Il poeta latino Ovidio scrisse una raccolta di lettere immaginarie, le Heroidum Epistulae appunto, tra il 25 e il 16 avanti Cristo, che furono pubblicate a blocchi tra il 5 a.C. e l’8 d.C. È un insieme di ventuno testi, in maggior parte aventi a soggetto le invocazioni e i lamenti di donne dolenti, o abbandonate, o non corrisposte, rivolti agli uomini amati o desiderati. Sono donne celebri della mitologia greca, già allora consacrate dalla letteratura come eroine. Ecco quindi Penelope che scrive a Ulisse, Deianira a Ercole, Briseide ad Achille, e così via. L’originalità dell’opera di Ovidio, che così introduce una nuova dimensione letteraria, deriva dall’intreccio fra mito ed elegia. I testi sono organizzati in distici elegiaci, cioè in successive coppie di versi, un esametro e un pentametro dattilici. Il materiale è attinto al serbatoio del mito e dell’epica, ma il trattamento formale si rifà appunto alla poesia elegiaca. L’affresco mitologico è cioè sottoposto al filtro dell’elegia e del suo repertorio di formule, tra i quali anche lo schema epistolare. Assumendo quindi una funzione che è tipica dell’elegia, queste lettere sono un modello di poesia del lamento. Le protagoniste soffrono per motivi diversi : lontananza, abbandono, tradimento, passione proibita. Sotto questa nuova luce formale, quindi, le eroine del mito si esprimono mediante criteri e consuetudini che in parte ne modificano gli atteggiamenti originarî dell’immagine mitologica.
Silvia Colasanti ha scelto le lettere di Arianna a Teseo, di Fedra al figliastro Ippolito, e di Didone a Enea. E focalizza l’attenzione proprio su questi nuovi atteggiamenti cui si è accennato. Cioè sull’interrelazione inedita che Ovidio introduce tra le figure maschili, qui sullo sfondo quali sbiaditi burattini del fato, e quelle femminili, autentiche eroine delle rispettive avventure sentimentali. È una dimensione dalla quale i profili femminili riemergono con sorprendente modernità : un’angolazione capovolta, rispetto alla tradizione del mito. La musica di Silvia Colasanti, sollecitata da questo palpitante panorama dell’universo femminile, avvolge espressivamente ciascuna lettera, ciascuna vicenda, di un’atmosfera sua propria. E maneggia egregiamente – coniugando la sua solida stoffa professionale con la vibrante sensibilità creativa – la nutrita orchestra (comprensiva di arpa e di due set di percussioni), le diciotto voci del coro femminile, la voce recitante.
Per ogni personaggio, la musica più opportuna. Ogni passione ha i proprî suoni, la propria voce. In apertura crotali, arpa, armonici degli archi per trasmettere la fragilità di Arianna – che si ritrova sola su uno scoglio dell’isola di Nasso – e le sue toccanti invocazioni. Ed è il suono del mare, sottolineato dall’ocean drum, che accompagna la fanciulla fino ad avvolgere lei e il suo messaggio, insieme al coro anch’esso inghiottito dai flutti. Molto diversa l’atmosfera del secondo episodio, che vede Fedra scrivere al figliastro Ippolito nell’intento di conquistarlo al suo impeto incestuoso. Elegante il testo di Ovidio, finissime le argomentazioni di Fedra. Va rimarcata la sensibilità del poeta latino, che con parole sublimi dipinge le ragioni appassionate della donna, portando avanti una nuova, evoluta moralità. Non incombe quindi alcun’ombra di stigma, di condanna aprioristica dell’incesto, bensì una moderna, articolata argomentazione dei diritti dell’amore, che ridimensiona decisamente il biasimo sociale. Straordinario, calzante quanto mai l’intuito compositivo di Colasanti. Il coro qui tace, e la partitura è attraversata dal lampo tagliente di colori acuminati, di sonorità laceranti, di accenti graffianti. Una pagina di spiccato sapore espressionista. E infine, com’è diversa da quella virgiliana la Didone di Ovidio ! Qui la disperazione della donna non è infiammata dall’ira, non invoca vendetta. L’esecrazione è sottintesa, il giudizio è lucidamente argomentato, e trasmette compatimento, quasi comprensione, per la debolezza e la vile fuga di Enea. E la musica, che introduce dando spazio a marimba arpa e fiati, procede tra fremiti e slanci su un cupo sottofondo di percussioni, fino a spegnersi su un sordo rullo di grancassa, con il coro che non intona più, ma declama quasi un epitaffio conclusivo.
Successo caloroso e meritato di Silvia Colasanti, fantasiosa autrice di una musica emozionante e incisiva. Musica che inoltre è stata valorizzata e illuminata a pieno dall’intelligente, calligrafica concertazione di Roberto Abbado, e dall’encomiabile prova di orchestra e coro. Brava l’attrice Isabella Ferrari, che si è compenetrata con partecipe accento interpretativo nel testo e nella musica, anche se la percezione del pubblico non è stata aiutata dalla sua declamazione, insoddisfacente, e dall’assenza di sopratitoli, riservati soltanto al coro.