Riprendiamo la conversazione con Gianluca Capuano, iniziata lo scorso estate, che volevamo pubblicare in occasione del concerto di Cecilia Bartoli alla Philharmonie di Parigi a fine novembre 2020. Il Covid ha deciso diversamente.
Quando Cecilia Bartoli e Gianluca Capuano torneranno a Parigi o altrove, i nostri lettori potranno leggere o rileggere questa interessantissima conversazione. In questa seconda parte si affrontano questioni di repertorio, della natura della professione di direttore d'orchestra e del modo filologico di leggere le partiture, della relazione del direttore con regia e registi, e poi ovviamente del lavoro con Cecilia Bartoli....
Non abbiamo ancora parlato del repertorio francese, ad esempio Rameau?
Amo molto Rameau, lui fa parte secondo me dei compositori della “meraviglia”, non sai mai cosa succede nella pagina seguente, ha un modo divinamente erratico di gestire la forma e un sublime senso del teatro. Non ti nascondo che mi piacerebbe molto dirigere un Rameau, non so se mai succederà.
Però devo dire nel mio intimo, sono molto più legato al Seicento francese, in particolare c'è un compositore che amo visceralmente, Marc-Antoine Charpentier. Lui segna indubitabilmente uno dei momenti più alti del Seicento francese; il suo interesse per forme inusitate (ad esempio è lui a importare l’oratorio latino in Francia), la sensibilità nel rivestire i testi di suoni, le sue arditezze armoniche, lo fanno stagliare in gloriosa unicità in tutta la produzione del periodo. Pare dimostrato che abbia studiato cinque anni a Roma con Carissimi, da cui prende ispirazione per la creazione degli oratori (entrambi furono per tutta la vita a contatto con i Gesuiti). E non dimentichiamo la collaborazione straordinaria con Molière. In Francia in quegli anni c'è un legame unico della musica con la letteratura e l'esperienza teatrale, la qual cosa rende speciale e unico questo repertorio.
Si, pero la tragedia classica francese del Seicento non è che abbia dato tante opere liriche…
Si, infatti, forse c’è già una musicalità all’interno del verso che rende superflua l’aggiunta della musica anche se indirettamente la storia del teatro e la struttura drammatica influenzano l’opera. Però non dimentichiamo la profonda influenza esercitata da Corneille e Racine sul melodramma settecentesco, su Metastasio in particolare. E poi oltre alla dìade Molière/Charpentier non dimentichiamo la collaborazione tra Quinault e Lully che ha prodotto capolavori quali le Tragédies lyriques Thésée, Atys, Roland. Si tratta di una di quelle collaborazioni “epochenmachend” come sarà nei secoli successivi per esempio il lavoro di Da Ponte/Mozart o Hofmannsthal/Strauss.
Nel Seicento l’opera comunque viene dall’Italia:
infatti Luigi Rossi fu il primo italiano a portare l’opera in Francia su invito di Mazarino. Poi ovviamente la Francia influenza e trasforma radicalmente questo compositore fiorentino, Giovanni Battista Lulli. Abbiamo visto anche come l’ispirazione di Charpentier è essenzialmente italiana, anche se la sua esperienza lo porta soprattutto a scrivere musica sacra; eppure le sue poche incursioni nel teatro, come nel caso delle musiche di scena per Molière o per l’Andromeda di Corneille, o la sua unica Tragédie lyrique, Médée, ne fanno una figura gigantesca nella storia del melodramma. Ma è vero che il ‘600 francese è autenticamente francese e non soggetto all’influenza italiana soprattutto nella musica sacra, pensiamo a compositori come Henry Du Mont oppure Michel-Richard Delalande che anche amo molto.
