A quarant'anni, Vasily Barkhatov vanta già una lunga carriera sia in Russia (ha studiato regia di teatro musicale a Mosca) che in Germania. Ha appena messo in scena due grandi successi, L'idiota di Weinberg al Theater an der Wien e Le Grand Macabre di Ligeti aa Francoforte. Fa parte di questa nuova generazione di registi che stanno spuntando ovunque e con i quali dobbiamo fare i conti. Per questa Turandot ha elaborato una narrazione preliminare che gli permette di contestualizzare l'opera senza tradirne lo spirito e il ritmo, perché conosce la musica e sa come far respirare un palcoscenico senza alcun tipo di incoerenza con la buca.
Il punto di partenza di Barkhatov è l'idea di una coppia di amanti entrati nel mito operistico, come Violetta e Alfredo, Romeo e Giulietta, che egli cerca di smitizzare alla ricerca della loro umanità.
Il libretto di Adami e Simoni pero non è molto simpatico con Calaf : Calaf persegue la sua idea ossessiva di conquistare Turandot in barba agli avvertimenti del padre e alle suppliche di Liù, e poi lascia Liù suicidarsi per non tradirlo. Barkhatov usa l'ossessione di Calaf per Turandot per costruire l'intero primo atto intorno a una scelta : lasciarsi morire o vivere a rischio dell'amore.
Così l'intero inizio della rappresentazione è un'induzione per lo spettatore – un elettroshock per alcuni. Prima una citazione della Divina Commedia di Dante, tratta dal Canto III dell'Inferno, poi un video che mostra un funerale (all'interno di San Lorenzo Maggiore a Napoli) il funerale di Timur, con Calaf e la famiglia in lutto che circondano la bara, e Turandot che si avvicina rigidamente senza toccare il cadavere prima che la bara venga chiusa.
Segue una discussione durante il viaggio di ritorno in auto della coppia, in cui apprendiamo tre informazioni essenziali :
- Turandot e Calaf sono insieme, ma in crisi
– Timur è stato appena seppellito
– Liù è stata il primo amore di Calaf, ma si è suicidata molto tempo fa tagliandosi le vene (ne vedremo parecchie volte il video).
E all'improvviso, un lampo di fari, un urlo, l’incidente.
Il sipario si alza su un'auto distrutta sospesa, i pompieri portano via Calaf in barella e Turandot, illesa, cerca di accompagnarlo.
A questo punto parte la musica e vediamo Calaf vivo, un po' incredulo di fronte al Mandarino (Sergio Vitale) che è solo il pompiere di prima trasformato in una strana figura spettrale.
L'ambientazione, opera di Zinovy Margolin, è una vasta navata gotica, che ricorda l'Abbazia di San Galgano in Toscana (di cui rimangono solo le mura) e che ha anche una leggera somiglianza con San Lorenzo Maggiore e persino con Santa Chiara, due importanti monumenti di Napoli.
Siamo lontani da Pechino, siamo infatti alle porte dell'Inferno, dove i pechinesi sono rappresentati come anime vaganti che sembrano uscite da un'antica incisione, con maschere di animali che ricordano quasi il ierzo atto del Falstaff (costumi di Galya Solodovnikova), a sottolineare la visione di un universo mentale dove Calaf ritrova il padre, che ha appena seppellito, e Liù, il suo primo amore che tempo fa si è tagliata le vene. In breve, siamo passati dalla città imperiale all'Inferno dantesco, dove ogni anima in partenza porta con sé la propria barca.
In questo primo atto, in cui Calaf si trova tra la vita e la morte, la scelta sembra essere tra seguire il padre Timur e Liù nella morte, che è ciò che entrambi sembrano chiedere (il testo del libretto è piuttosto interessante, inoltre, per la sua ambiguità) o scegliere di resistere (è in coma) e andare verso la vita, quindi Turandot. Come nell'originale, per Calaf la posta in gioco è vitale : esistere attraverso l'amore.
Poi dal soffitto scende una pesante scenografia che ospita una sala operatoria con tre medici impegnati intorno al corpo dell'uomo ferito, e a un certo punto Turandot entra disperata per vederlo, una scena che Calaf, nella sua forma sdoppiata, osserva dall'esterno, poi rivede sullo schermo la sua vita scorrere mentre vede il suo volto ringiovanire verso l'infanzia.
