È direttore musicale dell'Opera di Roma ed è considerato uno dei punti di riferimento della direzione d’opera in Italia e altrove, in particolare per Verdi e Rossini. Ha appena diretto una serie di rappresentazioni di Norma alla Staatsoper di Vienna dopo anni di assenza dal repertorio nella nuova produzione firmata Cyril Teste, dove ha completamente trasfigurato la musica di Bellini, ottenendo un immenso successo.
Michele Mariotti ci aveva concesso un' intervista nel febbraio 2017 (vedi link sotto) a Monaco di Baviera in occasione della prima in loco della Semiramide di Rossini e otto anni dopo lo ritroviamo a Vienna in occasione di questa Norma la cui ultima produzione scenica risale al 1977 (Caballé, Muti). Lo abbiamo ritrovato poco prima della rappresentazione del 6 marzo, nel suo camerino, dove ci ha ricevuto con la sua consueta cordialità e semplicità per parlare di Bellini e di Norma, dell'evoluzione della carriera e anche di gusti sinfonici e musicali a volte inaspettati.
Innanzitutto volevo complimentarLa per il premio Abbiati ad Ermione a Pesaro: è stata une bella produzione a tutti gli effetti, musicali e scenici e la sua direzione era eccezionale.
Ma parliamo di Norma.
A me stupisce un po' questa moda attuale di Norma. Ce ne sono dappertutto, A Firenze adesso, a Milano fra qualche mese, anche una ripresa a Francoforte e addirittura due produzioni qua a Vienna nello stesso momento, non è disturbante?
Non per me, non nel senso che quando lavoro faccio le mie cose senza guardare ad altro. …ma se non sbaglio, Norma al Theater an der Wien doveva essere qualche anno fa e la produzione venne spostata per il covid. Adesso, è una coincidenza, sì, strana devo dire, però poi ognuno fa il suo lavoro e basta.
Parliamo di questo lavoro alla Staatsoper…
Noi abbiamo fatto una Norma molto belliniana, mi sento di dire, anche nel lavoro con l'orchestra, sugli accenti, la leggerezza, e anche i cambi d'umore, perché Norma non è solo dolcezza, è anche rabbia, nervosismo, non c'è solo questo mare calmo. Lei arriva a pensare di uccidere i figli e ci sono dei punti dove ci sono degli accenti veramente verdiani, però io sono nato con gli insegnamenti un po' del passato che Bellini non può essere né Rossini né Verdi … è lui.
Quindi non ci devono essere esagerazioni da un lato o dall’ altro, se no rischia di perdere la sua unicità, il suo carattere, il suo stile. E, ad esempio, con l'orchestra che, diciamolo chiaro, è fantastica, si è lavorato tanto proprio sul non innamorarsi mai troppo di un particolare, di un momento, perché allora si rischia di perdere il lungo arco, perché non solo le melodie sono lunghe, molto lunghe ma anche la struttura. Io ho scelto di muovere il tempo all'interno, seguendo una motivazione, quando il dialogo diventa la dialettica, diventa più stretta, allora io mi muovo in base a quello che si dice, in base a come si dice, quindi abbiamo fatto veramente un lavoro molto belcantista. Belcantista nel senso in cui l’intendo io.
Dire Rossini-Donizetti-Bellini, no è bel canto. Belcanto per me è una filosofia, è un modo di intendere il lavoro con la voce, è un modo di sostenere la frase, questo è il belcanto, che non vuol dire fare bene le note, ma tenere. Per questo Bellini è molto difficile.
Appunto io ho un po' di difficoltà a collocarlo, a differenza di Donizetti, che viene collocato direttamente con Rossini ai suoi esordi: il giovane Donizetti infatti è completamente rossiniano. Ma Bellini?
Ma anche addirittura Verdi, cioè il legame Rossini-Verdi-Puccini è chiarissimo.
Per questo dicevo che Bellini è difficile perché ha una sua identità e se uno ha paura, io penso, di perdersi anche in questo mare, in questa malinconia fatta con questi arpeggi e magari fa tutto veloce perché ha paura di annoiare, sbaglia. Deve credere, si, credere a questo stile.
