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Da buon milanese, come alcuni illustri predecessori, quali Carlo-Maria Giulini o Claudio Abbado, Danielle Gatti s’interessa al mondo mitteleuropeo e al suo universo culturale.
Questa cultura, il cui fulcro è il mondo austro-ungarico, ha le sue radici nella fine del Settecento e esplode per inventività e modernismo all’inizio del Novecento. Basta ricordare l’effervescenza musicale artistica e letteraria della Vienna dell’”Apocalisse gioiosa” di Hermann Broch, anche durante e dopo la prima guerra mondiale.
Questo programma propone momenti chiave della cultura viennese : due momenti di Anton Webern, quelli ancora giovanili (ha 22 anni) e post romantici di Langsamer Satz, un pezzo per quartetto d’archi trascritto per orchestra d’archi da Gerard Schwarz e i Fünf Sätze op.5, composti quattro anni più tardi e trascritti anche loro per orchestra d’archi nel 1929 da Webern stesso, che segnano un’orientamento nuovo verso una musica della concentrazione, della concisione, del puntillismo, di uno ieratismo musicale ridotto all’osso, che Schönberg proporrà poco dopo nei suoi Sechs kleine Klavierstücke. Due momenti di modernità nascenti in eco con due momenti sinfonici schubertiani, il primo anche lui giovanile composto nel 1815 a 18 anni, la Sinfonia n°3, che guarda ancora verso Haydn, e l’altra composta 3 anni dopo, la sinfonia n°6, che tiene in maggior considerazione la modernità beethoveniana e le mode viennesi, compresa quella rossiniana. Quindi in parallelo due opere giovanili e due altre di evoluzione di due giovani compositori compresi tra 18 e 26 anni. Ecco un programma molto acuto, riempito di echi diversi, che dimostra che l’artista s’iscrive prima nell’imitazione, poi nell’evoluzione e infine nella rivoluzione : come conquistare un posto tra i compositori ? Alla stessa epoca di Webern, Picasso passerà dal Moulin de la Galette al Cubismo
Questi due destini paralleli s’iscrivono in due storie attraversate da radici, Haydn (e Mozart) per il primo e il post romanticismo mahleriano per l’altro, e dalla volontà di crescere e iscriversi nella modernità per ciascuno dei due (nella seconda parte). Questo concerto è una lezione di musica che ci dice come si costruiscono gli artisti.
Una prima parte Schubert-Webern, una seconda Webern-Schubert e quattro pezzi praticamente sconosciuti al pubblico, numeroso nel bellissimo teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, ricco di passato più che di presente, che vide tante volte Claudio Abbado con la MCO, poi il suo figlio Daniele come direttore artistico, e che in questo momento sopravvive in un’Italia che ignora la sua cultura. Quando una città possiede un tale strumento, e non ne fa granché, si trascura. Purtroppo non è un caso unico nel paese oggi.
La qualità della serata, un MCO tornato sui luoghi dei suoi trionfi (Cosi, Fidelio, Flauto magico con Abbado ad esempio), dimostra che bisogna sempre tenere alta l’esigenza artistica.

La sinfonia n°3 è stata considerata come un pezzo secondario, anche se molti segnano una differenza notevole con le prime due sinfonie – la seconda è stata scritta qualche mese prima. É una musica felice, ritmata, anche se l’accordo iniziale è piuttosto cupo di colore, con accenti mozartiani (infatti ricorda un’ouverture d’opera, Don Giovanni ad esempio), anche se senza transizione si passa a una musica dinamica e sorridente.

Daniele Gatti, che è anche grande direttore d’opera, cura questo contrasto, proponendo un inizio assai solenne, che concatena con la parte più leggera con grande velocità. Durante il concerto intero, colpisce l’adesione dell’orchestra, la chiarezza del suono, l’eleganza, la cura data alle nuances, la leggibilità dell’insieme. Molto bello il flauto nel suo dialogo con gli archi, molto belle anche le transizioni : fluidità, eleganza, ritmo quasi italiano (che si ritroverà nella tarantella dell’ultimo movimento). Questo Schubert, certo influenzato da Haydn e anche come già detto da Mozart (chiaro anche nel Minuetto del terzo movimento), è forse più personale nel secondo (un allegretto) concepito come “Lied per orchestra” con grande delicatezza che contrasta con l’energia del primo, ma permette di verificare la leggerezza e la sottigliezza degli archi molto soavi in eco.