Quanto ai ministri Ping, Pang e Pong, essi appaiono nel sogno da incubo di Calaf con le stesse camici da medico e maschere da uccello, come se anch'essi lo incoraggiassero ad arrendersi e a lasciarsi morire. Mondo senza logica e da incubo.
Anche se non tutto è chiaro a prima vista, la trama si svolge senza intoppi, con fluidità, e Barkhatov usa abilmente il testo per far risaltare certi gesti, o anche la musica per convulsi moti dell'animo, trasformando la cineseria musicale in una danse macabre (un po' ridicole le coreografie di Dina Khuseyn – ma credo che questo servisse a "distanziare" l'opera). Tra l’altro, l'uso di vari strumenti a percussione nella partitura di Puccini, singolarmente valorizzato da Dan Ettinger, conferisce una certa logica e coerenza ai movimenti coreografici.
Barkhatov sottolinea che nell'opera (l'intervista nel programma di sala è interessante, corretta e sensibile, e dimostra che questo lavoro non ha nulla delle sciocchezze di cui sono accusati i registi "moderni") il primo atto è quello di Calaf e il secondo quello di Turandot.
Così, mentre Calaf trascende l'incidente d'auto e la sala operatoria per dichiarare la sua sete di vita e di amore alla fine del primo atto, il secondo atto è quello di Turandot, e Barkhatov immagina le stesse scene ma questa volta viste dalla parte della donna.
Così, al posto dell'Inferno dantesco, viene proiettato un estratto della leggenda di Orfeo ed Euridice vista da Ovidio nelle Metamorfosi, e il video mostra la coppia che continua a litigare in macchina, questa volta sul tema dell'impossibilità per Turandot di vivere la propria vita e il proprio amore.
- L'incapacità di Turandot di sposare un uomo a causa delle violenze subite in passato di donne nella sua famiglia.
- Poi lei incolpa Calaf di aver spinto Liù al suicidio.
Anche l'incidente avviene e il sipario si apre su Ping, Pang e Pong, dove Barkhatov segue perfettamente il testo, mostrando l'uno con una corona funebre e l'altro con i fiori per il matrimonio, intorno a una bara di legno da cui estraggono relitti di momenti (e morti) del passato. È una storia d'amore e di morte, ed è la storia di Turandot.
Barkhatov gioca ovviamente su diversi livelli di fantasmagoria, i tre ministri che sono i tre chirurghi intorno all'uomo (o alla donna) ferito/a quando evocano le loro regioni d'origine, Tsiang, Kiù, Honan, cominciano a sognare e il loro sogno si esprime con trucchi magici che tirano fuori dal corpo ferito, ghirlande, mazzi di fiori, lustrini, stelle filanti… Un momento di pura poesia che rimanda a ciò che voleva Puccini (la musica qui è sublime), ma allo stesso tempo con un rapporto che è totalmente al di fuori di ogni realtà. In un certo senso il regista sta ricreando un’altra fiaba, alla maniera, di Ruslan e Ludmila di Pushkin, ricordo d’infanzia di molti russi, dove Ludmila viene rapita il giorno del suo matrimonio e Ruslan va a cercarla in luoghi magici.
Poi riappaiono le ombre, le stesse del primo atto, barche e navi (che sono la "mobilità" degli Inferi) con di nuovo una danza macabra di ombre che brandiscono falcetti.
L'imperatore Altoum arriva poi in un sarcofago di cristallo su una barca come quelle dei faraoni morti degli egizi, vestito da mummia (è truccato ad hoc quasi come una mummia Inca o egizia e ha un costume da scheletro avvolto nell'oro) imbalsamata nel periodo barocco, evocando un passato lontano dove non c'è più età. Anche per questo è stato chiamato Nicola Martinucci, una gloria passata del canto che sembra tornata dai recessi di momenti teatrali passati (è stato Calaf al San Carlo) una traccia di storia, di memoria, di glorioso passato, un gioco in un certo senso speculare.