Poi magari si deve muovere dopo, perché c'è sempre un punto in cui si deve stare attento a tenere la struttura in piedi. Per esempio, se pensiamo a casta diva: se si vuole farla veloce perché fare tutta d'un fiato è tecnicamente magari più facile, perdiamo tutta la magia...In questo momento ci deve essere questa sospensione, questa magia. Bellini è fatto anche di questa, poi è fatto anche di cose più strette, più veloci, quando Norma diventa una furia.
Il tempo veloce o lento non è una questione di metronomo, è una questione di quello che succede dentro il tempo.
E la relazione col testo?
Importantissima. Questa è la mia quarta Norma, dopo Torino, Bologna e qui a Vienna in forma scenica nonché in forma di concerto due anni fa in Concertgebouw ad Amsterdam. Ogni volta è diversa perché cambiano le voci. Questo repertorio è molto legato ai cantanti che ci sono, le voci, le loro esigenze, il loro fraseggio, questo è il belcanto in generale, però anche con la regia quell’azione detta e urlata, a volte se invece viene detta piano tra i denti è ancora più forte. L'urlo può essere più debole che una pronuncia fatta con la rabbia e questo va in relazione anche a quello che si fa in orchestra; quindi perché magari quel forte diventa piano o viceversa… Oppure il concetto di variazione… Anche in Rossini non amo variare tanto perché sembra che la musica sia debole e abbia bisogno di un nostro aiuto. Si deve variare quel giusto per arricchire e non per stravolgere e soprattutto la frase deve sempre essere riconoscibile.
E allora cosa facciamo con Schubert, lo buttiamo via perché si ripete? Quante volte ripete Schubert? E io da bambino (perché adoro Schubert) dicevo ascoltandolo « oooh », poi crescendo, voglio sempre ascoltarla, ancora e ancora, quant’è bella, quant’è profonda la musica di Schubert…
E com’è andata la relazione con il regista Cyril Teste ?

È in linea con la musica e racconta esattamente la storia cosi com’è.
Poi fare Norma non è semplice, penso, perché veramente le parti vocali sono molto difficili, un cantante non è che possa correre o fare cose stravaganti, ovviamente; però lui, a parte che è una persona squisita, è stato molto fedele alle esigenze musicali e siamo sempre stati d’accordo. Ad esempio il coro guerra, guerra finisce lì, non c'è la coda che è bellissima e che io facevo, però se si fa la coda ci deve essere un motivo.
Quello è forse l'unico momento veramente violento. Allora ci deve essere un motivo per giustificare poi questo addolcimento alla fine. Se non c'è registicamente perché il regista vuole che non ci sia, è inutile farlo, quindi questa è l'unica scelta diciamo forte che ho deciso di fare in relazione alla regia, anche perché poi ci sono due diverse edizioni, però per il resto noi suoniamo tutto.
Cosa pensa di questa sacralizzazione di Norma non suonata da anni nei grandi teatri di riferimento come alla Scala, mai più fatta dal 1977?
Ci ho pensato, ma non ho una risposta perché in Scala ad esempio c’è un altro titolo che manca da tantissimo tempo, I Puritani (NdR : dal 1971…).
Secondo me è più una cosa psicologica, perché Norma, è la Callas… ma insomma siamo anche nel 2025 e ci sono anche ruoli più complicati. Norma è una parte difficilissima, non è l'unico ruolo difficile, perché poi in Norma, tutti pensano a casta diva. Se hai una bella voce e un bel legato casta diva è tutta lì, poi ovviamente è difficile fare la cabaletta, e noi la facciamo due volte ma il senso di Norma non è solo lì, c'è tanto altro. Lei ha l'umanità in pugno, c’è anche tanto di Norma, del suo carattere in altri momenti ad esempio nel duetto con Pollione o anche nel finale primo. Lì sono gli unici echi verdiani. Vuol dire che si deve tirare fuori veramente gli artigli.