L’influenza della tragedia francese si vede forse più tardi con Voltaire (che era all’epoca molto più famoso per le sue tragedie che per i suoi scritti filosofici) che fornisce soggetti a Rossini e al Belcanto. A proposito, m’interessa il suo rapporto col Belcanto. Doveva fare Don Pasquale a Salisburgo…
Oggi sono molto richiesto come direttore, oltre che per il barocco e il classicismo, anche per il Belcanto. In realtà l’inizio della mia collaborazione con Cecilia Bartoli è stata proprio all’insegna del Belcanto con Norma e Cenerentola già nel 2016. Questa contingenza storica mi ha portato subito a pormi molte domande su questo repertorio, su come viene eseguito, sulle incrostazioni secolari di abitudini esecutive che raramente si sono messe in dialogo con i documenti dell’epoca. Pensiamo per esempio all’esecuzione di questo repertorio con gli “strumenti originali” (che spesso, non dimentichiamolo, sono copie moderne); questo approccio cambia radicalmente gli equilibri fonici, la texture delle parti, influisce profondamente sulla scelta dei tempi, etc. Insomma ogni scelta crea tutta una serie di ricadute sull’intero impianto interpretativo. I critici e molti ascoltatori ancora non sono pronti (dopo 50 anni di “performance practice”!) a questo tipo di ascolto, anche perché effettivamente è ancora molto poco diffuso. Credo che il lavoro svolto da pionieri come Harnoncourt su Bach e Mozart sia ancora da svolgere sul Belcanto, per non parlare di Verdi.
In quest’ottica il progetto di Don Pasquale per Salisburgo sarebbe stata l’occasione per me di riprendere tutta questa serie di riflessioni sul Belcanto. Sarebbe evidentemente stato un Don Pasquale molto “rossiniano”, questo è chiaro. Il testo musicale è sempre il punto di partenza, la fedeltà al segno scritto, per questo giudicando insufficienti e spesso fuorvianti le edizioni correnti ho lavorato con un team di musicologi a una “nuova edizione” del capolavoro di Donizetti che avrei presentato al pubblico se solo la pandemia ci avesse permesso di andare in scena. Ma così non è stato purtroppo a causa della pandemia. Lavorando a partire dal manoscritto autografo si scoprono mille dettagli, mille cose che sono state cambiate e travisate dalla famosa “tradizione” esecutiva. Si tratta eminentemente di un lavoro archeologico, e subito risultano evidenti le ascendenze stilistiche, i lemmi musicali, da dove vengono, che storia hanno, e soprattutto si capisce come incarnarli di suono, come interpretarli. Le partiture dei secoli passati non sono come un libro che si apre, si legge e si comprende. Si parte sempre, per restare nella metafora, da una lingua sconosciuta da interpretare, da ricostruire. Provi qualcuno che non conosca i codici interpretativi della musica rinascimentale ad aprire una stampa di Petrucci ((Ottaviano Petrucci (1466-1539) fu uno stampatore che contribuì notevolmente alla nascita dell'editoria musicale diffondendo le opere del suo tempo.)) e a dirigere una messa di Josquin! Con la musica successiva non è molto diverso, compreso il Belcanto. Spero che un giorno potremo riprendere il Don Pasquale di Salisburgo.
Lo stesso da Mozart?
Sì, assolutamente. In Mozart sono sufficienti tre battute per capire esattamente tutti gli stilemi che lui prende dal passato; gli “stilemi” compongono dei “lessici” che sono per così dire il serbatoio stilistico da cui ogni compositore attinge. E qui entra in gioco il ruolo della retorica. Mi sono molto interessato alla storia di questa disciplina antica ma sempre assai moderna. Tutti i compositori del passato, chi più chi meno a seconda della epoca, erano profondamente influenzati da questo aspetto oggi completamente dimenticato.