L’ultimo movimento comincia come una tarantella, e ricorda molto l’inizio dell’”Italiana” di Mendelssohn, particolarmente vivo e danzante. Gatti fa emergere dettagli di una musica che l’ottocento ha considerato senza interesse, con un’orchestra assai dinamica e questo gioco particolare dei contrasti tra danza fluida e scansioni forti, con un senso del crescendo quasi rossiniano alla fine. Si (ri)scopre questa musica rara nei programmi concertistici che in realtà non è trascurabile nella sua concezione, con un vero senso della melodia.

Langsamer Satz (movimento lento) di Webern, opera trascritta per orchestra da Gerard Schwarz (in origine è un pezzo per quartetto d’archi), fa irresistibilmente pensare a Mahler, in particolare per il respiro, per il gioco sui volumi, per le transizioni : si è molto vicini all’adagietto della Quinta sinfonia, quasi contemporanea. Daniele Gatti è molto vicino a questa musica, di cui capisce la forma con una particolare sensibilità. Anche in questo caso colpisce il gioco degli archi gravi e quelli più acuti, che rende l’ambiente molto nostalgico ; si pensa a Mahler, ma non solo : in qualche momento si potrebbe anche pensare a Sibelius in quello che è diventato una specie di piccolo poema sinfonico : Gatti non ne fa qualcosa di interiore, ma propone a poco a poco un’opera di grande respiro, evitando tutto quello che potrebbe essere troppo “sciroppato”, senza nessun rubato, facendo succedersi rallentamenti e accelerazioni, oltre alle variazioni di volume sempre molto curate di una scrittura che deve molto al post-romanticismo e che comunque ogni tanto si proietta con certi accenti sul Webern del futuro. Gli ultimi momenti sono resi da Gatti quasi come gli ultimi momenti della Nona di Mahler, con questo suono a tratti che muore in un momento segnato dall’emozione. Affascinante.

La seconda parte del concerto, con due opere posteriori di qualche anno, più aperte verso il futuro dei due compositori risulta anche appassionante per la differenza di clima.
Come per contrasto con la fine della prima parte, tonale e girata verso il passato, è il Webern « nuovo » che apre questa seconda parte, più vicino a quello che conosciamo, che ha trascritto quel pezzo (Fünf Sätze , op.5)  per orchestra d’archi , vent’anni dopo la sua composizione (per quartetto d’archi), al momento della suo pieno periodo di maturità.
I cinque pezzi alternano tra agitato e lento. Il primo, heftig bewegt (molto agitato) è il più lungo e mostra lo sviluppo orchestrale più importante. Gli altri movimenti sono come delle “macchie” di musica, alternando tensione e violenza (il terzo ad esempio), con tratti sonori qualche volta appena percettibili come il finale del pezzo suonato nella prima parte, dove l’orchestra dimostra un grande controllo del volume e del suono : sono miniature che devono fare vedere tutto in poco tempo e in poco suono, arte sottile della minima nuance, del tratto, del punto dove si prospetta infine un universo completamente astratto, ieratico.
L’ultimo movimento alternando archi gravi e suoni assai acuti, funziona a tratti, qualche volta al limite del percettibile e dell’udibile, e fa pensare agli ultimi momenti della Nona di Mahler, ancora una volta (come un’eco del finale della prima parte del concerto), che è questa volta più o meno contemporanea alla composizione del pezzo, ma che Webern poteva difficilmente conoscere, mentre gli era conosciuta di sicuro nel 1929 quando trascrive la partitura per orchestra d’archi. Il passato ha forse alimentato il presente.

