“Avanti la fine dell’anno 1844, che aveva cominciato così bene per lui, Verdi diede a Roma, sul teatro dell’Argentina, I due Foscari (3 novembre). Quest’opera, che non ebbe mai il pieno favore dei pubblici, venne tosto seguita dalla Giovanna d’Arco, che fu data a Milano il 15 febbraio 1845. Colla Giovanna d’Arco il compositore ricompariva sul teatro della Scala che gli era sempre stato così favorevole, e che nondimeno dopo allora non ne ritentò più le sorti con opere nuove[1]. Quest’ultima riportò ancora un vivo successo ; ma è forse giusto dire che una parte di esso toccava direttamente alla sua protagonista, la Frezzolini, allora in tutto lo splendore della sua bellezza, raggiante della sua voce incomparabile e del suo meraviglioso talento. Tenderebbe a provarlo il fatto che la Giovanna d’Arco non fu mai accolta altrove tanto trionfalmente come a Milano[…]” [2]
Giovanna d’Arco non è un capolavoro e, stranamente, poco sappiamo della sua storia. Ennesimo lavoro giovanile composto in fretta e furia, dove pure si trovano soprattutto nella prima parte diversi momenti importanti, la successione dei brani per quanto complessivamente breve mette a dura prova la tenuta complessiva della serata.
Verdi, con una scrittura a singhiozzo che procede a fatica, questa volta non trova i suoi marchi di fabbrica e rimane un passo indietro al livello dei grandi appuntamenti. Nel disastro di un libretto che tocca più volte trionfalmente il genere del ridicolo[3], la figura di Giovanna, passando tra resti di improbabili guizzi belcantistici e recitativi irrisolti, costantemente manipolata dall’interlocutore di turno, bamboleggia e finisce per risultare un’eroina da organetto piccina piccina.

Le cose vanno ancora peggio con i due ruoli maschili. Se il vero Carlo VII fu per lo meno determinato opportunista nel perseguire il proprio interesse, il nostro è un tenore piagnucoloso, costantemente indeciso, sempre pronto a lamentarsi della sua sorte annoiando a morte chiunque gli capiti a tiro. Pensasse almeno un momento a combattere !
Delusione più grande dalla figura paterna. Ben sappiamo quanto amore, sapienza scenica e musicale Verdi abbia dedicato alle figure paterne. Ogni aspetto Verdi ne ha esplorato nell’arco della lunga vita creativa. Padri di figlie in contrasto, padri affettuosi, padri che agiscono per il male pensando di far bene, padri scellerati, padri amanti e traditori, padri ripudiati, padri vendicatori…..padri mancati ! Ogni volta la possibilità di approfondire un aspetto della figura, attraverso ogni opera la costruzione di una galleria di ritratti degna degli Uffizi !
Ma anche su questo fronte, questa volta niente da fare. La stessa figura di Giacomo si rivela stanca e inconsistente. Questo padre che si aggira tra il campo francese e quello inglese, chissà poi passando da una parte all’altra grazie a quali abilità di intelligence, è pieno di pregiudizi, borioso e noioso. Alla fine, dopo aver moraleggiato senza motivo per tutta l’opera, in due minuti si pente e parte per una tardiva e inutile retromarcia.

Dar forma e coerenza a siffatta materia è sfida ardua. La regista Emma Dante, anche lei, non riesce completamente nell’impresa ma ne esce comunque con onore.
Realizza uno spettacolo intelligente, senza grosse cadute di tensione e, per la più parte, bello anche solo a vedersi, in particolare nella prima parte, seppure lo spettacolo inizi, banalmente, con la solita sfilata di soldati malconci durante la sinfonia iniziale.
Idea vecchia e veramente fastidiosa, non se ne può veramente più, specie quando distoglie da un’eccellente esecuzione musicale che rende giustizia al pezzo((ci si ricorda della sua presenza in una celebre serie di incisioni verdiane ad opera, niente meno, dei Berliner Philharmoniker diretti dal nume Karajan)). Sarà una delle poche cadute della serata. Lo spettacolo cresce e per fortuna, dopo un'anonima entrata di Carlo VII, a far salire la temperatura contribuiscono le belle scenografie ideate da Carmine Maringola, che non fungono da mero complemento ma sono, al contrario, essenziali nel definire il clima del momento. Oggetti che si stagliano con grande attenzione ai colori e al contrasto tra scale di grigi e pastelli squillanti. Inutile cercare col lanternino relazioni sceniche o approfondimenti sulla psicologia dei protagonisti, non ne troveremmo nella regia, ma ecco una geniale scena della foresta caratterizzata da grigi e lividi alberi a tutta altezza che sembrano colati nel cemento armato, una quinta degna del degrado di una periferia urbana dei nostri giorni. Da brividi lungo la schiena. Splendido il contrasto tra questa scena e quella degli archi di rose organizzati a viale di giardino, luminosa e sgargiante immagine.

