Merito al Teatro Regio di Parma l’aver proposto la versione in francese di Macbeth, una rarità. Commissionata dal direttore del Théatre Lyrique Impérial di Parigi nel 1864 dietro una lauta offerta di compenso, questa edizione consentì a Verdi di lavorare su uno spartito di oltre sedici anni prima e che non corrispondeva più al gusto dell’epoca e all’evoluzione musicale del compositore, dovendo peraltro nella riscrittura inserirsi il balletto, di prassi secondo il gusto francese. La versione del 1865 accresce la tinta oscura e torbida della vicenda, la scrittura vocale si piega maggiormente a rendere le psicologie dei personaggi, unitamente alla distorsione del colore orchestrale, per giungere all’atmosfera fosca e cupa del dramma, rendendolo più impressionante possibile, tanto che il compositore impose raccomandazioni sugli effetti scenografici, sulla potenza della parola e sulla gestualità : “l’obiettivo di Verdi resta la resa del magma oscuro dell’animo umano attraverso una presa di posizione sulle priorità dei valori civili e sulle minacce della fragilità della psiche”, si legge nel programma di sala. E proprio da questa affermazione ci sembra sia partito Pierre Audi per la regia, che toglie oggetti e orpelli al fine di rendere tangibile una vicenda psicologica e mentale.
Lo spettacolo è diviso in due parti con un solo intervallo. Nella prima parte (corrispondente a primo e secondo atto della partitura) la scenografia di Michele Taborelli riprende la sala del Teatro Regio di Parma con un gioco di specchi e proiezioni ; l’allestimento, ambientando la vicenda su un palcoscenico, la spettacolarizza e, al tempo stesso, la rende più intima e privata (un po’ come nel Don Giovanni di Carsen della Scala). Le streghe annunciano le loro profezie come se fossero nella platea del teatro, mentre alle loro spalle si specchiano le linee regolari dei palchi vuoti e immobili, generando sensazione di inquietudine e turbamento nello spettatore. Poi sipari rossi avvolgono l’ingresso della Lady, come la donna fosse in proscenio. Nella seconda parte (corrispondente a terzo e quarto atto della partitura) si ha un rovesciamento della prospettiva e il palcoscenico è visto da dietro o meglio dall’interno, rivelando le assi che mantengono le quinte e il fondale, privi di copertura, così a apparendo come grate di prigione. I costumi di Robby Duiveman sono per la maggior parte ottocenteschi, lasciando a Macbeth un rigore di linee invero quasi contemporaneo a noi. La coreografia del ballo di Pim Veulings pone quattro danzatori (un uomo e tre donne : Macbeth e le tre streghe personificate nella Lady o meglio le tre streghe come diretta emanazione della Lady) alle spalle dei due protagonisti e racconta il susseguirsi di delitti perpetrati dalla coppia e la frustrazione per non avere avuto figli. Le luci di Jean Kalman e Marco Filibeck contribuiscono alla resa antirealistica dell’allestimento, essendo essenziali nel creare quell’atmosfera cupa e torbida che alberga nella mente di Macbeth e della sua Lady. Davvero determinante alla resa è anche l’uso della lingua francese, insinuante come un tarlo che scava lentamente ma inesorabilmente nel cervello della coppia. Se nella Lady ciò è visivamente reso anche dal progressivo disfarsi dell’acconciatura (prima uno stretto chignon che poi lascia cadere alcune ciocche e che infine lascia il posto a capelli sciolti e ondulati), in Macbeth sono la mimica facciale, i gesti e i movimenti del corpo a rendere l’alienazione. Non ci sono elementi scenici, si diceva, tranne alcune sedie e la pedana quadrata che, quasi al centro del palcoscenico, scende a creare una sorta di buca, uno spazio ulteriore di movimento per protagonisti e coro, consentendo di diversificare gli ambienti e di pensare a un “profondo oscuro”. Ma invero è proprio l’oggetto-sedia a costituire il segno registico : nel primo atto le coriste – streghe trascinano sedie, prima ordinate in un serrato quadrato come una falange macedone, per poi farle ruotare nel finale d’atto su una gamba, stesso gesto che Macduff compie in proscenio durante il finale ultimo dell’opera. Quell’equilibrio precario della sedia su una gamba e quel ruotare vorticosamente ci danno il senso di una mente malata che si avvita su sé stessa precipitando in un gorgo. Senza via di uscita.
La lettura di Roberto Abbado è estremamente teatrale e il discorso musicale è principalmente volto a indagare le pieghe più recondite di una psiche turbata. A un suono curato come fosse cameristico, seguono momenti di deflagrazione sonora che, nel contrasto, diventano ancora più pregnanti ed emotivamente coinvolgenti. Il preludio ha sonorità quasi evanescenti, che creano un clima di attesa e di sospensione : qui non serve l’aggressività ascoltata altre volte, anche l’apparizione delle streghe non calca la mano sul soprannaturale, come pure il duetto Macbeth – Banquo è quasi sommesso, come se il terrore per l’ignoto scorresse sottopelle. Abbado crea musicalmente un cupo ambiente claustrofobico, perfettamente in linea con l’impianto scenotecnico e le scelte registiche.
Lidia Fridman si impone come Lady anche fisicamente, fin dal suo apparire che è estremamente scenografico : di spalle davanti al sipario rosso con la lettera in mano, si volta lentamente mentre è la voce di Macbeth a leggerne il contenuto, in un rimando vorticoso di menti già non più lucide ; magistrale l’esecuzione dell’aria del calice, prima illuminata accenti di gioia e trionfo e senza ombre, poi venata da toni preoccupati e tesi e sguardo febbrile ; la voce è ampia e il timbro è giusto per il ruolo, brillando per accenti e sfumature, dagli scarti verso l’acuto ai registri centrale e grave sonori e vibranti. Accanto a lei è perfetto vocalmente e attorialmente Ernesto Petti, turbato e ansioso, cupamente angosciato da un confronto interiore con un sé stesso ancora sconosciuto ma del quale inizia a intuire gli inquietanti contorni : è bravo nella scena notturna con la Lady, in cui l’angosciata presa di coscienza per quanto ha commesso prevale sulla protervia dominatrice della moglie che lo sovrasta anche fisicamente (il tutto è amplificato dalla scena del ballo, dove al turbamento per quanto commesso si sovrappone il senso di colpa per la mancata paternità). Aspetto giovanile e voce profonda per il Banquo di Riccardo Fassi, squillante il Macduff di Luciano Ganci che fa apprezzare la propria limpida linea musicale. Adeguati la Comtesse di Natalia Gavrilan e il Médecin di Rocco Cavalluzzi. A completare il cast Eugenio Maria Degiacomi, Agata Pelosi e Alice Pellegrini. Ottima la prova del coro del teatro preparato da Martino Faggiani.