1. Richard Wagner (1813–1883)
    Parsifal (1882)
    Bühnenweihfestspiel in drei Akten
    (Festival scenico sacro in tre atti)
    Libretto del compositore

Direttore Omer Meir Wellber
Regia Graham Vick
Scene Timothy O'Brien
Costumi Mauro Tinti
Azioni mimiche Ron Howell
Luci Giuseppe De Iorio
Assistente alla regia Lorenzo Nencini
Assistente alle scene Eleonora de Leo
Assistente ai costumi Agnese Rabatti

Amfortas Tómas Tómasson
Titurel Alexei Tanovitski
Gurnemanz John Relyea
Parsifal Julian Hubbard
Klingsor Thomas Gazheli
Kundry Catherine Hunold
Erster Gralsritter Adrian Dwyer
Zweiter Gralsritter Dmitry Grigoriev
Vier Knappen Elisabetta Zizzo, Sofia Koberidze, Ewandro Stenzowski, Nathan Haller
Klingsor Zaubermädchen Elisabetta Zizzo, Sofia Koberidze, Alena Sautier, Talia Or, Maria Radoeva, Stephanie Marshall
Stimme aus der Höhe Stephanie Marshall

Orchestra & Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo

 

Palermo, Teatro Massimo, 26 gennaio 2020

Dopo 65 anni torna il Parsifal di Wagner al Teatro Massimo di Palermo, dove Wagner completò la partitura nel gennaio del 1882. Volenterosa ma al di sotto della complessità della pagina la direzione del giovane direttore israeliano Omer Meir Wellber. Discreto il cast. Graham Vick, che aveva già messo in scena per il Massimo la Tetralogia wagneriana, firma l'allestimento. La lettura è attualizzante. La storia si svolge in Medioriente, forse in un'operazione di “esportazione della democrazia”, i Cavalieri del Graal sono combattenti in tuta mimetica e mitra, Parsifal è un improvvisato “foreign fighter”, Kundry porta il niqab : una regia discutibile come impianto e poco interessante nelle singole soluzioni. 

 

Acte III (John Relyea, Gurnemanz) e bambini

Se Wagner con un “eccesso di eccelsa e maliziosissima parodia dello stesso elemento tragico” riesce nel Parsifal a saturare il campo simbolico – mettendo insieme Sangue e sangue, Lancia (il “maschile”) e Coppa (il “femminile”), colpa e redenzione, eros e thanatos, magia nera e magia bianca, amor filiale e amore incestuoso, cattolicesimo, luteranesimo, buddismo (giusto un trompe‑l'oeil), paganesimo celtico e una generale patina blasfema -, Graham Vick, responsabile della nuova messa in scena del Parsifal che ha aperto la stagione 2020 del Teatro Massimo di Palermo, entra in competizione con lo stesso Wagner, aggiungendo a tutto quello che già c'è l'unico strato simbolico mancante : un'allusione, attraverso la comunità dei Cavalieri del Graal, alle guerre odierne in Medioriente. Così, tre anni dopo la conclusione sempre per il Teatro Massimo del Ring des Nibelungen, per il quale aveva già spogliato il palcoscenico delle quinte, esibendo lo spazio sventrato del teatro come la cornice narrativa adatta a una storia contemporanea di tensioni politiche e terroristi bombaroli, Vick elimina anche stavolta tutti gli appannaggi che potrebbero ancora far pensare al teatro come finzione, spazio artificiale, illusione che proietta sopra o contro la realtà un proprio universo d'invenzione e un proprio ordine.

Scena del Graal (Atto I)

Che un classico sia sempre capace di dire una parola sulla contemporaneità non è per Vick solo un concetto di filosofia dell'arte : per il regista inglese tale assunto deve poter essere verificato in maniera concreta, e così il Parsifal diventa una storia di soldati d'assalto in un qualche quadrante caldo del Medioriente, tutti armati di mitra e forti di un'ideologia imperialista. La scena è quindi costituita da un unico grandissimo praticabile sospeso verso il pubblico e ricoperto da un rivestimento color “sabbia” – un elemento centrale, come tutti sanno, nella fabula del Parsifal. Nel deserto che fa da sfondo a un'azione dove i membri del Graal si aggirano in giubbotto antiproiettile, e dove si giustiziano gli “infedeli” sullo sfondo di un telo bianco che si apre e si chiude come una sorta di sipario interno,

Catherine Hunold (Kundry)