L'auto distrutta cade poi (di nuovo) dalla passerella, con la stessa musica del primo atto (è questo che ha spinto Barkhatov, dopo il primo atto-Calaf, a fare il secondo atto-Turandot), questa volta con Turandot che guarda il suo corpo in coma portato via dai pompieri e poi a sua volta contempla la sala operatoria, che scende di nuovo dalla passerella : questo su e giù di auto e sala operatoria è la grande debolezza tecnica dello spettacolo. La necessità di ripetere i motivi è comprensibile dato il parallelismo voluto dall'esplorazione dei destini/anime dei due personaggi, ma la ripetizione è particolarmente pesante dal punto di vista teatrale, anche se riflette lo spazio di realtà/fantasmagoria voluto dal regista e anche se ricorda al pubblico di non lasciarsi mai prendere dall'illusione di ciò che sta vedendo.
Questa volta è Turandot che vede il suo volto ringiovanire, fino a diventare una bambina, mentre il coro dei bambini canta, evocando i traumi del passato (senza dubbio uno stupro) che giustificano il suo desiderio di proteggersi, Allo stesso tempo, è vestita con un'armatura "alla Jeanne d'Arc" mentre canta "In questa reggia", l’aria che ricorda uno stupro iniziale in famiglia nel passato, e dietro di lei, ancora una volta la sala operatoria, questa volta con Calaf che entra per vegliare sul corpo comatoso di Turandot.
Al momento degli indovinelli, lungi dall'essere separati, i due coniugi sono lì, faccia a faccia, così vicini che Calaf accarezza persino la guancia della donna con un sorriso.
E per ogni domanda c'è un indizio in ogni gesto e ogni sguardo della donna, prima (per la speranza) nell'apparizione della sala operatoria, poi (per il sangue) di Liù, che si è tagliata le vene e per l'ultima, “Turandot”, ella scende dalla barca di Altoum, si toglie l'elmo, fa capire con ogni parola che si tratta di lei, insieme ardente e angosciata, e lui invece distante, prolunga il piacere dell'attesa, poi le prende la mano per dare la risposta "Turandot".
Come in un game show, "Chi vuole vincere Turandot?", ogni risposta è scritta al neon, e l'ultima risposta, “Turandot”, inonda il palco di luci al neon viola che ne riproducono il nome. È una scena molto ben costruita, senza dubbio uno dei momenti migliori della serata, perché c'è – cosa rara – una vera e propria messa in scena che identifica i due personaggi e soprattutto mostra il "disgelo" interiore di Turandot. E Barkhatov fa capire abilmente che l'atteggiamento di Turandot dimostra che è già sconfitta. È qui che entra in gioco la questione dell'umanità dei due personaggi, e soprattutto che si invertono i ruoli : è Calaf che ora giocherà con una Turandot persa.
L'atto si conclude con Calaf vestito con il costume bianco dello sposo delle favole, che Turandot rifiuta nonostante la sua confusione.
Interessante è anche la gestione di Barkhatov degli scambi finali, in particolare il modo in cui Calaf risponde a una Turandot smarrita e affranta Dimmi il mio nome prima dell'alba e all'alba morirò con una sorta di calma sicurezza che contrasta con l'angoscia della donna.
L'auto schiantata scende dall’alto di nuovo nell'immagine finale…
Forse la volta di troppo…?
Il terzo atto è risolutivo, ma in questo caso sarà sul duplice piano, quello della trama "normale" e del duetto d'amore finale scritto da Franco Alfano e poi quello della storia che Barkhatov ha voluto raccontare, ovvero del modo in cui risolverà i fatti esposti nel primo e nel secondo atto. Quello che bisogna capire è che da una parte Calaf e dall'altra Turandot si sono proiettati nella tragica situazione di essersi persi a vicenda nell'incidente iniziale. Fino a che punto, e soprattutto come, si svilupperà la fantasia ? La morte d'amore alla Tristan und Isolde ? Oppure il risveglio e la guarigione delle ferite reali che contemporaneamente sanano la crisi della relazione ? A questo punto, tutto è possibile.
Il palcoscenico è la fantasmagoria, la realtà (apparente) è l'auto distrutta e la sala operatoria l'elemento ossessivo, come abbiamo visto (un po') dirompente e faticoso per lo spettatore, con i vari movimenti che si sono sentiti in sala quando, all'alzarsi del sipario del terzo atto, nel momento chiave per lo spettatore del "nessun dorma" di Calaf, è ancora una volta la sala operatoria ad essere protagonista durante l'introduzione strumentale e corale e non Calaf che tutti aspettano. Turandot è nel letto e lui veglia sul corpo della donna, poi lui è nel letto e lei veglia sul suo corpo, in due flash (brevemente interrotti da un immagine di pioggia su una finestra) della sala operatoria mentre la musica introduce l'aria e il coro canta "pena la morte", che è abbastanza in sintonia con ciò che si vede.