Chi si interessa oggi di retorica classica, se non gli studiosi di quello specifico argomento? Invece si dovrebbe insegnare retorica fin dai primi anni di Conservatorio. Questo vale anche per Mozart, che oltre alle qualità musicali che tutti gli riconoscono era anche un finissimo uomo di teatro. Stupefacente il caleidoscopio di passioni che egli mette in scena. Qui il teatro diventa una cosa veramente universale. La collaborazione con Da Ponte non poteva essere un evento quasi casuale come spesso si narra. Mozart non poteva scrivere i testi, ma aveva una sensibilità teatrale straordinaria nella scelta del testo: è questo che porta alla assoluta unicità delle sue creazioni teatrali.
Ho diretto molto Mozart, Clemenza, Idomeneo, Nozze, e questo’anno nel 2021 a Pentecoste suoniamo Clemenza in forma di concerto a Salisburgo perché il festival sarà dedicato a Roma. Cecilia canterà Sesto. Amo molto Clemenza, è il canto del cigno dell’era metastasiana in musica, è un’opera tecnicamente sbalorditiva eppure così umana, così pervasa da melanconia, tenerezza, passione per i valori umani più elevati. L’esecuzione di un’opera di Mozart mette in campo tutta una serie di problemi molto intricati. Un esempio su tutti, la scelta dei tempi, delle indicazioni agogiche: Mozart è di una precisione maniacale nella scelta di queste indicazioni, e in questo è un fenomeno unico nella storia della musica. Esistono studi che hanno catalogato tutti i gradienti agogici nelle composizioni, ad esempio l’ottimo libro di H. Breidenstein uscito poco fa, ((H. Breidenstein, Mozarts Tempo-System, Tectum, Baden baden 2019)).
Era un tema già caro ad Harnoncourt, anche se non approfondito a questi livelli. Insomma Mozart era di una precisione millimetrica nella scelta dei tempi e dei rapporti tra i tempi far loro, a costituire vere e proprie architetture musicali perfettamente calibrate. A conferma della non arbitrarietà nelle scelte di tempo abbiamo anche preziose testimonianze come quelle di Tomaschek, un musicista che aveva sentito dirigere Mozart dal vivo e che ci ha lasciato precise indicazioni metronomiche. Così come, per tornare a Bellini, il compositore stesso ci ha lasciato i metronomi per esempio di Puritani e quindi sarebbe sicuramente inorridito all’ascolto delle tante, troppe esecuzioni pachidermiche delle sue opere. Devo lamentare il fatto che, anziché approfondire in maniera scientifica questi temi, molti interpreti sono ancora lì che si accapigliano per trovare un comune denominatore nei tempi di una sinfonia (un tema paleologico di vecchie scuole di direzione) o per capire in che modo il metronomo di Beethoven fosse difettoso. E intanto ascoltiamo ancora Ouvertures di Don Giovanni battute in otto (o in quattro lento, che è lo stesso)! E specularmente, ancora leggiamo dei critici che si scandalizzano per certi tempi troppo veloci (chiaramente, essendo abituati ad amare e sentire le versioni battute in otto)!
Ma così qualcuno ha anche scritto dei Suoi tempi nell’Iphigénie en Tauride di Gluck a Zurigo…che invece mi era piaciuto perché quando si sente il Gluck delle opere scritte prima della sua riforma, si scopre un Gluck molto dinamico – e la regia di Homoki aiutava molto - ben diverso dal Gluck-monumento che sentiamo ogni tanto.

