Giuseppe Verdi (1813–1901)
Il trovatore (1853)
Libretto di Salvatore Cammarano e Leone Emanuele Bardare, dal dramma spagnolo El Trovador (1836) di Antonio García Gutiérrez.
Prima rappresentazione assoluta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma

DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Lorenzo Mariani

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE E COSTUMI William Orlandi
LUCI Vinicio Cheli
VIDEO Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii
IL CONTE DI LUNA Christopher Maltman
LEONORA Roberta Mantegna**
AZUCENA Clémentine Margaine
MANRICO Fabio Sartori
FERRANDO Marco Spotti
INES Marianna Mappa*
RUIZ Domingo Pellicola*
UN VECCHIO ZINGARO Leo Paul Chiarot
UN MESSO Michael Alfonsi
* Dal progetto “FABBRICA” YOUNG ARTIST PROGRAM del Teatro dell’Opera di Roma
** Diplomato progetto “FABBRICA” YOUNG ARTIST PROGRAM del Teatro dell’Opera di Rom
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

Roma, Circo Massimo, 15 giugno 2021, Ore 21

Torna l'estate e con l'estate arriva la stagione estiva del Teatro dell'Opera di Roma, trasferito dalle Terme di Caracalla al Circo Massimo, che è più ampio e più adatto alle condizioni imposte dalla pandemia, soprattutto per la buca, che è larga quasi sessanta metri, permettendo una distanza tra ogni musicista che quella di Caracalla non permette. E dopo aver proposto Rigoletto l'anno scorso, e La Traviata durante la stagione in forma di film, è ora il turno del terzo titolo della trilogia popolare, Il Trovatore, forse il più difficile da realizzare. La sfida è stata vinta, ed è un bel momento d'opera che ci viene offerto sotto il cielo di Roma, ma anche in mezzo ai suoni della città e a quelli della natura…

Christopher Maltman (Luna), Roberta Mantegna (Leonora) Fabio Sartori (Manrico)

Una nota personale tanto per cominciare : ho visto la prima opera lirica della mia vita a Caracalla, Aida nel 1965 : è difficile non pensarci ogni volta che vedo uno spettacolo durante l’estate romano… Ho anche un altro ricordo, non lirico, "Roma" il film di Fellini sotto le stelle e nei resti della Basilica di Massenzio, Roma dentro Roma in un certo senso.
Come non amare queste dolci serate tra il Palatino, i pini a ombrello, e più prosaicamente, i suoni della città, le ambulanze e gli uccelli eccitati da Verdi…
L’installazione inaugurata la scorsa stagione è stata ripresa, con la sua immensa buca di sessanta metri di larghezza, e il suo enorme schermo che durante gli intervalli presenta viste aeree di Roma da far sognare.
In verità, Il Trovatore si adatta bene a tale spazio, per il suo carattere epico e mozzafiato da grande macchina musicale dove ogni intimità è assente assai. Il Trovatore è infatti un po' particolare nella produzione verdiana : dopo tre minuti inizia una successione ininterrotta di arie, di cori, di concertati tutti riusciti, tutti famosi senza mai lasciare allo spettatore il tempo di respirare. Verdi ci riproverà con La Forza del Destino, senza riuscirci come questi ripetuti capolavori che sono le arie del Trovatore. Dico spesso che questo è un Verdi mozzafiato : è l'unica qualifica possibile per un'opera dove non si prende mai fiato, tanto è continuo l'impulso e il ritmo, dove tante scene si susseguono quasi senza pause, portando lo spettatore come in un lungo tunnel abbagliante di musica fino all'accordo finale. Non ci dovrebbe essere nessun intervallo nel Trovatore. È “l'hyperloop ((un progetto futuristico di treno ad alta velocità ideato da Elon Musk che consiste nel muovere capsule – di passeggeri come di merci – su cuscini d'aria lungo un binario fatto di un tubo a bassa pressione)) dell'opera nel suo "tubo” con i suoi pezzi così famosi, arie e ensemble che trascinano il pubblico.
In queste condizioni, la questione della messa in scena è ovviamente secondaria : del resto, quale concetto si può applicare a una storia impossibile orchestrata da una zingara assetata di vendetta in un universo esclusivamente notturno, dove i personaggi sono trascinati dall'impulso musicale più che dal loro carattere. Qui non c'è psicologia : il soprano è amato dal tenore e dal baritono, nemici giurati, mentre la zingara vendicativa tira i fili e ha educato il tenore al solo scopo di farne lo strumento della sua vendetta (come Mime fa di Sigfrido da Wagner). Certo, un regista “politicamente corretto” potrebbe soffermarsi su questa immagine degli zingari e della zingara, con tutti i cliché vari. Ma a che pro ? Nel Trovatore, ciò che ci interessa sono le arie infilate come perle che fanno saltare il cuore, non le tribolazioni psicologiche delle anime. Personaggi tutti d’un pezzo, notte universale, Verdi e basta.
Lo spettatore rivendica il diritto di lasciarsi inebriare dalla musica, senza pensare ne riflettere. Il paradiso dell'opera, in un certo senso, dove non c'è né bene né male, né conoscenza né pensiero, ma solo piacere, fino a rimanere senza fiato. Questo è Il Trovatore.
In queste condizioni, non si chiede molto al regista Lorenzo Mariani, e giustamente, non fa molto, basta arredare questo largo spazio con un minimo di oggetti, tavoli, sgabelli che vengono spostati ad ogni scena, basta far portare ad ogni personaggio un grande candelabro nella notte, come segnale, sotto la luce intensa di uno schermo gigante che proietta o un cielo tempestoso, inquietanti nuvole nere, o fiamme dell'inferno o della passione. Ed è tutto. Data la distanza, è impossibile per lo spettatore individuare le espressioni dei volti, solo qualche indicazione dei costumi, tutti neri, a striscia rossa per Azucena e Manrico, a striscia bianca per Luna, scuri per Leonora, tutti illuminati con riflessi al ritmo delle luci colorate, e poi qualche movimento del coro e qualche gesto magniloquente e basta.
L'unico problema è che il palco molto grande richiede tempo per spostare i tavoli e organizzarli nello spazio, che è diverso ogni volta, e questo richiede pause che spezzano un po' l'azione : preferiremmo meno tavoli e quindi meno pause che sono tante fermate e attese, mentre noi vorremmo che la brace continuasse a bruciare. D'altra parte, ci sono belle immagini, luci spettacolari e questo basta per fare spettacolo …
Marianna Mappa (Ines) Roberta Mantegna (Leonora)