Poco alla volta la fantasia si va spegnendo dal secondo atto in poi. Delude tra le scelte della regia la definizione della protagonista. La nostra Giovanna all’inizio è un’Odabella dalle polveri bagnate, tutta cimiero e spada di plastica, una donna perennemente in bilico tra la sensualità e lo slancio guerriero da eroina di carta pesta, di rosso fasciata. Non è dunque un caso che venga a lungo ignorato il richiamo alla bandiera, simbolo dell’ideale di Nazione rispetto a cui Giovanna d’Arco costantemente sente la necessità di donarsi, e in questa produzione così trascurata. Quando, finalmente, la bandiera farà la sua entrata la ritroveremo rosso fuoco come la sua straordinaria protagonista, che resta dunque una donna alle prese con il proprio dramma personale e non una vergine in bilico tra l’ideale e il reale.
Michele Gamba si conferma come uno dei nostri migliori direttori d’orchestra. Bastano poche battute col tono sommesso dell’inizio della sinfonia per farsi un’idea della serata : orchestra presente ma mai chiassosa, anche quando è necessaria la giusta dose di volgarità musicale. Nel rispetto dello stile dell’Autore trova, e ci fa ascoltare in maniera inusuale, analogie tra lo stile compositivo della Giovanna d’Arco e la scrittura donizettiana[4], evidenti così non solamente nel finale dell’opera.
Al direttore riesce l’arduo compito di infondere continuità all’opera, facendo leva sul collante di una concertazione cameristica a servizio di sonorità talora esuberanti persino per un Verdi degli anni di galera.
L’operazione musicale riesce anche grazie all’impegno di tre corretti protagonisti, tra cui spicca una giovane promessa.
Nei panni della protagonista il soprano georgiano Nino Machaidze è padrona della scena. Non le difettano esuberanza e adesione incondizionata alla causa del personaggio, di cui viene in qualche modo a capo delle difficoltà musicali pur disponendo di una organizzazione tecnica non propriamente adeguata al belcanto. Voce generosa ma disuguale nei registri, più a suo agio in quello grave che nell’avventuroso passaggio al registro acuto, cresce nel corso della recita. Una migliore articolazione gioverebbe alla proiezione del suono e al fraseggio, cui difettano la “giustezza” e l’immediatezza verdiana.

Voce bella per omogeneità e timbro quella che Luciano Ganci mette a disposizione di un Carlo VII corretto ma dalle polveri bagnate, quasi intimidito davanti a tale protagonista. Anche lui cresce nel corso della serata, con la giusta consapevolezza dei propri mezzi potrà scrollarsi di dosso l’aria da Nemorino malcapitato sul campo di battaglia.

Destinatario degli applausi più generosi, anche al termine delle sue arie, le note più liete giungono così dal baritono mongolo Ariunbaatar Ganbaatar, che riesce a render credibile e non fastidiosamente antipatica l’insipida figura del padre errante e vociferante. Presenza scenica invidiabile, la voce è importante per timbro ed estensione, tecnicamente solida anche se non ancora granitica come quella dell’illustre connazionale Enkhbat ma, rispetto a quest’ultimo, più vario nell’accento. Da rimarcare l’espressività del fraseggio supportato dall’eccellente dizione, che fanno ben sperare per l’annunciato Jago del prossimo Verdi Festival 2025.

[1] Nel 1881, anno di pubblicazione della biografia del Pougin, ancora non erano risuonate le note di Otello e Falstaff
[2] Giuseppe Verdi, Vita aneddotica, Arturo Pougin, Milano 1881, pgg. 52 e 53
[3] Per fortuna degli uditori, resteranno impareggiati i versi del Coro di Spiriti Malvagi :
Quando agli anta
l'ora canta
pur ti vanta
di virtù.
Tu sei bella
tu sei bella !
Pazzerella,
che fai tu ?
[4] cfr. Note di direzione, conversazione di Giuseppe Martini con Michele Gamba, pgg. 18–19 del programma di sala