Carlo : Quando io leggo in Plutarco, ho noia, ho schifo
di questa età d'imbelli!… […]
Coro : Una banda, una banda ; eroi di strada…
Col pugnale ~ e col bicchier
nessun vale ~ il masnadier !
Carlo : Son gli ebbri, inverecondi
miei compagni d'errore!…
Quanto, o padre, mi tarda il tuo perdono
onde por questi abbietti in abbandono !
(I masnadieri di Andrea Maffei, atto primo, scena prima)
I versi non saranno paragonabili a quelli di Felice Romani o Salvatore Cammarano, tanto per citare due fra i più raffinati librettisti ottocenteschi, ma con poche righe di recitativo Andrea Maffei sintetizzò un blocco tematico attorno al quale ruota l’undicesima opera di Giuseppe Verdi tratta dal dramma di Die Räuber di Friedrich Schiller. Scontro generazionale tra padri e figli sul piano privato, e scontro tra ordine e ribellione sociale sul piano pubblico.
Si intreccia, come quasi sempre nell’opera lirica, la storia delle passioni sentimentali : “E’ una vera, morbida e dannata palude interparentale : il padre ama-odia il figlio ribelle (ma sincero e affezionato : come la Cordelia del Lear) ed è odiato e tradito (sepolto vivo) dall’altro figlio che si tiene in casa, che odia il fratello e ama la donna del fratello, che a sua volta ama, quasi maternamente, il quasi suocero e padre.”((Impareggiabile questa sintesi della vicenda, tratta da “Verdi, L’immaginario dell’Ottocento”, Marzio Pieri, Milano, 1981 pag. 87))
Scritta per il suo debutto all’Her Majesty’s Theatre nel 1847, dopo le usuali traversie legate alla possibilità di avere determinati interpreti e costellata dalle lamentele sul clima atmosferico londinese che finirono per diventare il tema principale e cui l’Autore dedicò maggiore attenzione nella corrispondenza legata all’evento, I masnadieri è opera eterogenea, che perde rispetto alle precedenti per coesione drammatica e visione d’assieme. E’, tuttavia, teatralmente più efficace di diverse consorelle che sono magari maggiormente rappresentate ma che non possono vantare altrettanta sequenza di pagine brevi ma spettacolari e così dotate di concretezza ed immediatezza della vicenda narrata.
Un’opera non corale alla maniera di Nabucco e Lombardi a dispetto della massiccia presenza del coro, che è solo cornice e non diventa mai, evidentemente, espressione di sentimenti popolari in cui identificarsi. Alla fine, i momenti di trivialità del libretto finiscono per ricreare un’atmosfera che magari non sarà tanto Sturm und Drang come da antologie scolastiche ma per lo meno rende credibile l’immersione in un simil horror degno di gotico da Val Padana.
Abbiamo così apprezzato l’intelligente spettacolo originariamente allestito dal Teatro Regio di Parma e meritevolmente riproposto in questa occasione per la efficace regia di Leo Muscato, con i bei costumi ideati da Silvia Aymonino per personaggi che si muovono su scene costituite da pochi oggetti (alberi, croci, sedie, casse di legno, un letto, candelabri) disposti su una semplice pedana di grezze assi in legno elegantemente e credibilmente creata da Federica Parolini.
A far da collante all’insieme, la sapienza dell’uso delle luci, a firma di Alessandro Verazzi, le rende indispensabili alla riuscita dell’insieme. Vere protagoniste della parte visiva, ora calde ora surreali, ora infernali, in maniera impagabile abbracciano i protagonisti e illuminano la pedana filtrando tra una tavola di legno e l’altra in una abile sottolineatura degli stati d’animo dei personaggi e della drammaticità dei momenti. Effetto semplice ma gradevolissimo, sopratutto se fatto bene come in questa occasione.
La cura che si percepisce nella scrittura dell’iniziale preludio orchestrale, che vede un pregevole assolo di violoncello messo a disposizione del virtuoso Alfredo Piatti conferma che Verdi, pur non trattandosi di un debutto nell’amata Parigi, non avesse comunque preso l’impegno sottogamba.
Alla testa della locale Orchestra Filarmonica, precisa negli interventi e omogenea nella sonorità, la direzione del Maestro Daniele Callegari è piuttosto monocorde per scelta di tempi e colori e sovente meccanica negli accompagnamenti, in particolar modo nei passi veloci dell’opera. E’, però, attenta nel sostenere i cantanti e apprezzabile nella scelta di riproporre integralmente l’opera senza fastidiosi tagli.
Protagonista indiscusso dello spettacolo è lo splendido Francesco Moor creato da Nicola Alaimo, che tocca il vertice musicale con il sogno che apre il quarto atto dell’opera, dove canto preciso, tecnica sicura, recitazione al calor bianco si fondono per dar vita ad una scena che mette i brividi a tutta la sala. Ma Alaimo centra già il personaggio sin dall’inizio, con un calibratissimo recitativo, con una voce tecnicamente ben emessa in alto ed in basso tanto nella mezzavoce quanto nel canto spiegato, dal timbro chiaro e dalla nitida dizione. L’incedere claudicante, appoggiato ad un bastone, e la macchia che ne sfregia metà del volto sono il contraltare fisico della nefandezza morale del suo personaggio, cui non resterà che pugnalarsi all’arrivo dei masnadieri dopo il duetto con il Pastore.
La giovane palermitana Roberta Mantegna, classe 1988, è Amalia dopo aver già interpretato questo ruolo all’inizio dell’anno sul palcoscenico dell’Opera di Roma, presso il cui “vivaio” si è diplomata nell’ambito del progetto “Fabbrica” Young Artist Program.
Detto della buona presenza scenica, che ne fanno una credibile protagonista, occorre evidenziare come la voce, che nella prima ottava risulta gradevole e sicura, perda spessore e il timbro si inaridisca mano a mano che la voce sale verso l’acuto. Scarse tracce, poi, della grazia e padronanza di quelle agilità che Verdi scrisse avendo a disposizione Jenny Lind ((Jenny Lind (1820–1887) fu un celebre soprano svedese. La sua abilità nell’esecuzione di agilità virtuosistiche le procurò l’appellativo di usignolo svedese. )). Passano così, con correttezza ma senza particolare emozione, l’aria del secondo atto Tu del mio Carlo al seno e, frettolosamente e meccanicamente, il duetto del terzo atto con il ritrovato Carlo.
Al suo debutto nel ruolo, Ramón Vargas ha complessivamente ben figurato facendo leva su di un fraseggio asciutto e preciso nei recitativi, e su una voce corretta e sicura nelle arie. Nel finale terzo, al confronto del padre interpretato con voce morbida e timbro prezioso da Alexeї Tikhomirov, i momenti migliori per il tenore che ha saputo anche nel finale ultimo rendere in maniera credibile (sia scenicamente che vocalmente ) la drammaticità del ruolo.
Importanti, e non semplice routine, gli interventi di Reinaldo Macias, Christophe Berry e Mikhaїl Timochenko alle prese con i ruoli di Arminio, Rolla e Moser, come pure degno di lode il Coro dell’Opera di Monte-Carlo validamente istruito da Stefano Visconti.
Al termine dello spettacolo applausi per tutti gli interpreti, particolare intensi all’indirizzo di Alaimo, Mantegna e Vargas.