Quindi il secondo atto secondo me è ancora più difficile. Poi a tre quarti dell'opera Bellini scrive una cadenza dove devi prendere un do… È difficilissimo.
Sacralizzazione… Io onestamente sono un po' contrario in generale. Allora dobbiamo sacralizzare tutto. Poi ci sono anche le mode. Ci sono opere che magari non si fanno per tantissimi anni e quell'anno le ritroviamo ovunque, mi ricordo che anche tanti anni fa quando io feci il Tell a Pesaro si era fatto poi in Germania, si era fatto a Londra, a Roma, come se all'improvviso, ci fosse il Tell dappertutto! L'anno scorso quando feci il Tell in Scala mancava da Muti, cioè da più di 30 anni. Non so il motivo, onestamente, di questi movimenti.
In Norma si dice spesso che in realtà la voce più chiara è quella di Adalgisa e che quella di Norma ha un colore scuro.
Io lo condivido. Io parto soprattutto da una considerazione drammaturgica e musicale. Adalgisa è una giovane ragazza. Sulle spalle di Adalgisa non pesa la vita, il vissuto di Norma;
Adalgisa è una ragazza che soffre perché ha commesso una colpa, innamorarsi. Nel duetto rimembranze, Adalgisa è disperata. E Norma le dice « a te non lega il sacro noto ». Quindi non piangere, non soffrire, tu puoi innamorarti.
E Norma che non può. Il problema qual è? Che poi Adalgisa si innamora dello stesso uomo. Quindi Adalgisa deve essere una giovane ragazza, non bisogna renderla troppo matura. E poi, considerazione musicale, il duetto le rimembranze è una magia di teatro.
Lei racconta la sua storia d'amore che è la stessa di Norma, quindi loro rivivano esattamente le stesse emozioni e inconsapevolmente perché sono legate allo stesso uomo che ancora non sanno esser lo stesso uomo.
Quindi quando c’è lo stesso timbro vocale più o meno, cioè quando ci sono due soprani c'è questa fusione che con un mezzo e un soprano non c'è. Quasi come se si chiudesse gli occhi e si chiedesse chi sta cantando, chi sta parlando perché entrambe hanno vissuto quelle stesse identiche emozioni…
È bello, è bellissimo. E comunque, Norma è chiaro che ha un accento diverso e questo lo vediamo soprattutto nel finale primo, e nel secondo atto. Quello sì.
C'è la Lombardi che è soprano e la Berzhanskaya…

Ma la Berzhanskaya ormai lei si è già spostata da soprano, infatti per lei non abbassiamo i duetti, li facciamo tutto in tono, non tocchiamo nulla dell'originale, però sentirà, lei si sta molto portando ormai su, infatti non ha difficoltà a cantare i do.
Anche lo stesso per Flórez. Noi siamo abituati ad avere un accento diverso per Pollione.
Pollione non è un personaggio tanto interessante in se.
Come direttore Lei è considerato spesso come un rossiniano…
In realtà ho diretto molto più, ma molto più Verdi di Rossini, più del doppio. Mentre di Rossini ho diretto tante volte magari la stessa opera…
Chiaramente mi fa piacere perché vuol dire che è riconosciuto che lo faccio bene, quello sì, però non amo tanto le etichette, anche perché, ripeto, penso che sia legato al fatto che sia pesarese, perché ripeto il Verdi che ho diretto sovrasta di gran lunga il Rossini.
Quello che mi sembra chiaro comunque è che ogni volta che tocca Rossini è un trionfo (ad esempio Ermione la scorsa estate), poi ha fatto anche un giovane Verdi bellissimo e il suo repertorio si allarga. Ma c’è difficoltà per un direttore italiano ad uscire dal repertorio italiano?

Devo dire che sono importanti questi anni a Roma, in cui sto allargando il repertorio, ho fatto Dialogues des Carmélites di Poulenc, Il Castello di Barbablù di Bartók e adesso farò Il Prigioniero di Dallapiccola, c’è anche stato Peter Grimes di Britten e L'Heure Espagnole, tutte cose molto belle e interessanti.