La Sinfonia n°6 di Schubert ha concluso il concerto, chiamata “La Piccola” per riferimento alla “Grande”, di stessa tonalità (do maggiore). Dopo tre anni, come Webern dopo quattro anni, Schubert suona più “grosso”, non per forza più originale nella melodia (la sinfonia n°3 è forse più inventiva sotto questo punto di vista), ma di sicuro più complessa nel tessuto compositivo, più influenzato da Beethoven – si sente fin dall’inizio. Daniele Gatti fa sentire questa complessità, esalta il gioco sulle variazioni timbriche, sui colori, grazie a un’orchestra virtuosa. La sinfonia comincia come la Terza, con un’introduzione lenta, lunga come quella della la terza, ma l’insieme del movimento è molto più denso, più largo, anche nella sua seconda parte più allegra.
Il secondo movimento (andante) segna una serenità che non si sentiva prima, con un gioco splendido sui legni (Flauto, oboe) e sugli archi serafici, brutalmente interrotto dal ritmo scandito della marcia, quasi da opera. L’influenza della lirica, molto di moda a Vienna – Rossini soggiorna in città- si fa sentire. È chiaro che l’opera lirica è una fonte di ispirazione di Schubert (come nella Terza tra l’altro), mentre paradossalmente le sue opere sono di essenza weberiana più che italiana, e non hanno avuto un grande successo.
Il terzo movimento (primo scherzo del mondo sinfonico schubertiano) ricorda più chiaramente Beethoven, molto più chiaro che nella Terza , più energico, vagamente più angosciato, (e si riconoscono tratti delle due prime sinfonie di Beethoven), compreso nella seconda parte del movimento. Il suono della MCO è di grande nitidezza, limpido, trasparente, e sa giocare sui contrasti tra momenti molto forti e altri più leggeri, ma sempre con particolare fluidità.
Il quarto invece torna a ritmi italianizzanti, non cosi netti come nella terza sinfonia, ma con una complessità più evidente e una composizione più elaborata del tessuto musicale, con effetti chiaramente rossiniani. Le due sinfonie cominciano un po’ come un’ouverture d’opera lirica, e nello stesso periodo Schubert scrisse due ouverture nello stile italiano : questo dimostra l’influenza del genere e la seduzione che aveva per il giovane Schubert (21 anni) l’opera italiana e il modello rossiniano, che andava tanto di moda : archi leggeri, ritmo danzante, legni stupendi e molto agili, con una MCO impegnatissima, con suono magnifico e trasparente che lascia scoprire differenze timbriche chiare, leggibili  che permettono di distinguerne ogni colore. Gatti esalta ogni momento, senza mai insistere però, lasciando l’orchestra suonare insieme “zusammenmusizieren” in un insieme strano dove i legni suonano come da Rossini e i tutti come da Beethoven.
Questo finale largo preannuncia “La Grande” per il respiro, la dinamica, l’espressività, dopo un dialogo archi/legni reso straordinariamente dall’orchestra, inspirandosi decisamente a un Rossini di cui Schubert imita i giochi timbrici, per ricercare l’abilità che ammirava tanto.
Per far uscire tutta questa complessità d’influenze, ma anche questa giovane originalità, bisogna avere un’orchestra esperta, che possa esaltare i suoi strumenti solisti, ma anche suonare in modo sempre nuovo, senza che ci sia un attimo di routine…
Daniele Gatti sa perfettamente portare l’orchestra dove vuole, chiederle tutte le raffinatezze possibili, in tutte le direzioni, perché oltre ad essere il Mahleriano che conosciamo, l’innamorato della seconda scuola di Vienna che conosciamo, è anche un grande rossiniano.

Questo concerto ha permesso di portare alla luce relazioni tra due compositori che non sono sempre associati, di ritrovare echi mahleriani da una parte, echi rossiniani e beethoveniani dall’altra, di sottolineare la molteplicità delle influenze, l’intertestualità e la diversità del patrimonio genetico di due tra i più grandi compositori della storia della musica. Impossibile in queste condizioni imporre categorie alla musica : è l’arte trasversale per eccellenza, che ignora frontiere e mura. Un concerto raffinato come questo ce lo ricorda.

 

 

 

 

 

 

 

 

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