Come dicevo prima ogni singola scelta si porta con sé l’intero impianto. Se per ragioni scientifiche, e sottolineo il termine, decido per un tempo anziché un altro, questa opzione ha come conseguenza per esempio che il cantante abbia una determinata agilità, non perda il senso della parola nell’edonismo melodico, che l’orchestra abbia determinate caratteristiche tecniche, etc. Per sintetizzare in riferimento alla produzione di Zurigo, Gluck non è un neoclassico. Il mio compito di interprete è di svelarne la “verità” derivante dall’infinita miriade di dettagli tecnici. Intendiamoci, non si tratta mai di scelte assolute, questo è chiaro, parlerei piuttosto di scelte che sono “valide” solo se si muovono entro un certo range di variabilità. Se poi le mie scelte trovano una corrispondenza con quello che si vede sul palcoscenico, l'effetto si decuplica, e si ha il miracolo dell’Opera. La “verità” di Gluck emersa nella nostra Iphigénie era molto compatta se si considera che il colore dell’orchestra corrispondeva perfettamente al “colore” (in senso lato) scenico, che i miei tempi erano perfettamente in linea con i tempi della regia, che lo sforzo costante di far “parlare” l’orchestra corrispondeva alla dizione perfettamente scolpita dei protagonisti. Penso che tutto questo insieme abbia restituito una “verità” di Gluck più vera di certe esecuzioni e regie che sottolineano piuttosto l’elemento neoclassico, monumentale, museale del compositore. Aspetto che è stato rimpianto da alcuni, pazienza.
Però tornando a Mozart quello che voglio sottolineare è che le scelte non sono mai gratuite, non sono mai casuali: questo va completamente contro la mia idea di pensare la musica. Io devo avere una base di pensiero, devo esser sicuro di quello che scelgo. Poi ovviamente la soggettività entra necessariamente in quello che fai. Ma - lo ripeto sempre - soggettività non è sinonimo di arbitrarietà. L’arbitrio mette al centro l’interprete non il compositore, e questo è il peccato originale per ogni interprete, quello di elidere l’oggetto che siamo chiamati a riportare in vita.
Abbiamo parlato abbastanza spesso finora di Cecilia Bartoli. Come l’ha conosciuta e come è diventato oggi il suo “direttore di fiducia”?
Il primo contatto con Cecilia è stato durante la realizzazione del CD “Mission” (DECCA 2012) dove suonavo il cembalo. Poi mi è stato chiesto di preparare il coro della RSI per la grande produzione di Norma a Salisburgo, era il 2013 (la produzione Caurier-Leiser) ((NdR: che si svolgeva nella Francia della Resistenza, NdR, ved. (in francese) https://blogduwanderer.com/salzburger-festspiele-2013-norma-de-vincenzo-bellini-le-24-aout-2013-dir-mus-giovanni-antonini-ms-en-scene-patrice-caurier-moshe-leiser-avec-cecilia-bartoli)). In quest’occasione l'ho conosciuta meglio, abbiamo cominciato ad avere una sorta di affiatamento musicale. Tuttavia sapevo bene in cuor mio che un giorno l’avrei diretta, tale era la sympatheia, (a volte non c’è niente meglio del greco per definire uno stato d’animo) del nostro approccio alla musica.

E l’occasione si è puntualmente presentata “last minute” al Festival di Edinburgo dove stavamo lavorando a una ripresa della Norma salisburgense. Io allora già avevo iniziato la mia carriera di direttore d’opera (avevo diretto per esempio in teatri importanti come Colonia o Zurigo), ma era la prima volta che Cecilia mi vedeva dirigere “davvero” e lì e “scoccata la scintilla”. Al momento penso di essere forse il direttore suo più longevo – sono passati più di quattro anni - e penso che oltre alla chimica musicale tra noi lei apprezzi anche il mio modo di essere riflessivo e pacato, da “studioso” prestato alla musica; anche se sul podio come sa mi trasformo. Cecilia inoltre è sempre così curiosa di riscoprire capolavori perduti, e di scavare nelle condizioni di esecuzione di un'opera! Su questo ci troviamo assolutamente in sintonia e lei trova in me anche una sponda musicologica.