Certo ci sono repertori che io ho amato fare. Io non so se c'è un pregiudizio… Anche perché le cose che mi vengono propose non sono sempre possibili: a volte non si può, a volte non ci sono i periodi… Però onestamente sono contro le barriere, vorrebbe dire allora che nessun italiano sarebbe degno di dirigere Ciaikovskij ? Anche se secondo me è chiaro che c'è un discorso di cultura, c'è un discorso di conoscenza, di familiarità con un repertorio.
Come dicevo prima, se si dirige Norma (o Bellini) tutto veloce per paura di non annoiare, si ottiene l'effetto contrario, si disturba, si va contro uno stile, un modo musicale. E come se io dicessi « Giotto, non mi piace, è tutto piatto » … È quello lo stile di quel periodo, di quella dimensione no?
E allo stesso tempo penso che, e lo dico sempre, una partitura è come un abito, finché tu non lo provi, non puoi dire se ti sta bene o no.

Allora, la domanda è semplice: quale abito ha voglia di provare?
Nell'opera, quelli che sto provando ? adesso farò Lohengrin a Roma, faccio quest’estate West Side Story a Caracalla, e questi anni sto facendo tanto repertorio del novecento e mi piace molto, per ultimo Peter Grimes, così come adoro l'ultimo Verdi, l'ho fatto tutto, ho fatto Simon Boccanegra, Otello, Falstaff, adesso rifarò Falstaff, ho fatto due volte Otello, tre volte Simon Boccanegra, è il repertorio che sento più mio, adoro tutto Verdi, ma tanto Puccini anche: Tosca poco fa (NdR lo scorso gennaio 2025) è stato un momento fortissimo, per me che non l'avevo mai diretta. Puccini è veramente un genio.
Farà dunque Lohengrin. Quasi tutti i direttori italiani cominciano Wagner con Lohengrin.
Sì, o L'Olandese volante o Lohengrin…
Abbado aveva cominciato Wagner con Lohengrin, e Muti ha cominciato con l'Olandese.
Perché secondo me c'è una logica di percorso.
E c'è un'opera Wagneriana che vorrebbe dirigere, che sarebbe, direi, dentro nel cassetto
Faccio fatica a pensarci…
Se si pensa una, poi si dice perché una e l'altra no. Però Tristan ...
Intanto pensiamo al Lohengrin !
Anche se nel sinfonico farò Wagner, anche, quindi... E farò anche Strauss, sono autori essenziali... e io in questo periodo, sto facendo tanto sinfonico
Quali compositori?
Veramente, non posso dirne uno, perché come dire Beethoven piuttosto che Schumann, piuttosto che Brahms, piuttosto che Mozart...
Poco fa ha parlato di Schubert...
Sì, l'ho diretto tanto. Schubert, i Romantici, Mendelssohn, Brahms, anche negli anni di Bologna ne ho fatto tanti.
Adesso è un periodo in cui faccio Mahler, perché poi la connessione è strettissima tra Schubert e Mahler, anche Brahms. Ma adesso con la maturità rivedo in maniera diversa anche Beethoven. Adesso in Scala faccio Brahms e Schumann, a Lugano faccio Mendelssohn e Saint-Saëns. L'anno scorso feci quinta di Mahler e tornerò a fare quarta di Mahler a Bolzano e Stuttgart… Faccio anche Dvořák.
Poi, nella scelta di un programma si deve anche stare attento perché non si può sempre fare quello che si vuole: l’orchestra ha forse già suonato poco prima un compositore, oppure per questioni di equilibri di una stagione si deve cambiare…
Però nel sinfonico sto veramente spaziando tanto e ne sono felice. Adesso che lavoro in Germania le orchestre tedesche mi rinvitano e questo per me è stato bello e da soddisfazione.
La Sua posizione a Roma Le permette di fare il sinfonico con l'orchestra?