È chiaro che per il Trovatore basta un quartetto delle migliori voci del mondo per farlo riuscire (la frase è attribuita a Toscanini) e, si potrebbe aggiungere, un direttore che faccia dell'orchestra la vetrina di queste voci scatenate e non un'orchestra che si guardi allo specchio della sua bellezza. Qui più che altrove, l'orchestra è funzionale, definisce le voci e i personaggi, è nell'azione, non la commenta.
Il cast riunito è all'altezza del compito senza essere smagliante.
Tutti i ruoli complementari sono ben tenuti, Marianna Mappa (Ines), Domingo Pellicola (Ruiz) Leo Paul Chiarot (Vecchio zingaro) e Michael Alfonsi (Un messo).
Marco Spotti (Ferrando) Christopher Maltman (Il conte di Luna)

Marco Spotti è un Ferrando corretto, ma è un po' stanco nella sua aria d'ingresso, dalla quale ci si sarebbe potuti aspettare più chiarezza. È un basso di qualità che vediamo in molte produzioni. È qui un po' al di sotto delle aspettative. Forse l’impianto audio non aiuta, anche se è meglio calibrato rispetto alla scorsa stagione, sembra.
Christopher Maltman è una sorpresa nella parte del conte di Luna. Siamo più abituati a vederlo in ruoli come Don Giovanni, Edipo, Oreste in Ifigenia in Tauris e Wozzeck, ma è anche un Rigoletto molto richiesto (lo abbiamo visto a Berlino e Vienna, e lo vedremo al Liceu questo autunno), con alcuni altri ruoli italiani nel suo repertorio. La voce potente ed espressiva è immediatamente riconoscibile, e se la cava molto bene ne Il Balen del suo sorriso, che è un monologo interiore in cui Luna è più tenero, ma nelle parti più eroiche, che richiedono ritmo e dinamica, non riesce ad entrare completamente nel colore e la tecnica verdiana, soprattutto con problemi di respirazione. È costretto a prendere fiato laddove siamo abituati a sentire i baritoni tradizionali "legare" meglio in un canto continuo, pieno di rubati, che ha difficoltà a gestire. Il canto è ovviamente quello di un grande cantante, ma non è ovviamente un tipico baritono per Verdi. Tuttavia, la performance è molto onorevole, ma non esplode come in altri ruoli.
Roberta Mantegna (Leonora)

La Leonora di Roberta Mantegna, che un tempo faceva parte del programma "Fabbrica" dell'Opera di Roma, è oggi chiamata sui grandi palcoscenici internazionali per le sue qualità di soprano lirico-spinto e la sua capacità di produrre un canto impeccabile e ben controllato. L'abbiamo sentita a Parma nella versione francese Le Trouvère, scritta per Parigi nel 1857. In una Léonore dove il controllo tecnico è molto importante, e in una messa in scena assai fissa come quella di Robert Wilson, è stata relativamente convincente.
In una versione italiana all'aperto, che richiede impegno epico e potenza drammatica, non ci siamo proprio, il canto è molto diligente, molto accurato, ci sono momenti seducenti, come d'amor sull'ali rosee, ma manca l'impegno scenico e la passione ardente (soprattutto nel Miserere, che manca di ampiezza) per far vibrare il pubblico e far sentire la fiamma verdiana.
Fabio Sartori (Manrico)