Oltre alla straordinaria artista che è (penso di avere ormai diretto più di cento rappresentazioni con lei e non una volta ho rilevato un calo di concentrazione, non una volta una flessione nell’energia o nella resa vocale), la ritrovo totalmente sulla mia lunghezza d’onda sulle questioni inerenti il linguaggio, la parola, l’articolazione, tutti elementi in cui lei eccelle. Penso che non potrei collaborare altrettanto con un artista in cui questo elemento non fosse centrale. Non ultimo la creazione nel 2016 dei Musiciens du Prince, di cui sono Direttore principale, mi ha dato la possibilità di disporre di un vero e proprio laboratorio per la filologia in musica, e su repertori poco frequentati dai gruppi HIP ((Historically Informed Performance: i gruppi che propongono le opere secondo criteri filologici)) come il Belcanto.
Parliamo di regia…
Argomento spinoso…
Quello che spesso mi stupisce nei dibattiti sulla regia d’opera è che non si àncora il tema - come si dovrebbe - alla storia dell’interpretazione teatrale tout court. Un dialogo con il mondo teatrale e cinematografico penso sia oggi ineludibile nell’Opera. Da filologo musicale mi trovo dentro un paradosso: da una parte in musica l’operazione “archeologica”, di studio e scavo delle fonti, è assolutamente necessaria e non solo nei repertori più lontani. D’altra parte uno studio filologico sulla messa in scena ha solo un valore scientifico, ma è impensabile che si torni a come si mettevano in scena i titoli nell’epoca dei compositori, se non in poche operazioni mirate.
Con la nascita della regia moderna - siamo negli anni ’80 del XIX sec - le interpretazioni dei capolavori dei secoli passati nel teatro di prosa e nel teatro musicale seguono un binario parallelo. Dalla compagnia dei Meininger ((Compagnia teatrale di corte del duca Georg II. di Sachsen-Meiningen, sposato con l'attrice Ellen Franz. Dal 1879 al 1890, spettacoli in tutte le principali città europee)) e dall’esperienza del Théâtre libre di André Antoine si sviluppa un approccio al testo che non sia semplicemente illustrativo ma che sia in senso stretto una interpretazione. La presenza di un interprete teatrale che affianchi un interprete musicale diventa ineludibile fino ai giorni nostri. Lo scopo della filologia musicale non è mai quello di arrivare a stabilire una chimerica “autenticità” dell’interpretazione, semmai, con il progredire degli studi, è quello di attingere a sempre una maggiore “verosimiglianza” rispetto alle modalità di esecuzioni dei secoli passati. Parallelamente un lavoro di interprete teatrale sul testo può diventare il naturale alleato dell’approccio musicale. Sono due linee rette che procedono in direzione uguale e contraria, la musica guarda al passato, ciò che si offre agli occhi guarda al futuro. E così deve essere. L’atteggiamento di chiusura di molti direttori nei confronti del teatro moderno è per me incomprensibile. Io imparo tantissimo dai registi con cui lavoro; quando collabori con un “interprete” nel senso alto del termine; la mia lettura musicale ne resta profondamente influenzata, così come il suo lavoro subisce una strutturale influenza dalla mia lettura musicale. Il limite, nell’uno come nell’altro caso, è l’arbitrio, anche se è molto più facile risultare arbitrari nell’interpretazione musicale che in quella registica. La storia moderna del teatro ha sconvolto profondamente l’approccio e la struttura del teatro musicale, si tratta di un cammino irreversibile. Interpretare il senso del testo anche senza attenersi letteralmente alle didascalie o all’ambientazione significa far progredire la storia del teatro. Chi pretenderebbe nell’interpretazione di Shakespeare di essere fermi al Globe? Perché pretenderebbe la stessa immobilità nel caso di un’opera di Verdi o Wagner? Quindi il mio motto è non cedere al gusto del pubblico più facile, né in musica né nella messa in scena. Piuttosto sfidare il pubblico, metterlo alla prova, scardinare una certa prevedibilità che rende l’opera lirica un evento museale.