Si lo facciamo, e il repertorio sinfonico fa benissimo all’orchestra, certo, e serve tanto. Si deve uscire dal guscio della buca, anche perché quando poi si sale su non dico che è un altro lavoro, ma è un'altra cosa, è un'altra dimensione. Nella buca con l'opera è una “comfort zone”, poi quando sei su è tutta un'altra cosa, sei più scoperto, è un repertorio diverso, si allargano le conoscenze. Dico sempre che l'opera aiuta il sinfonico e il sinfonico aiuta poi l'opera.
Si devono abbracciare i due mondi, non si può fare solo o l'uno o l'altro.
Non ha un'orchestra fissa?
No, ma ci sono orchestre con cui collaboro da tanti anni, Köln (Colonia) la Haydn, adesso ritorno a Lugano, con la Filarmonica della Scala e l’Orchestra della Scala ho tanti progetti, adesso vado anche al Maggio e ci tornerò. Sono orchestre con cui collaboro tanto.
Ma certo che mi attirerebbe molto avere un’orchestra mia.
Però queste orchestre con cui ormai c'è conoscenza: posso lavorare e comunque fare le mie scelte essendo libero di lavorare come voglio. Questo è bello. Ma devo dire che anche in Germania appunto per un italiano ho sempre trovato una grande disponibilità. Ad esempio anche qui i Wiener sono una grandissima orchestra però per loro magari è più facile suonare Strauss che suonare Norma quindi c'è stato anche un lavoro molto bello con loro. E le cose le fanno bene. È un lavorare insieme, io che ho la fortuna qui di fare nuove produzioni, vuol dire che ho tanto tempo di prova, quindi magari se c’è un accento può essere più morbido o come un punto, ci sono diversi modi di accentuare ed è un linguaggio tutto da decifrare. E sono talmente bravi che poi lo fanno.
Ci sono numerosi direttori italiani che dirigono in Germania, anche in riprese, nel repertorio.
Per me la differenza tra ripresa e una nuova produzione, è che con la nuova produzione si può dare la sua impostazione.
Qui a Vienna feci il nuovo Barbiere nel 2021 (NdR : produzione Herbert Fritsch)... cast stellare, nuovo Barbiere dopo 56 anni, ho avuto tutte le prove che volevo, l'orchestra ha fatto quello che volevo, e devo dire che suonarono benissimo.
Poi feci una sola ripresa, due anni dopo. Quindi dal 2021, io ci tornai in gennaio 23. In mezzo, loro hanno suonato due o tre riprese con altri direttori. Quando si torna per la ripresa non ci sono prove e si va direttamente in scena. E loro hanno suonato esattamente come a ottobre 21, io lì rimasi quasi scioccato, perché il lavoro che si era fatto con loro non era andato perso!
È chiaro che abbiamo fatto un mese insieme e che ero sempre presente. Ma vedo che anche adesso con un repertorio, Norma, che è pericolosissimo perché l'orchestra può sbagliare. Questa è la terza recita, abbiamo fatto antegenerale, generale, prima, seconda e adesso terza non c'è mai stato una sbavatura.
Però può essere pericolosissimo. Ed è difficile stare lì concentrati in un repertorio che se non ci si entra dentro, può essere micidiale e cadere nella mediocrità
Quindi a me ha dato più soddisfazione questa Norma del Barbiere. Perché qui c'erano molti più rischi per l'orchestra di lasciarsi andare, invece sono sempre lì, concentrati, sempre.
Parliamo adesso più in generale: ha dei modelli nella storia della direzione musicale?
Io sono portato a prendere tanto da tutti, in realtà io rispetto tutti.
Non sono un melomane, non nasco melomane, quindi non amo tanto giudicare da melomane, però quando lo faccio per curiosità o cultura mia sono molto attirato dai grandi del passato, perché quello che mi attira non sono tanto i tempi, ma è la costruzione del suono, questo mi interessa tanto. Allora i grandi del passato da Walter a Bernstein, ma anche Klemperer. Se noi ascoltiamo adesso Klemperer diciamo “mamma mia,
com’è lento!”, anche Celibidache, ma c'era una tensione, una profondità… adesso c'è questa moda di fare tutto veloce, no? Come se ci fosse questa paura: fare veloce perché così non si annoia, ma se ascolto tutto veloce dopo cinque minuti sono terribilmente annoiato. Nei grandi del passato, il suono è per me è tutto: timbro, colore… La tensione del suono che riuscivano a ottenere è una cosa incredibile.