E questa volta entra finalmente Calaf, vestito tutto di bianco, come il principe azzurro deile fiabe, che guarda la sala operatoria dove lei veglia su di lui in coma mentre, in un opportuno paradosso, inizia il suo "nessun dorma".
È nel terzo atto che il lavoro di Barkhatov sulla direzione degli attori, particolarmente preciso e accurato, e sulla coerenza dei vari episodi del libretto con la sua "storia" è al massimo del virtuosismo, compresa la coerenza musicale, in quanto la parte "pucciniana", con la sua intensità molto maggiore di quella "alfaniana", si riflette anche sulla scena.
La nuova apparizione dei ministri Ping Pang e Pong, sempre mascherati (nell'opera di Gozzi ricordano le maschere della commedia dell'arte, in una Cina di colore veneziano, e il libretto utilizza questi personaggi tra commedia e tragedia, una sorta di intermediari incaricati di ammonire o proteggere Calaf). In questo allestimento, essi presiedono a una strana cerimonia in cui viene avvicinata la barca in cui riposava il sarcofago dell'imperatore Altoum, Calaf viene fatto salire a bordo e vestito con abiti dorati che ricordano quelli di uno splendido funerale, una sorta di pre-mummia fiorita, e Calaf risponde "Alba vieni ! quest'incubo dissolvi" mostrando ancora una volta la cura di Barkhatov nell'abbinare il testo all'immagine. Calaf si spoglia dai vestitti di « mummia », spinge la barca al largo e torna gridando "inutili preghiere, inutili minacce… voglio Turandot" mentre la sala operatoria scende dall’alto, sospesa come una spada di Damocle, per poi sparire con l'ingresso quasi simultaneo di Turandot in armatura d'oro e di Timur e Liù.
Inizia quindi una grande cerimonia di morte, la seconda morte di Liù.
I ministri brandiscono un falcetto, una sorta di sostituto della falce, l'attributo della morte.
La scena si svolge più o meno come nella versione tradizionale, con la notevole differenza che ci troviamo in una fantasmagoria in cui Liù in realtà non è se stessa ma la sua anima, proprio come Timur, e che essendosi suicidata per amore di Calaf, a cui presenta il falcetto, in un certo senso rispiegherà il suo gesto a Turandot, scomparendo poi definitivamente dallo spazio mentale di Calaf e Turandot, non senza averli simbolicamente uniti unendo le loro mani in un movimento molto bello. Barkhatov presta tra l’altro molta attenzione agli sguardi e ai movimenti di Turandot.
Liù non si taglia ancora una volta le vene (rivediamo in video la scena del suicidio già vista nel primo atto), ma prende la sua barca, si copre la testa con la strana cuffietta di paglia che caratterizza il percorso dei morti fin dall'inizio dello spettacolo, e se ne va, per poi riapparire in fondo al palcoscenico, in ascensione verso il Cielo, proprio come Timur, che se ne va anche lui pochi secondi dopo, evocando la morte di Liù come un nuovo risveglio (Apri gli occhi colomba).
È ovviamente tutto il rituale eros-thanatos che viene qui richiamato, evocato, riprodotto, e con la morte di Liù è triplicemente simbolico : Liù muore in questo limbo una seconda volta, non essendo riuscita a trattenere Calaf, muore offrendo il suo amore in dono a Turandot, muore per ridare vita. Ma la morte di Liù è la fine della Turandot di Puccini e quindi la morte di Puccini, una fine che si conclude con l'aria tu che di gel sei cinta, il cui motivo Puccini ha preso dalla Sagra della primavera di Stravinskij, e in cui vedo quasi un terzo elemento simbolico : la morte per rinascere, la primavera della rinascita degli amanti che è anche la primavera di una nuova musica, quella che a Puccini interessava tanto.
Così la Turandot di Puccini si conclude con un grande rituale, molto pulito, molto fluido, che non contraddice affatto il libretto originale e anzi gli conferisce a questo punto una maggiore grandezza.
