21 settembre 2021
Teatro alle Tese (Arsenale), ore 18.00 

NEUE VOCALSOLISTEN STUTTGART
SWR VOKALENSEMBLE diretto da Yuval Weinberg

George Aperghis (1945) Wölfli-Kantata per ensemble vocale e coro

Basilica di San Marco, ore 21.00

CHRISTINA KUBISCH : Il viaggio della voce (Travelling voices) per voci registrate e diffuse
prima es. ass. – commissione La Biennale di Venezia

A. Willaert.: Ave Dulcissime
C. Monteverdi : Longe a Te
A. Willaert : O magnum mysterium
G. Zarlino : Virgo prudentissima
A. Gabrieli : Maria stabat ad monumentum
G. Gabrieli : Inclina Domine
C. Merulo : Cumque beatissimus
C. Monteverdi O gloriose martyr

Cappella Marciana diretta da Marco Gemmani

22 settembre 2021
Teatro Piccolo Arsenale, ore 17.00

Jennifer Walshe : A folk songs collection
Peter Ablinger. Studien nach der Natur
Claude Vivier : Love songs

Evo Ensemble

23 settembre 2021
Arsenale e Teatro alle Tese, ore 18.00

Marta Gentilucci : Moving still per quattro voci recitanti e ensemble vocale, su testi di Elisa Biagini, Evie Shockley, Irène Gayraud, Shara McCallum
prima es. ass. – commissione La Biennale di Venezia

Sequenza 9.3 e Allievi della classe di canto del Conservatorio di Venezia
Direttore Catherine Simonpietri
Regista Antonello Pocetti
Costumi Maria Grazia Chiuri

Basilica di San Marco, ore 21.00

Valentin Silvestrov : Canti liturgici per coro misto a cappella

Cappella Marciana diretta da Marco Gemmani

 

Biennale Musica di Venezia, 21, 22, 23 settembre, luoghi e orari vari

È stata la prima edizione della Biennale Musica diretta dalla prima donna chiamata a ricoprire l’incarico di direttrice artistica dal 1930 ad oggi. Effettivamente l’impronta (assolutamente positiva) della nuova direttrice, Lucia Ronchetti, si fa sentire. Ma non perché per la prima volta il Leone d’oro per la musica è stato assegnato a una donna, la compositrice finlandese Kaija Saariaho, né per la forte presenza di compositrici nel programma, bensì per il tema scelto per il festival di quest’anno “Choruses, drammaturgie vocali”.

Proprio ai cori, ai gruppi vocali e in generale alla voce la Ronchetti ha dedicato gran parte della sua attività di compositrice, già a partire dai suoi esordi, e questo suo interesse è andato crescendo con gli anni, fino a diventare pressoché esclusivo negli ultimi due decenni. Ma sia chiaro che la cinquantottenne compositrice romana non ha assolutamente messo se stessa e la sua musica al centro del programma, anzi di lei non si è ascoltata una sola nota. Né è andata a cercare compositori che in qualche modo fossero vicini a lei, al contrario ha accolto ecumenicamente i più diversi modi di utilizzare la voce. I compositori di avanguardia degli scorsi decenni – con alcune importanti eccezioni, come Berio, Nono, Maderna e Bussotti, non per caso italiani – avevano trascurato la voce, considerandola uno “strumento” desueto e di limitate possibilità. Invece la Ronchetti è convinta che il più antico degli strumenti musicali usati dall’uomo abbia potenzialità inesauribili e anche una duttilità superiore ad ogni altro strumento. Però i compositori devono essere in grado di utilizzare al meglio le sue specificità. E i cantanti a loro volta devono essere in grado di eseguire queste nuove composizioni con una preparazione musicale e tecnica certamente diversa da quella del tipico cantante, che si preparava e ancora oggi si prepara soprattutto ad eseguire l’opera tradizionale, e più di ogni altra cosa aspira a diventare un solista, una star. Invece la voce – come ci ha insegnato questa Biennale –  rivela al meglio tutte le sue possibilità quand’è riunita in un gruppo e proprio questa direzione era indicata dall’assegnazione del Leone d’argento di quest’anno a un gruppo vocale precursore e di straordinarie capacità come Neue Vocalsolisten di Stoccarda.

Ma la voce è anche qualcosa di più di uno strumento, perché nasce spontaneamente come il veicolo d’espressione più immediato e più diretto dell’essere umano, perciò una voce o un gruppo di voci evoca inevitabilmente emozioni umane, crea una drammaturgia, ha una componente teatrale, che per manifestarsi non ha bisogno di azione, scene e costumi né di una trama narrativa.