Quando la sento dirigere, mi sembra sempre molto soffice, mai brutale, anche quando è energico.
Sì, perché comunque Io lavoro tanto sul colore. Poi è chiaro che quando si deve essere deciso… però non si deve mai essere sguaiato, come diciamo noi. Ci deve essere sempre una dignità di suono, se no diventa un urlo, diventa un rumore, e quello a me non piace.
Poi negli anni sono cambiato, dieci anni fa ero molto «soffice» come diceva Lei, un po' troppo, a volte mancava un po' di energia e me ne sono reso conto soprattutto nel repertorio verdiano, però questa cosa la sto applicando ovunque anche in Rossini, e adesso gioco molto più sui contrasti e quando c'è bisogno con più decisione, più violenza.
Sì, sono meno timido. Prima era come una sorta di timidezza, diciamo, per me c'è stato un po' un giro di boa dai 40 anni. Sto invecchiando (ride).
Adesso come vede il suo futuro? Roma sempre?
No, ancora è tutto in bilico perché aspettiamo ovviamente le nomine di nuovi sovrintendenti. Anche se non ci dovrebbero essere sorprese. Quindi, aspettando quello, poi dopo vedremo...
A Roma, è un lavoro che sta andando molto bene, devo dire, sono molto contento.
Quando scade il Suo contratto a Roma?
25-26 sarebbe l'ultimo anno.
E’ andato molto bene a Roma.

Sì, infatti.
Abbiamo fatto tanti concorsi, l'orchestra sta ringiovanendo, sta cambiando molto, anche il coro. Stiamo lavorando bene, stiamo facendo tante cose, anche un po' difficili, appunto, perché non è che facciamo solo Rigoletto.
Pensa solo che ho fatto la mia prima inaugurazione con Dialogues des Carmélites, poi come ho detto c’è stato Bartók, Ravel, Peter Grimes... Abbiamo fatto scelte anche un po' coraggiose.
E per me erano tutti debutti, tutte prime volte, quindi c'era sempre un po' un interrogativo. E io chiaramente non ho voluto a Roma fare le cose per cui sono già conosciuto. Non avrei faticato niente e avrei ottenuto successo. Invece ho voluto mettermi in gioco ogni volta. Anche questo è importante.
Lei parlava di Novecento… e Berg… ? Wozzeck ?
Eh beh sì, penso a Wozzeck,
Ecco, appunto Deborah Warner durante le prove del Peter Grimes mi ha detto «facciamo Wozzeck, sì facciamo Wozzeck!» …chissà!.
Mi attira molto Wozzeck, anche perché, io sono diplomato in composizione, e l'ultimo anno a Pesaro studiai tutto il Wozzeck, quindi io ho la partitura completamente analizzata ed era una cosa incredibile. È un grande capolavoro, ma devo dire che anche il Peter Grimes è stato una gran bella esperienza per me.
Per me Peter Grimes è un'unione tra Simon Boccanegra e Wozzeck. Anche c'è il tema della società che non fa nulla, anzi, ti lascia andare a morire, il rapporto con il mare, la solitudine.
È un Simone nordico. Bisogna avere anche un cantante che lo porti. Allan Clayton a Roma era fantastico.
E Janáček?
Pensi che studiai Jenůfa durante il Covid. Era un progetto proprio a Roma poi non si fece. Anche La piccola volpe astuta è un capolavoro. Beh, anche lui è veramente un grande... Però, un po' alla volta ci arriverò.
© Michael Pöhn (Opera di Vienna)
© Amati Bacciardi. (Pesaro)
© Fabrizio Sansoni (Roma, Carmélites)