L'ultima parte, quella di Alfano, può iniziare dopo un marcato silenzio.
Il duetto è visto come una decostruzione/ricostruzione del personaggio di Turandot. Coerentemente con il "Turandot non esiste" scritto sulla finestra della sala operatoria nel secondo atto, lei grida "cosa umana non sono", ed è Calaf che intraprenderà la sua umanizzazione, rimuovendo gradualmente tutti gli elementi della sua armatura fino a ridurla a un semplice abito nero, partendo dall'elmo e rivelando i suoi lunghi capelli biondi. È quasi come se Sigfrido togliesse l'elmo e l'armatura a Brünnhilde per rivelare finalmente la donna in un "Heil dir Liebe…!" (saluti a te Amore) (in Wagner è Heil dir Sonne, saluti a te Sole) in un gioco in cui le parole rifiutano ciò che il corpo in realtà è pronto ad accettare. Tra l’altro c'è una vera e propria analogia tra questo duetto e quello di Siegfried-Brünnhilde nel terzo atto del Siegfried di Wagner. È difficile che Barkhatov non ci abbia pensato di sfuggita. Seguendo il respiro della musica e un eloquente silenzio, dopo aver lottato, Turandot si precipita da Calaf e finalmente lo bacia.
Il finale può davvero iniziare, con la sua musica un po' sciropposa e chiassosa.
E la fine del duetto è una sorta di Finale di Musical, un po' facile e voluto (ironia?), in cui i due vestiti di bianco cantano l'amore, lei che si congeda dalla sua gloria (l'armatura) e via via cede alla dolcezza del momento e confessa la sua debolezza non appena è apparso Calaf (la luce degli eroi...).
Le ultime immagini, la discesa finale dell'auto distrutta durante il trionfale canto d'amore e le luci al neon che ricordano gli enigmi in una sorta di melting-pot di ciò che è stato prima, mentre le "ombre" riappaiono, come Altoum nel suo sarcofago di cristallo. L'auto risale in alto, la coppia avanza nel centro del palcoscenico come a Broadway, Turandot indirizza ad Altoum l'ultima battuta Il suo nome è amore e la parola amore in lettere al neon scende dalla passerella per aggiungersi al resto, mentre la sala operatoria scende un'ultima volta (il pubblico teme…) ma è il video iniziale della discussione in auto che viene proiettato sullo schermo esterno, che è finalmente quello di ciò che è realmente accaduto : All'ultimo momento, l'incidente è stato evitato e la coppia, spaventata e sollevata, può finalmente baciarsi. Tutto ciò che abbiamo visto negli ultimi tre atti è stato questione di un secondo, mentre i due hanno valutato le loro vite e il loro amore.
Le cose della vita, insomma come nel film l’Amante di Claude Sautet (1970)… Happy End
Il lavoro di Vasilij Barkhatov è stato innegabilmente meticoloso, con grande attenzione al lavoro degli attori, alla logica e alla coerenza dei movimenti, e nonostante la "nuova" storia inventata, ha saputo lasciare che il libretto si svolgesse rispettandone, ove possibile, la fluidità. L'idea iniziale di umanizzare il rapporto di coppia, di non trasformare mai Turandot in una forma remota e congelata, di collocare questa storia all'interno delle grandi storie d'amore della letteratura e del mito, Orfeo ed Euridice o la Divina Commedia (Paolo e Francesca) è seducente. Quanto più che per i Romani, l'ingresso agli inferi doveva essere il lago d'Averno, nei Campi Flegrei, a due passi dal centro di Napoli, dove anche è ambientata la scena del funerale di Timur (San Lorenzo Maggiore). Tutto ciò è tutt'altro che sciocco, e il soggetto stesso è coerente con questo racconto che intreccia costantemente i temi dell'Amore e della Morte, per non parlare dell'ambientazione dell'Abbazia di San Galgano presso Siena, che è una delle location del film di Tarkovskij, Nostaghia (Ностальгия), un film (1983) sulle reminiscenze, i riti di passaggio, la vita e la morte. Tarkovskij resta uno dei più grandi cineasti e registi di fine Novecento in Europa e per un artista russo un punto di riferimento assoluto.
