
Lo spettacolo pensato da Davide Livermore rivela la sua consueta cifra stilistica, anche grazie alla presenza di suoi abituali collaboratori. La scena praticamente fissa di Giò Forma è dominata da un parallelepipedo (la componente di una egizia piramide?) posato su un declivio di rocce sabbiose, sul quale parallelepipedo vengono proiettati i video ipertecnologici di D‑Wok : cascate di acqua, tempeste di sabbia, spire di enormi serpenti, geroglifici, interni di templi, esterni paesaggistici, figure umane che corrono o statiche, effetti di luce cangiante a ricordare forse i riflessi sulle acque del Nilo. I costumi di Gianluca Falaschi sono particolarmente vistosi : gli abiti richiamano a tratti l’antico Egitto ma come lo si rappresentava nei kolossal cinematografici degli anni Sessanta, oppure il teatro dannunziano, oppure ancora il cinema muto di inizio Novecento (se non, anche, con citazioni televisive anni Ottanta nelle stoffe luccicanti); un pastiche accentuato dal trucco, praticamente uniforme per tutti : volti biaccati con marcature nere per gli occhi, grandi maschere sospese tra tragedia greca e cinema muto. A completare la parte tecnica le luci di Antonio Castro che rendono le atmosfere notturne e irreali.
La regia si connota per la staticità delle masse e dei protagonisti, non ci sono particolari sottolineature del libretto e i cantanti entrano, cantano, escono. Non significative le coreografie dello stesso Livermore, tra danza moderna e atletica leggera, che nulla sottolineano del momento a cui si riferiscono. In una lettura che si voleva intima desta emozione la scena del trionfo, con il palcoscenico completamente vuoto : la musica evidenzia ancora di più lo strazio sentimentale vissuto dai protagonisti, il loro contrasto intimo e relazionale, la solitudine affettiva. Particolarmente apprezzato il finale, dove Radamès è in primo piano sotto la luce, mentre Aida reca un lume in mano ed è in ombra dietro un velatino che solo alla fine si solleva, mentre i due si avviano verso un fondale luminosissimo e bianco, quasi abbagliante dopo il buio, tanto da lasciar immaginare la presenza di Aida come un’allucinazione di Radamès, intuizione originale e suggestiva.
Straordinaria la direzione orchestrale di Michele Mariotti, che ha sottolineato l’intimità della partitura senza tralasciare i momenti in cui il suono si fa più importante. Ma il pregio maggiore della direzione, per cui questa edizione di Aida è indimenticabile, è la cura dei particolari e l’aver reso sonorità mai udite prima. Il Maestro dirige con attenzione estrema ai dettagli, sottolinea i contrasti drammatici ed espressivi, ma è impossibile sottolineare tutte le novità in ogni sezione orchestrale, al punto che ci è parso di ascoltare per la prima volta una partitura notissima e che si pensava invece già sviscerata in ogni nota. L’Orchestra del teatro segue mirabilmente il direttore in una resa musicale da ricordare.

La novità principale del cast è stata la presenza di Gregory Kunde, arrivato in teatro due ore prima dell’anteprima riservata ai giovani a causa dell’indisposizione dell’annunciato Fabio Sartori. Il tenore ha confermato estensione vocale e solidità della linea di canto, notevolissime ancor più se si considera il dato anagrafico : il grande mestiere gli ha consentito di trovarsi a suo agio in uno spettacolo praticamente sconosciuto e dove poteva risultare quasi generico ; il suo Radamès, invece, brilla sicuro e in grado di rendere la complessità dei sentimenti che lo attraversano.

L’Aida di Krassimira Stoyanova trova toni intimi e sussurrati in una prestazione corretta : del soprano si sono particolarmente apprezzate le mezzevoci e i pianissimi.

Potente l’Amneris di Ekaterina Semenchuk : la linea di canto è solida e omogenea, ben sostenuta ed emessa, di affascinante colore (autenticamente mezzosopranile, in grado di far sussultare lo spettatore sulla poltrona nella scena del giudizio) e, cosa ancor più importante, si cala nelle pieghe del personaggio con incisività. Raffinato e impulsivo, ma non barbarico, l’Amonasro di Vladimir Stoyanov.

In evidenza il Ramfis di Riccardo Zanellato. Il re è Giorgi Manoshvili, giovane ma con voce così bella da essere sicuramente destinato presto a ruoli maggiori. Con loro la Sacerdotessa di Veronica Marini e il Messaggero di Carlo Bosi, entrambi corretti e adeguati. Buona la prestazione del Coro, preparato da Ciro Visco, che ha reso in pianissimi alcuni momenti intensi.