Kundry fa la sua entrata in scena non a cavallo, ma a piedi e in niqab nero, a riprova di una sua vocazione alla sottomissione verso i Cavalieri e verso il padrone-mago (“servire, servire”). Klingsor – il signore dei desideri proibiti, maligno fratello dei tanti spiriti pravi del Singspiel tedesco – è qui un combattente isolato dal torso tatuato, forse un capo caduto in disgrazia o un comandante tenuto a distanza per i metodi poco ortodossi, che fuma annoiato in attesa del prossimo massacro ; le fanciulle-fiore sfilano prima in mutandine e reggiseno poi in seducenti pareo colorati, e appaiono poco più che una fantasia da soldati al fronte, più immaginate e desiderate che reali. Parsifal è invece uno di quegli squinternati ragazzi borghesi che vanno nei paesi in guerra pensando di fare un po' di turismo-verità, di procurarsi qualche emozione a buon mercato, e poi si ritrovano coinvolti a loro insaputa in una guerra. Il “puro folle” di Wagner, qui drasticamente semplificato, è dunque soprattutto un sprovveduto che si mette a giocare alla guerra altrui, rischia di rovinare tutto (l'“erranza”, per la quale i cavalieri del Graal si ritrovano alla fine storpi e malati in una specie di santuario di Lourdes) e poi, ma non per merito suo, scopre di avere dei superpoteri che gli consentono di aiutare i suoi nuovi amici. Quanto a questi, come ogni gruppo tenuto insieme dal fanatismo religioso, anche i guerrieri del Graal hanno il loro rito : quello che Amfortas si decide alla fine ad amministrare, obbligato dal vecchio padre Titurel (un mandante occidentale della guerra in giacca e cravatta, giusto per colpevolizzarci un po'), è infatti un rito – ricalcato da Wagner su quello della messa cattolica – dove però Vick opera una sostituzione. Si passa infatti dal codice simbolico della messa, dove l'ostia si limita a simbolizzare il corpo di Cristo e il vino a richiamare simbolicamente il suo sangue, a un codice di tipo mimetico : Amfortas si spilla veramente il sangue dal costato ferito e lo offre da bere in una gamella (la Coppa) ai soldati schierati in formazione d'attacco ; i membri del Graal, passandosi l'un l'altro la gamella con il sangue di Amfortas e bevendolo come fossero altrettanti vampiri della Transilvania, si aprono a loro volta le vene del braccio mischiando il proprio sangue a quello del “redentore”. Misteri di questi soldati moderni.

John Relyea (Gurnemanz)

Ammesso che si fosse disposti a rinunciare alla storia favolosa di Wagner per sintonizzarsi sul reportage di guerra di Vick, andrebbe tutto benissimo – attualizzare l'ambientazione forzando il libretto a parlare di una contemporaneità peraltro già tanto invasiva e mediatizzata, inventare una drammaturgia parallela (l'astrattezza della trama lo consente), rovesciare i presupposti etici del testo per i quali i buoni qui diventano abbastanza cattivi, prendere le distanze da personaggi verso i quali non si prova congenialità, persino forzare oltre il limite già arduo imposto da Wagner la suspension of disbelief dello spettatore (il rito del Graal è “materia da operetta par excellence”): il punto è che gli elementi del dramma immaginato da Vick non si compongono in un insieme coerente e persuasivo. Mancano in questo Parsifal, rispetto al suo Ring già discutibile, le invenzioni all'interno dell'invenzione, le singole trovate geniali, i minuti dettagli di efficacia teatrale – uno per tutti : l'accensione del cerchio di fiamme di Brünnhilde – che rendevano coerente e a tratti avvincente la precedente Tetralogia. Stavolta non solo non ci sono le idee memorabili, ma mancano le idee tout court. Prendiamo la scena del battesimo di Kundry. Si potrebbe misurare il tasso di creatività di un regista dalle scene in cui è prevista l'acqua : se c'è l'acqua vera in scena, e i cantanti devono bagnarsi per davvero, siamo per certo di fronte a un'impasse creativa. Nel suo deserto mediorientale, Vick prevede infatti che il laghetto la cui acqua serve a battezzare Kundry appaia sotto forma di un rettangolo allagato che affiora dal praticabile color sabbia. Kundry, Parsifal e Gurnemanz, impegnati nel rito del battesimo, sono costretti a sguazzare goffamente nello scomodissimo parallelepipedo d'acqua sollevando spruzzi e impacciandosi uno con l'altro ; paiono bambini al parco-giochi che si mettano d'accordo : “facciamo che questa pozzanghera era un lago…?”. Qui i meccanismi teatrali si inceppano in modo particolarmente vistoso : oltre a essere brutta da vedere – un aspetto al quale Vick non pare in quest'occasione molto sensibile –, questa scena rappresenta una soluzione espressiva maldestra, volontaristica, inchiodata al di qua della soglia oltre la quale scatta la “formalizzazione”. Ma non è un caso isolato : in realtà in questo Parsifal non funziona niente a dovere ; lo strato di simboli attualizzanti immaginato da Vick non si salda in maniera da costruire un uniforme contesto di senso, non riesce a costituire un intero persuasivo e annaspa senza riuscire a creare una sua verità.