Ma in questa profusione di idee piuttosto accattivanti prese singolarmente, come il carattere originalissimo dato a Turandot rispetto alle rappresentazioni consuete, o anche le inquietudini incrociate dei due protagonisti, o ancora il rituale della morte di Liù o la visione dell'imperatore Altoum come una mummia proveniente dalle profondità del tempo, la sovrapposizione di dati, la pesantezza dell'allestimento (la sala operatoria o l'auto che salgono e scendono fino all'indigestione) mostrano una concezione dello spazio maldestra o mal concepita, che pesa sulla leggibilità dell'insieme, nonostante l'efficace illuminazione di Alexander Sivaev. Allo stesso modo, l'idea delle anime infernali dantesche è inizialmente seducente, ma si diluisce progressivamente in una "burla" alla Falstaff nel terzo atto, anche se l'idea della rappresentazione fantasmagorica dell'inferno dantesco è comprensibile, e può risultare un po' ridicola o eccessiva, una sorta di realtà aumentata per un'anima angosciata o distanziata alla Brecht… E poi, una altra fiaba, la sua, al posto di quella di Gozzi.
Certo, se si legge la bella intervista a Barkhatov nel programma di sala, si capiscono tutte le sue intenzioni, ma uno spettacolo deve essere leggibile fin dall'inizio, anche se certi riferimenti possono sfuggire. In questo caso non è sempre così. Un esempio di “troppe idee uccidono l’idea”, che per me conferma l'intelligenza e la sensibilità del regista, il quale però, nel suo desiderio di essere spettacolare e appariscente, si è lasciato intrappolare dall'arroganza di mostrare subito a un nuovo pubblico quello che sapeva fare. È un peccato, perché in quest'opera ci sono dei bei momenti, che non vanno né trascurati né calpestati, tutt'altro.
Gli aspetti musicali
Il primo punto da sottolineare è la coerenza che esiste tra la buca e il palcoscenico e l'attenzione del regista a non dimenticare mai il ritmo della musica. In questo modo, le due cose lavorano insieme in modo sorprendente, perché mentre la messa in scena non tradisce mai la musica, l'accompagnamento musicale respira con il palcoscenico in modo armonioso e gradito.
La direzione vigorosa e dinamica di Dan Ettinger crea effetti spettacolari, isolando dalla partitura alcuni momenti molto futuristici (uso di vari tipi di percussioni), e ci sono alcuni momenti davvero folgoranti che mostrano alcune delle intenzioni di Puccini e la sua curiosità per i cambiamenti musicali dell'epoca. Sebbene l'orchestra del San Carlo abbia un buon suono e gli strumenti solisti siano messi in risalto e talvolta enfatizzati (le percussioni in un palco sotto gli occhi di tutti), ci sono altri momenti in cui la lettura manca della trasparenza necessaria a far emergere tutte le caratteristiche originali della scrittura pucciniana ; ciò è ovviamente meno evidente nell'ultima parte (Alfano), dove viene meno lo spessore dei dettagli, a favore del suono e del volume. Ciononostante, l'esecuzione complessiva è da lodare, e nella sua prima “Prima” come direttore musicale Dan Ettinger ha ottenuto un bel successo al sipario finale. Inoltre, riesce a tenere insieme le masse importanti, il Coro del teatro San Carlo, che ha fatto enormi progressi, qui preparato da Piero Monti, e il coro di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi, che insieme fanno una gran bella figura.
Le voci
Il cast è dominato dalle due protagoniste femminili, Sondra Radvanovsky come Turandot e Rosa Feola come Liù.
