poi Rossini e Donizetti. Mi sembra invece che il modo di dirigere il Belcanto guardi più verso Verdi che verso il passato.
Dirò di più e vado oltre dicendo che il Belcanto si sente spesso oggi come fosse Mascagni, così come spesso ascoltiamo un Verdi che sembra venire da Boito piuttosto che dal Belcanto. Io credo che il verismo abbia dato un’impronta fortissima a quello che noi sentiamo oggi in teatro. Pensiamo solo alla disposizione dell’orchestra, agli strumenti che si usano, all’uso strutturale del vibrato, ma anche ai teatri sempre più capienti, tutto questo deriva certamente dagli anni del verismo musicale che vernicia con le sue tinte tutta la musica del passato. Per rimbalzo l’esperienza della HIP ha avuto e ha grande successo perché rimette in discussione radicalmente proprio questi e molti altri aspetti.
Ma ci sono molte sopravvivenze del barocco nell’Ottocento, ad esempio la persistenza nel Grand-Opera dei ruoli travestiti, Jemmy (Tell), Urbain (Les Huguenots), Adriano (Rienzi), perfino Siebel nel Faust di Gounod…
Perché chiaramente l’Ottocento viene dal Settecento, ma la matrice di tutto è sempre il Seicento musicale che dovrebbe essere materia principale di insegnamento in tutte le accademie del mondo.
E noi mettiamo delle etichette, romanticismo, pre-romanticismo, post romanticismo, ma in che direzione deve guardare Il Belcanto? Perché qualcosa deve essere rivisitato, alleggerito…

E’ quello che dicevo prima sulla ricerca della verità. Ogni stile ha la sua verità, e noi dobbiamo partire da questa, che può essere totalmente fraintesa. E anche se usi gli strumenti dell'epoca… Non è che garantire determinate condizioni garantisca di accedere al cuore del significato di quello che si sta facendo. È l’agencement (userei questo termine della filosofia francese) di mille differenti aspetti e variabili derivanti - lo ripeto - dalla conoscenza che possono portare a questa verità. Perché sottolineo l’importanza del ‘600 musicale? Perché tutto parte da lì: Monteverdi è il punto di partenza inevitabile, poi si arriva a Cavalli, a Scarlatti e quindi a Haendel. Con Haendel, c'è una rottura chiara con il passato. E la rottura seguente si ha con Gluck: Haendel non metterebbe mai in musica un testo disperato come “Che farò senza Euridice” quasi fosse una serena canzone in tonalità maggiore. Gluck seppure in modo assolutamente geniale usa qui un procedimento “ironico” (in senso greco) come avviene in tutta l’Opera metastasiana: pochissime sono le arie in minore, la convenzione era quella di scrivere certe tonalità, ma anche di mettere in musica con quei mezzi musicali testi profondi esemplari nel suscitare le passioni dell’ascoltatore. Aggiungerei al discorso anche Haydn, lo Haydn operista che si conosce talmente poco e credo sia una delle lacune più gravi del nostro repertorio. Haydn che mette in musica testi (ancor più a mio avviso dell’Haydn compositore di Quartetti e Sinfonie) è illuminante e paradigmatico rispetto a tutto quello che avveniva in quegli anni, e soprattutto rispetto a Mozart, per continuare con questa mia genealogia musicale. Anche nel Belcanto ci sono linee di continuità rispetto al passato. Rossini è un grande rivoluzionario, però se vediamo le farse veneziane che scrisse nei primi suoi anni e che (quelle di altri compositori) lui stesso ascoltava, troviamo essenzialmente gli stilemi della scrittura classica (più Haydn che Mozart). Dunque rivoluzionario nella continuità, perfeziona un certo tipo di forma e mette al centro il canto. Ma in Verdi possiamo dire che c'è al centro il canto o il dramma? Avremmo Verdi senza Shakespeare? La mia risposta è no, e il canto in Verdi non è mai fine a se stesso, come talvolta parrebbe nel Belcanto.
Cosa concludiamo da questa genealogia che potrebbe arrivare ai giorni nostri? Il problema da interprete è tutto qui: tu puoi interpretare Gluck senza conoscere Haendel o Monteverdi? Il problema a mio avviso sorge quando si ha un approccio astratto rispetto alla musica, cioè quando si prende una partitura come se fosse un libro che tu compri in libreria: se sai leggere le lettere, capisci il senso. E lo leggi e pensi di averne acquisito il significato. La musica è tutt'altro; la musica richiede sempre necessariamente una decodificazione, non parlo solo di saper leggere le note. Ma la condizione per una corretta decodificazione è la conoscenza di tutto l'extra musicale che sta intorno alle note. Le faccio ancora un esempio: se ora tirassi fuori la riproduzione originale di un mottetto di Ockeghem e Lei non sapesse le regole che governano questa scrittura molto complessa Le risulterebbero segni totalmente incomprensibili. Si tratta di un codice che bisogna conoscere, e si tratta di conoscere esattamente le regole di quel tipo di scrittura che altrimenti rimane lettera morta. Estremizzo, ma con Monteverdi o Haendel è esattamente la stessa cosa. L'opera d'arte è sempre uno scrigno da espugnare per cercare di aprire per trovarne questa verità che dicevo e qui entra in gioco, se vuoi il lato intellettuale detto in senso largo, ma quello che permette di dare un approccio ampio a quello che si sta facendo, vedere tutto il contorno e capire che da una parte dico “non avrei mai potuto fare Haendel come lo faccio senza aver fatto tanto Monteverdi in vita mia e tanto Seicento italiano allo stesso tempo” e dall’altra probabilmente non amerei così tanto Monteverdi, se non conoscessi bene anche Wagner e Strauss, e tutto quello che verrà dopo. Sono cose che chiaramente continuano a passare l'una sull'altra ad influenzarsi a vicenda. Parlo nuovamente del nucleo di quella disciplina che in filosofia si chiama “ermeneutica”.
Strano che non parla di Vivaldi ...

È un po' un caso a parte. Forse perché abbiamo scoperto le sue opere così tardi, cioè non c'è una tradizione esecutiva di nessun tipo relativa a Vivaldi operista, quello che mi interessa di più Lo trovo un compositore geniale per la sua epoca, ma non rivoluzionario. Se il testo e la retorica sottesa alla musica sono il centro dell’Opera barocca, il suo più intimo punto sorgente, allora è Haendel il genio, non certamente Vivaldi. Mi piace pensare a Haendel come colui che ha fatto per la musica ciò che Shakespeare ha fatto per il teatro. Beninteso, Vivaldi ci ha lasciato pagine di una bellezza folgorante ed è il creatore di mille soluzioni timbriche inedite per la sua epoca.
© Monika Rittershaus (Iphigénie en Tauride)
© DR (Ritratti G.Capuano)