Luci e ombre nella parte musicale. Il giovane direttore israeliano Omer Meir Wellber prepara l'orchestra in maniera accurata ma parte da premesse interpretative sbagliate : “in Italia al primo posto c'è sempre il fraseggio, ma in Wagner prima viene il ritmo”. Prima di arrivare al “ritmo”, c'è la concezione generale di Wagner della drammaturgia, del suono, del colore, dell'armonia e del ruolo dei Grundmotiven : così tanti, così intrecciati e così pesanti nel Parsifal da richiedere un'attenzione particolare e la più grande capacità di dosare gli effetti. Proprio la gestione dei motivi conduttori – che è quanto dire del dettato globale, tanto ne è carica la partitura – si rivela insoddisfacente. Questi, infatti, non sono semplici temi musicali che devono essere ben scolpiti e messi in risalto : sono grumi di senso, nel Parsifal addirittura formule sacrali, simboli del mysterium raccontato dal libretto concepiti per circolare al di sotto della superficie sonora come sentinelle dell'impronunciabile e dell'inconcepibile. Scanditi come li vuole Wellber, risultano sovradeterminati e scollegati dal flusso della musica, e quando a cantarli è il coro, con un fraseggio che chiude ogni minuscolo motivo in sé stesso, sembrano i solfeggi cantati del Pozzoli. Anche i preludi e gli interludi orchestrali soffrono di un fraseggio spezzettato e risultano piatti dal punto di vista dinamico e agogico.Wellber tornisce fin troppo i singoli motivi, ma sembra poco interessato al modo in cui il loro incastro dà vita alle lunghissime campate fraseologiche, la cui tenuta dovrebbe essere garantita dall'individuazione dei punti culminanti e dal collegamento gerarchico delle componenti. Così, si resta perennemente in attesa di quelle meravigliose accensioni musicali di Wagner che, non appena si producono, si rivelano come il significante di un nodo drammatico, magico, mitico : il carattere scolastico del fraseggio di Wellber, la sua prevedibilità, frustra l'ambizione della musica a determinarsi anche come “altro da sé”, miracolo per il quale, come sosteneva Thomas Mann, quella di Wagner non è più musica, è un'“idea acustica”, un'“idea fatta di suoni”.

Julian Hubbard (Parsifal)

Discreto il cast, che unisce interpreti provenienti da molti paesi. Julian Hubbard è un Parsifal vocalmente a posto, preciso e intenso, forse più sensibile agli aspetti umani che a quelli eroici del personaggio. Kundry è la francese Catherine Hurnold, anche lei corretta ma notevolmente distante dal carattere selvaggio e dalla potenza archetipica del suo personaggio : come seduttrice materna dell'eroe funziona, ma è estranea agli aspetti demoniaci della sua “rosa dell'inferno”. John Relyea presta a Gurnemanz un timbro pastoso e un'apprezzabile puntualità nel rincorrere la narrazione – è quasi un historicus – nei suoi picchi drammatici e nei suoi abissi insondabili. Delle tre voci maschili di Titurel (Alexei Tanovitski), Klingsor (Thomas Gazheli) e Amfortas (Tómas Tómasson), i primi due appaiono ben sintonizzati sui loro personaggi, specialmente Tanovitski che ben interpreta la minacciosità sepolcrale di Titurel.

Tómas Tómasson (Amfortas)

Tómasson restituisce il suo personaggio con un'intenzione espressionistica che ne esaspera i tratti dolorosi, approdando per momenti a un'incandescenza espressiva inappropriata, quasi da Sprechgesang. Tutti, in ogni caso, si assoggettano a cantare in un palcoscenico sventrato che risucchia le voci impedendo di proiettarle in platea in maniera ottimale : il coro, che a volte canterebbe dietro le quinte, in mancanza di queste canta oltre il muro di fondo e deve essere addirittura amplificato. Successo finale, applausi calorosi del pubblico per l'orchestra e il coro di casa, qualche pungente contestazione per Vick.

Catherine Hunold (Kundry)

 

 

 

Avatar photo
Sara Zurletti
Sara Zurletti si è diplomata in violino e laureata a Roma in Lettere con tesi in Estetica. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca all'Università Paris 8. Ha insegnato nella stessa università "Teoria dell'interpretazione musicale" e poi, dal 2004 al 2010, Estetica musicale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Pedagogia musicale all'Università di Salerno. Ha pubblicato "Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno" (Il Mulino, 2006), "Le dodici note del diavolo. Ideologia, struttura e musica nel Doctor Faustus di Th. Mann" (Biblipolis 2011), "Amore luminoso, ridente morte. Il mito di Tristano nella Morte a Venezia di Th. Mann" (Castelvecchi), e il libro-intervista "Ars Nova. ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica" (Castelvecchi 2017). Attualmente insegna Storia della musica al Conservatorio "F. Cilea" di Reggio Calabria.

Autres articles

1 COMMENTAIRE

  1. Squallida moda di stravolgere le opere in questo modo con la scusa dell'attualizzazione (di che ?). Ci tolgono l'atmosfera e la suggestione connaturati alla musica…quando finirà questo scempio senza senso ?

LAISSER UN COMMENTAIRE

S'il vous plaît entrez votre commentaire !
S'il vous plaît entrez votre nom ici