Wölfli-Kantata di Georges Aperghis

Tra le composizioni ascoltate in tre giorni di permanenza a Venezia, quella che ha meglio rappresentato le nuove potenzialità della voce umana è stata Wölfli-Kantata di Georges Aperghis, un brano del 2005 per un gruppo vocale di sei voci e un coro misto di trentasei voci a parti reali, che richiede interpreti di eccezionale bravura, quali sono i Neue Vocalsolisten e lo SWR Vokalensemble, per cui il brano fu scritto e che lo hanno ora eseguito in prima italiana. Si tratta di una composizione di ampie proporzioni, della durata di circa settanta minuti, divisa in cinque movimenti, i primi quattro alternativamente per l’ensemble vocale a sei voci e per il coro misto, il quinto per i due gruppi riuniti. La si potrebbe anche definire una “sinfonia per orchestra di voci”, per la complessità della scrittura e per la grande varietà di colori che Aperghis riesce a trarre dai due gruppi vocali. I testi sono dello svizzero Adolf Wölfli (1864–1930), che ebbe un’infanzia terribile, divenne un uomo violento dalla mente stravolta e trascorse tutta la vita in manicomio ; solo vent’anni dopo la sua morte la sua produzione pittorica e poetica fu scoperta da Jean Dubuffet, che lo arruolò tra gli esponenti dell’art brut. Purtroppo il programma di sala non riportava i testi di Wölfli, perché sarebbe stato interessante leggerli, ma d’altra parte forse non era indispensabile conoscerli, poiché si ha l’impressione che Aperghis mantenga una grande libertà nei confronti delle parole. In ogni modo qualcosa della pazzia di Wölfli si travasa in questa cantata – che richiede all’ascoltatore grande attenzione e impegno per essere compresa e apprezzata – particolarmente nella rielaborazione ossessiva di singole cellule musicali, nella cura maniacale dei dettagli e in una struttura talmente intricata da apparire folle ma in realtà attentamente calcolata, tanto che vi si può cogliere una specie di “follia organizzata e completa”: citare le parole usate da Stendhal per L’Italiana in Algeri di Rossini è un po’ azzardato, ma non troppo, anche perché si colgono in questo brano momenti di ironia e di divertimento. Ma l’aspetto veramente interessante è la novità e la ricchezza di intrecci, colori, suoni che Aperghis riesce a ricavare dalle voci.

Liturgia di San Giovanni Crisostomo di Valentin Silvestrov

All’opposto non hanno nulla di nuovo ma si ricollegano a una tradizione antichissima i canti per coro misto a cappella sui testi della divina liturgia di san Giovanni Crisostomo di Valentin Silvestrov, composti da Valentin Silvestrov quasi negli stessi giorni (era il 2005) in cui Aperghis componeva la Wölfli-Kantata. non sono troppo diversi da quelli della tradizione ortodossa. Si fatica a trovarvi qualche esile traccia dell’epoca in cui furono composti ed è impossibile riconoscere la mano di un compositore che negli anni precedenti aveva fatto parte dell’avanguardia. Ma non è necessariamente un limite, perché questi cori indicano una delle infinite possibilità che la voce umana offre ai compositori e che trovano la loro collocazione ideale in un determinato contesto : in questo caso un rito nella mistica penombra di una chiesa ortodossa. Infatti nello scrigno dorato della basilica di San Marco i cori di Silvestrov esercitavano sull’ascoltatore un fascino e una suggestione innegabili.

Il viaggio della voce di Christina Kubisch

In quello stesso ambiente meraviglioso non otteneva la stessa risonanza emotiva Il viaggio della voce di Christina Kubisch, in prima esecuzione assoluta, su cui il festival aveva puntato molto. La sound artist tedesca ha prima registrato a Venezia una serie di brani corali di compositori attivi a San Marco nei secoli sedicesimo e diciassettesimo (Willaert, Zarlino, Merulo, Andrea Gabrieli, Giovanni Gabrieli e Monteverdi), poi questi brani sono stati nuovamente registrati fuori Venezia, modificati, messi insieme in nuove costellazioni e infine ritrasmessi da una serie di altoparlanti distribuiti nella basilica, in alternanza all’intonazione da parte dalla Cappella Marciana diretta da Marco Gemmani delle polifonie originali da cui la sound artist ha preso spunto.

L’interesse di questo sofisticato e complesso progetto sarebbe dovuto stare nel dialogo che si instaurava tra antico e moderno o, in altre parole, in quel che l’autrice moderna avrebbe saputo ricavare delle musiche antiche con la rielaborazione elettronica. Ma questo dialogo non è sbocciato, anzi si ha l’impressione che non sia stato nemmeno tentato dalla Kubisch. Si direbbe che quelle antiche musiche le fossero completamente estranee e che non nutrisse per loro alcun interesse : è significativo che nelle sue note di presentazione abbia scambiato Merulo per Merula, anche se bisogna concederle il beneficio del dubbio che si sia trattato di un lapsus. Soltanto molto sporadicamente arrivava dagli altoparlanti qualche frammento delle antiche composizioni trasformato in qualcosa di nuovo. Ma durante la maggior parte dei circa venticinque minuti de Il viaggio della voce non c’era quasi traccia d’un dialogo tra antico e moderno. In definitiva il lavoro della Kubish risultava grigio e banale. L’unico brano che raggiungeva un certo effetto – ma un effetto fin troppo facile – era qualche minuto di scampanio in crescendo, all’inizio piuttosto suggestivo ma portato avanti troppo a lungo.