Come le dicevo nella prima parte dell’intervista, nei miei anni di studio ho frequentato molto il Piccolo teatro di Milano dove ho formato il mio gusto per il teatro con alcuni grandi nomi come Nekrosius, Dodin, Mnouchkine, Wilson, Stein, Brook - solo per citarne alcuni - e ovviamente i “nostri” Strehler e Ronconi. Quando viaggio per lavoro cerco sempre di frequentare i teatri di prosa delle grandi capitali, come la Comédie Française o il Berliner Ensemble. Io ho avuto la fortuna, da quando dirigo l’opera, di lavorare solo con grandi registi, è un aspetto positivo della mia carriera molto atipica. Sono arrivato all'opera da musicista maturo, e grazie all’”effetto Bartoli” non ho fatto molta gavetta nei teatri piccoli. Devo dire che molto raramente mi è capitato di lavorare con registi che non conoscevano quello che stavano facendo. Ovviamente il regista deve conoscere la musica, che rimane la base prima e ultima del suo lavoro in scena. I teatri dovrebbero essere sempre dei laboratori di creatività. Quando un direttore artistico si appiattisce sui gusti medi del pubblico viene meno la missione di noi tutti. Si deve rischiare a costo di sbagliare. Non farò i nomi, ma quando alla prima prova il regista conosce a memoria il libretto parola per parola, quando anche proponesse una “metalettura” dell’opera ma coerente con i contenuti musicali, ecco in questo caso ottiene da me solo ammirazione. Il musicista (il direttore ma anche i cantanti) ha la possibilità di crescere enormemente in queste situazioni.
Gerard Mortier diceva che ormai l’opera era un genere morto e che solo la regia lo sosteneva perché era una creazione che lo faceva sopravvivere.
In un certo senso è così ma io sono dell'idea che anche il direttore crea. Il regista lavora con i concetti (beato lui); noi lavoriamo con segni muti scritti su un foglio, segni che riportiamo in vita. L’opera lirica è un miracolo che vive in questo rapporto.
C’è un regista con cui Lei vorrebbe lavorare?
Ci sono molti registi con cui mi piacerebbe collaborare, uno su tutti Barrie Kosky. So che Cecilia, che condivide con me questa ammirazione, lo vorrebbe per qualche progetto comune futuro. Ho visto tante cose sue e mi sono piaciute tutte. È un regista molto eclettico con un senso meraviglioso del teatro e della meraviglia teatrale. Il suo Macbeth a Zurigo con Currentzis è stato per me una rivelazione. Poi Kosky fa in modo unico l’operetta… Ah, sì. Come si può ritenere l’operetta un genere secondario? Incredibile che alcuni ancora pensino questo. Sono un appassionato cultore di Offenbach, un gigante del teatro musicale che prima o poi mi capiterà di dirigere.
Ce ne sono altri?

Negli anni scorsi volevo conoscere Carsen che ho sempre ammirato; quest’anno ho lavorato con lui, è stata un’esperienza profonda. L’Orfeo ed Euridice a Roma ((Marzo 2019)) è stato a detta di tutti un grande spettacolo. Niente in scena, una distesa di sabbia; solo la musica e la recitazione divinamente plasmata sulla musica. Questo è grande teatro, quello che scava in profondità. L'anno prossimo lavoriamo ancora insieme ne Il Trionfo del Tempo e del Disinganno di Haendel che sarà in scena al Festival di Pentecoste di Salisburgo; sono contento di incontrarlo di nuovo. Purtroppo la sua Agrippina prevista in ottobre 2020 - che avrebbe anche segnato il mio debutto scaligero - è saltata causa covid.
Ci sono vari registi con cui amo lavorare sicuramente il duo Moshe Leiser e Patrice Caurier a cui devo molto, poi Christof Loy: è stata una bella collaborazione l’Ariodante a Salisburgo ((Nel 2017)) poi ripreso a Monte Carlo ((Nel 2019)); mi piace anche molto la sua Alcina di Zurigo, sempre con Cecilia, ma che non ho diretto io ((Prod. 2014, Ved. (in francesce) https://blogduwanderer.com/opernhaus-zurich-2013-2014-alcina-de-georg-friedrich-haendel-le-7-fevrier-2014-dir-mus-giovanni-antonini-ms-en-scene-christof-loy-avec-cecilia-bartoli))
Ha lavorato con Michieletto?