Fabio Sartori è invece un Manrico eccezionale. Non è un attore, ma date le circostanze e l'ambientazione, non è (troppo) imbarazzante. Al contrario, ciò che è in gioco è la voce, la dizione perfetta, il timbro chiaro che si adatta a questo giovanissimo uomo che è Manrico (ha sedici o diciassette anni), il che rende il timbro di Jonas Kaufmann inadatto al ruolo perché troppo scuro. Senza essere un timbro solare come Meli o Alagna, ne ha la potenza e il valore (esemplare di quella pira, anche senza l'acuto). Lo avevamo notato anche ne I Masnadieri alla Scala, è uno dei grandi tenori verdiani di oggi e potrebbe anche essere il Manrico del momento : ne ha tutte le carte in regola.
Clémentine Margaine (Azucena)

La sorpresa del giorno è stata l'Azucena di Clémentine Margaine, che si è fatta subito notare per la sua potenza drammatica e presenza scenica in questo ruolo che cantava per la prima volta. Dalla sua aria d'ingresso Stride la vampa, è impressionante la sua sicurezza, con una voce molto omogenea dal grave all'acuto. Non appena appare sul palco, qualcosa cambia immediatamente e ci troviamo in un'altra dimensione. Con il Manrico di Fabio Sartori, è proprio di casa in Verdi, combinando raffinatezza, sfumature, colore e potenza drammatica. Forse (pignoleggiamo) gli acuti potrebbero essere un po' più ampi e meglio tenuti, ma il fiato si puo’ coltivare e d'ora in poi è un'Azucena con cui fare i conti, che ha un’eccezionale larghezza nei registri bassi e centrali. Il duetto finale (parte IV, sc.III) con Manrico è sublime nella sua delicatezza e interiorità. Il trionfo di pubblico è pienamente meritato. Lei è la star di questa serata estiva.
Il coro dell'Opera di Roma, rispettando le distanze fisiche, e con l'impianto audio, sotto la direzione dell'ottimo Roberto Gabbiani, da una bellissima prova, in particolare nella sua spettacolare entrata all'opra all'opra, impressionante.
Naturalmente è sempre difficile giudicare un'orchestra con il suono amplificato ; si preferirebbe giudicare l'equilibrio con il suono diretto. Avevamo notato nella produzione di Salisburgo (Alvis Hermanis, con la Netrebko) quanto Daniele Gatti ci facesse percepire la profondità di questa musica e le sue raffinatezze ; e sappiamo quanto difenda (per esempio nella sua ultima Traviata) un Verdi la cui scrittura è rispettata alla lettera, senza pervertirla con una tradizione che devia dalle vere intenzioni. Il Trovatore non è né RigolettoTraviata dove domina un personaggio e dove la scrittura di Verdi è illuminante per le linee che lo descrivono.
Il Trovatore è un'opera più corale, dove quattro voci devono essere tenute insieme, con un'unità di ritmo e di respiro, con una sorta di pulsazione permanente. Bisogna mantenere questo ritmo la durata, e quindi sostenere i cantanti, senza mai lasciar andare un momento questo impulso essenziale per dare il colore dell'insieme e poi, bisogna anche essere sufficientemente limpidi, sufficientemente raffinati per non essere nel dzim-bum-bum che fa di Verdi un verista che non è.  Daniele Gatti offre innanzitutto un accompagnamento ritmico fenomenale, senza mai mollare la pressione, aiutando costantemente il canto ; propone una musica che è un flusso continuo, mai in primo piano ma sempre di supporto, di accompagnamento e allo stesso tempo determinante. Sempre presente, mai protagonista, questo è il Gatti della serata, che rende l'accompagnamento musicale parte del tutto, tenendo l'orchestra con una chiarezza sorprendente, lasciando che ogni strumento si senta (il legni…), lasciando respirare ma allo stesso tempo facendo una “sinfonia per voce e orchestra” nel vero senso della parola. È un esercizio delicato (perché è facile cadere in un eccesso o nell'altro) e allo stesso tempo permette di ascoltare un Verdi senza ornamenti. Basta sentire gli accordi dell’inizio della scena terza della quarta parte, che inizia con Madre non dormi : non sono aggressivi, nessun eccesso, come un dramma che si sveglierebbe quasi dolcemente in una notte fatale tra due esseri che si amano. Questa è la chiave per capire la scena che si apre, che è la scena delle ultime confessioni, dell'ultimo incontro prima della morte. Inoltre, tutto l'accompagnamento di questa scena è di una delicatezza rara con archi di una raffinatezza incredibile…
Ecco una vera lettura. Gatti respira sempre col dramma… È una direzione eccezionale fatta di sottigliezza e teatralità, e soprattutto di intelligenza, che tiene conto della partitura e del contesto.
Bella serata, che ci fa riscoprire quanto sia difficile riuscire pienamente un opera di Verdi, e soprattutto quanto sia facile schiacciarlo sotto l'effetto e l'esagerazione, tanto più questo titolo quasi impossibile. Gatti riesce a mantenere questo equilibrio, con un cast di ottimo livello, ansioso di rispondere alle richieste del direttore, e soprattutto ansioso di difendere un Verdi mai istrionico e sempre con marcata delicatezza e sensibilità. Viva Verdi ! 

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