Moving still di Marta Gentilucci

Ha avuto un esito decisamente migliore un’altra commissione della Biennale, Moving still di Marta Gentilucci. Risultava però superfluo il prologo (privo di musica) consistente in un percorso processionale per le vie dell’Arsenale veneziano, che avrebbe dovuto riprendere, nelle intenzioni, “la tradizione italiana corale processionale quale momento di comunicazione tra un insieme di artisti e il pubblico casuale in movimento nella città”. L’idea poteva essere interessante, ma il risultato è stato deludente. All’opposto della partecipazione popolare ad una processione, questo corteo risultava infatti molto artefatto e formale, poiché il coro procedeva muto e inquadrato come in una sfilata militare, ma con divise – mantello, abito da sera e scarpe – firmate dalla maison Dior. E il pubblico non poteva muoversi liberamente ma era controllato e guidato dagli addetti. Risultavano troppo lunghe le soste in punti prefissati del percorso per ascoltare i testi di quattro poetesse recitati da loro stesse, di cui sia afferravano solo alcune parole, un po’ per la distanza e un po’ per l’inevitabile scalpiccio di tante persone assembrate. L’effetto era ben diverso quando, finita la processione, si entrava in un’ampia sala quadrata, con il pubblico al centro e il coro disposto lungo i quattro lati, ed iniziava il brano composto dalla Gentilucci sui testi che le quattro poetesse – Elisa Biagini, Evie Shockley, Irène Gayraud e Shara McCallum – avevano precedentemente letto. Anche qui, come in San Marco, la suggestione del luogo dava un’importante contributo, ma indubbiamente la musica era affascinante in se stessa, per il trattamento del testo, per l’accorta utilizzazione dei quattro gruppi corali, per lo sfruttamento delle risonanze e della possibilità di spazializzazione del suono offerte dalla sala. L’esecuzione, diretta da Catherine Simonpietri, era affidata alle voci dell’ensemble francese Sequenza 9.3 e degli allievi di canto del Conservatorio veneziano.

EVO Ensemble

La Biennale ha anche una sezione dedicata alla formazione, Biennale College, che si rivolge agli interpreti, tra cui l’EVO Ensemble, che ha avuto un tutor formidabile in Andreas Fischer dei Neue Vocalsolisten. È un gruppo di sei voci – cinque italiani e un brasiliano – che ha già raggiunto un ottimo livello e viene a colmare almeno parzialmente la carenza in Italia di simili gruppi, indispensabili per eseguire la musica vocale contemporanea. Nel loro concerto hanno eseguito per la prima volta in Italia il ciclo completo di A folk songs collection (2011) della compositrice, vocalist e performer irlandese Jennifer Walshe. Sono cinquantasette brani brevi e brevissimi (la durata complessiva è di circa venti minuti) che non hanno nulla di folcloristico nel senso tradizionale ma sono trascrizioni di frammenti di conversazione di gente comune (il folk appunto) che la Walshe ha rivestito di una musica che riprende in modo personale vari generi di musica, come ballad, canti dei tifosi negli stadi e quant’altro. Ma alcuni song sono interamente nati dalla fantasia dell’autrice, come quello che imita il ticchettio dei metronomi e quell’altro in cui i cantanti aprono e chiudono la bocca come pesci nell’acquario senza che esca altro suono – i pesci sono muti ! – che quello appena percepibile emesso delle labbra. Un altro song, il più lungo, è una piccola scena teatrale, in cui assistiamo al litigio di una coppia, con contorno di altri personaggi. È inesauribile l’originalità e la varietà delle idee della Walshe nell’uso della voce. Ha ragione quando afferma : “Non ho una voce, ne ho molte” e anche “la mia voce è un palcoscenico”, perché questi song sono spesso dei frammenti di teatro inscenato solamente con la voce.

Dunque si sono ascoltate composizioni più o meno riuscite, più o meno originali, più o meno interessanti, ma tutte concorrevano a fare il punto sulla voce nella musica contemporanea e su quale grande risorsa possa essere per i compositori che sappiano sfruttarne le enormi e fino a ieri impensate possibilità.

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Mauro Mariani
Mauro Mariani ha scritto per periodici musicali italiani, spagnoli, francesi e tedeschi. Collabora con testi e conferenze con importanti teatri e orchestre, come Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Real di Madrid. Nel 1984 ha pubblicato un volume su Verdi. Fino al 2016 ha insegnato Storia della Musica, Estetica Musicale e Storia e Metodi della Critica Musicale presso il Conservatorio "Santa Cecilia" di Roma.
Crediti foto : © Andrea Avezzù

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