In questo caso McVicar riesce a rendere attrattiva in modo quasi da giallo cinematografico una trama assolutamente inverosimile e bizzarra che ha giustificato allestimenti in cui i personaggi sono stati resi in maniera parodistica. Invece il regista rende credibile il plot ed evidenzia, con la gestualità e i movimenti (curati da Colm Seery), le diverse psicologie dei personaggi, anche tramite un’attenzione accurata alla recitazione. La violenza, intrinseca al libretto, è spesso evidenziata con omicidi, duelli e scontri. Interessante che, all’antagonismo tra il Conte e Manrico (qui resi con una quasi specularità di sentimenti, come si dirà dopo parlando dei cantanti), viene affiancato un momento in cui due zingari si affrontano : sono dello stesso gruppo, i due zingari, forse anche fratelli, eppure si combattono, come succede (inconsapevolmente) ai due protagonisti, anch’essi fratelli. La storia si ripete, in ogni classe sociale ; la storia si ripete, in ogni paese del mondo ; la storia si ripete, financo in ogni famiglia : l’odio prevale sull’amore, la vendetta sull’affetto. Una tragedia personale e familiare assurge a metafora della tragedia di un intero popolo e di generazioni successive.

L’imponente scenografia di Charles Edward ha alla base una pedana rotante che consente alle scene di girare cambiando le ambientazioni in modo fluido e dinamico o anche di vedere due scene contemporaneamente. Unico elemento fisso, sullo sfondo a sinistra e in penombra, una serie di forche, o crocifissi, con appesi cadaveri bruciati o semimummificati : non solo la mamma di Azucena, ma altri corpi, altri cadaveri, altri omicidi. I vari momenti della rappresentazione scorrono fluidi e dinamici grazie alla rotazione della scenografia di grande impatto visivo e significativo : gli ambienti sono rappresentanti con grande perizia oppure evocati per tratti salienti.

I costumi di Brigitte Reiffenstuel situano vagamente l’azione nell’Ottocento e hanno precisi simbolismi, come il cappottone che Manrico mette sulle spalle di Leonora e che poi le viene tolto dal Conte. L’Ottocento evocato dallo spettacolo non è infatti precisamente storico e gli scontri a cui si fa cenno sono più metaforici, così anche la Spagna del libretto è lasciata a richiami di Goya più che a contesti specifici, cosa che rende le messa in scena, perfettamente illuminata da Jennifer Tipton, assai più attrattiva.
La direzione di Eun Sun Kim ha convinto e coinvolto. La coreana, alla direzione musicale dell’Opera di San Francisco, trae dall’orchestra suoni ricchi di sfumature ; il gesto è preciso e puntuale per illustrare con chiarezza ogni momento della partitura ; il pregio maggiore che abbiamo rilevato è la forte impronta personale in alcuni passaggi, che hanno aumentato la loro pregnanza dal punto di vista drammatico : via troppa levigatezza e un eccesso di compostezza, ecco contrasti, durezza quasi barbarica, vibrante tragicità. E Azucena che sconfina nella follia..

Angel Blue riesce, nel corso della recita, a trovare la via di una sua Leonora, ingenua e innamorata, molto intensa, magnetica per la presenza scenica e sensuale per la voce particolarissima ; convincente nei momenti di ripiego lirico, trova meno la chiave interpretativa quando il regista la chiama a sottolineare le fratture e le lacerazioni del personaggio.

Di Arturo Chacon-Cruz era stata annunciata una indisposizione e invece il tenore ha confermato i soliti ottimo controllo e uso sapiente della voce, pur non grande ; se lo slancio estremo nella “pira” non è perfettamente sostenuto, tuttavia nel contesto ciò quasi non si nota e il canto è addolcito o invelenito, a seconda delle esigenze, con grande musicalità, quella che proprio si addice a un trovatore e che merita l’apprezzamento e il plauso del pubblico, unita a un’incredibile attorialità.

George Petean, al suo debutto a San Francisco, è un interprete intelligente e duttile, in più sorretto da una buona tecnica nella costruzione del personaggio, a compensare ampiamente una voce non enorme ; l’emissione è solida e il baritono ha un buon controllo del fiato, ma soprattutto lavora con il cesello, rispettando tutti gli inviti di Verdi a sfumare, cantare piano, alleggerire. Il risultato è un Conte diverso dal solito, che, valorizzando i piano, le sfumature, i toni dolci, appare come un giovane cavaliere innamorato e pieno di passione, prodigo di slanci sensuali, bisognoso di affetto corrisposto, molto simile a Manrico, a cui non si contrappone ma si affianca, o meglio gli si contrappone politicamente e socialmente ma gli è vicino dal punto di vista sentimentale, essendo entrambi innamorati della stessa donna. Un’idea eccellente e teatralmente assai efficace, che suggerisce nuovi punti di vista nel terzetto dei protagonisti e che calca l’accento sulla follia di Azucena.

Ekaterina Semenchuk è Azucena, suo ruolo ideale, frequentato abitualmente da tempo e accentuato dalla regia e dalla direzione orchestrale : la voce dal timbro scurissimo e la linea di canto particolarmente curata rispecchiano le lugubri scene di assassini presenti sullo sfondo e rimandano e un atavica sete di vendetta connaturata nell’uomo ; quella voce si fa temibile, quasi “infernale” e un brivido corre nella schiena dello spettatore.
Un plauso al Ferrando di lusso di Robert Pomakov che efficacemente introduce la vicenda con la sua voce di basso autentico. La Inez di Mikayla Sager affianca bene la protagonista. A completare adeguatamente il cast il Vecchio zingaro di Bojan Knezevic, il Messaggero di Kevin Gino e Ruiz affidato a Edward Graves.