Sondra Radvanovsky offre un'interpretazione sorprendentemente insolita, nel senso che non siamo abituati a sentire Turandot cantata in questo modo sul palcoscenico. In questa produzione non ha nulla della principessa lontana e inaccessibile, come abbiamo già notato, e quindi canta in modo più "umano", come se mettesse in scena ogni parola, cesellandola in modo glaciale o soave, usando una varietà di colori, e ci sembra di sentire dietro questa interpretazione l'intera esperienza delle eroine belcantiste. In questa sorprendente Turandot, riesce a dimostrare che l'arte del canto di Puccini deriva sia da una preoccupazione per la parola e le sue sfumature sia da tecniche belcantistiche dominate e utilizzate per evidenziare accenti e inflessioni. Niente suoni fissi, niente toni gelidi, ma piuttosto un canto vibrante e variegato, dove sotto la rigidità e il rifiuto la brace irrompe. Il risultato è un canto raffinato, altamente espressivo, con una tecnica di ferro, una voce omogenea in tutto lo spettro, una tenuta di fiato impeccabile, un fraseggio esemplare dove non un solo acuto, nemmeno il più temibile, è scagliato o gridato, ma preparato e, soprattutto, sembra "psicologicamente" giustificato, e quindi viene naturale coronare un discorso. Una Turandot la cui interpretazione intelligentissima è un gradito cambiamento rispetto ai lontani mostri di ghiaccio, facendo emergere tutte le profondità psicologiche e le debolezze del personaggio.
Rosa Feola, l'altra trionfatrice, è senza dubbio la migliore Liù che si possa trovare oggi sui palcoscenici, sfoggiando una tecnica e una linea vocale impeccabili e, soprattutto, una sensibilità che le permette di comporre un personaggio struggente. La voce è cresciuta di statura, incarnando qui un personaggio determinato e assertivo che sa anche giocare sugli accenti e sui colori, con una tenuta di fiato sorprendente e un controllo costante del volume che garantiscono pianissimi da sogno. Una performance eccezionale.
Yusif Eyvazov è un Calaf impegnato, dalla dizione chiara, molto attento all'emissione e ad ogni parola, molto attento a dare al ruolo un vero spessore musicale. Ha un volume notevole, sa risparmiarsi per attacare gli acuti (con qualche piccolo problema di emissione) che affronta con grinta, senza mai vacillare, con grande applicazione e serietà. Ma il personaggio manca di un carisma scenico che la messa in scena non aiuta a far emergere (a differenza di Turandot, per esempio), e forse non è aiutato da un timbro che non ha le qualità solari di altri tenori in questo ruolo. Resta il fatto che questo Calaf è solido, impegnato e fa onore alla serata.
Alexander Tsymbalyuk è un Timur di lusso, sempre eccellente in personaggi dalla forte umanità, ogni sua interpretazione segnata da una voce solida, anche se meno duttile che in alcuni dei suoi ruoli più idiomatici.
Non possiamo non salutare i tre ministri Ping, Pang, Pong, Roberto de Candia, Gregory Bonfatti e Francesco Pittari, che eccellono per la precisione dell'insieme, l'uso del colore nell'interpretazione del testo, la dizione impeccabile e il modo in cui cesellano le parole, così importanti nei loro ruoli che devono porre l’espressione al primo piano.
Sergio Vitale ha fatto una performance ben affermata e robusta, nel ruolo del Mandarino, mentre gli altri ruoli di supporto sono stati affidati ad artisti del coro (Valeria Attianese e Linda Airoldi neil ruoli della prima e della seconda cameriera e Vasco Maria Vagnoli nel ruolo del Principe di Persia).
Infine, ho voluto riservare per ultimo il ruolo dell'imperatore Altoum affidato a Nicola Martinucci, un bell'omaggio a lui, uno dei Calaf più importanti degli anni Novanta e al San Carlo nel 2002, che entra in scena vestito da mummia nel suo sarcofago di cristallo (in sintonia con l'augurio della folla diecimila anni) e, come in un'eco, pronuncia le sue prime parole in sintonia col libretto che annota : con voce stanca da vecchio decrepito. La voce mostra la sua età (82 anni) ma rimane chiara, con una dizione impeccabile, e Martinucci le conferisce quello sguardo stanco che è il tono del personaggio.
Non c'è nulla di ridicolo nella sua apparizione, nel contesto voluto dalla messa in scena, ma al contrario è un momento di intensa emozione, uno di quei momenti in cui, come suggerisce la messa in scena, emerge una sorta di eternità.
Un momento di contrasto, musicalmente particolarmente curato, vocalmente di alto livello, scenicamente discutibile qualche volta ma molto intellgente che pone al centro la morte. La parola discutibile vuol dire uno spettacolo che fa reagire, la prova che il teatro è vita.
E la vita è amore, come ci dice questa produzione.
Lo spettacolo puo’ essere visto su RAIPlay :
https://www.raiplay.it/programmi/turandotteatrosancarlo