Si, con Damiano Michieletto ho lavorato più volte. Mi piace il suo lato scapigliato, non dico provocatorio perché non è mai veramente provocatorio ma, per esempio ho diretto una ripresa del suo Elisir d’Amore “della spiaggia” a Madrid, che è stato odiato dalla critica spagnola sia per la regia che per la mia direzione (risate). Anzi, credo molto più odiato per la direzione che per la regia (risate di nuovo). E’ divertente vedere come una stessa produzione possa suscitare reazioni completamente diverse ((NdR: La produzione gira con successo da anni in Italia)). Da un punto di vista estetico trovo estremamente interessante il lavoro svolto da Damiano sul Belcanto, e su un titolo così famoso come Elisir di cui scardina tutti i luoghi comuni; io ho compiuto esattamente la stessa operazione in orchestra con gli ottimi elementi del Teatro Real (mi lasci citare anche l’ottimo coro) che hanno assecondato in tutto la mia visione dell’opera (intendiamoci: assolutamente rispettosa della partitura!). Si tratta di un bell’esempio di quello che dicevo prima: un riuscito matrimonio tra filologia musicale e avanguardia teatrale.
Anche Bieito è un regista molto stimolante. Troppi sarebbero i registi da citare. Ecco, un limite è forse rappresentato dal fatto che a volte i grandi registi lavorano troppo per mantenere un alto livello di originalità e riflessione. Dietro una regia c’è un lavoro pazzesco e non credo si possano fare dieci regie all’anno (lo stesso discorso vale per i direttori d’orchestra!)
Tobias Kratzer?
Anche lui è uno dei grandi talenti emergenti. Ho visto il suo Götterdämmerung a Karlsruhe, c’erano tante idee, molto interessanti. Ho anche sentito parlare del suo Guillaume Tell a Lione et del suo ultimo Tannhäuser a Bayreuth, che mi riprometto di vedere. Quando un regista stimola l’intelligenza dello spettatore ha il mio plauso incondizionato.
Ecco credo che abbiamo fatto per ora un bel giro della questione. Un’ultima domanda: nella situazione attuale, sa gli spettacoli o i concerti che andranno in scena, quelli che sono in forse, quelli già da oggi cancellati? Come gli artisti se la cavano in Italia?
La situazione, dopo quasi un anno di pandemia, è molto grave e pesante. Gli artisti sono in seria difficoltà in Italia e nel resto del mondo. Personalmente ho perso importanti debutti come alla Scala di Milano o a Glyndebourne; anche il mio debutto alla Staatsoper di Vienna è in forse. Quello che trovo particolarmente discutibile è che non ci sia stato un approccio europeo comune in campo culturale. In Spagna i teatri sono sempre rimasti aperti al pubblico. Solo qualche settimana fa ho diretto i Musiciens du Prince a Montecarlo con il pubblico in sala ((Ved. Sotto il link verso la nostra recensione)). Per quanto si sappia, nessun infetto fra i musicisti, nessun infetto nel pubblico. È una decisione francamente incomprensibile quella di chiudere per primi i teatri e di riaprirli per ultimi. Se c’è un’Europa comune della cultura, se non è solo uno slogan sulla bocca di politici che non hanno mai messo piede in un teatro, ebbene questo è il momento che alzi la voce e si faccia sentire in tutto il mondo!
© Monika Rittershaus (Iphigénie en Tauride)
© Hans Jörg Michel (Norma)
© Fabrizio Sansoni (Orfeo ed Euridice)
© Teatro Real(Sito) (L'Elisir d'amore)