È il capitano di un'immensa nave che trasporta 230.000 passeggeri, facendo 220 scali, con un impressionante equipaggio di collaboratori, in una crociera di lusso di sei settimane... Questa nave ammiraglia è il Festival di Salisburgo.
Dal 2016, Markus Hinterhäuser è l'Intendente del Festival, responsabile della programmazione artistica, in un Direttorio presieduto dal gennaio 2022 da Kristina Hammer e affiancato da Lukas Crepaz, direttore commerciale e finanziario in carica dal 2017.
La sua carriera non si è mai veramente allontanata dal Festival di Salisburgo da quando, ai tempi di Gerard Mortier, fondò insieme a Tomas Zierhofer-Kin lo Zeitfluss-Festival, un festival di musica contemporanea che ebbe un successo folgorante grazie alla diversità e all'originalità della sua programmazione, e che fu ripreso con il nome di Zeit-Zone alle Wiener Festwochen dal 2002 al 2004. Richiamato a Salisburgo per dirigere il reparto concerti dal 2007 al 2011, ha assunto la direzione artistica ad interim dopo le dimissioni di Jürgen Flimm nell'estate del 2011. Dopo aver assunto la direzione delle Wiener Festwochen dal 2014 al 2016, è stato nominato Intendente del Festival di Salisburgo, carica che manterrà fino al 2026 dopo aver rinnovato il contratto nel 2019.
Ma Markus Hinterhäuser è prima di tutto un artista, un pianista, formatosi alla Hochschule für Musik und darstellende Kunst di Vienna, al Mozarteum di Salisburgo e in particolare con Elisabeth Leonskaja e Oleg Maisenberg. È uno specialista riconosciuto della musica contemporanea e un pianista specializzato nell'interpretazione del Lied (è nota la sua lunga collaborazione con Brigitte Fassbaender), e ha partecipato a spettacoli che hanno girato il mondo come Winterreise di Schubert con Matthias Goerne nel 2014, su immagini di William Kentridge .
Markus Hinterhäuser, artista, manager culturale di successo, intellettuale di fama e poliglotta, ha onorato Wanderer con un'intervista molto dettagliata, che ci ha permesso di capire meglio le scelte del Festival di Salisburgo oggi, in un'atmosfera serena e rilassata. L'intervista è stata condotta principalmente in italiano (è nato a La Spezia), ma anche in francese (che parla meravigliosamente bene) e naturalmente in tedesco, alla maniera che tanto ci piace di quegli intellettuali senza frontiere della Mitteleuropa .
Cominciamo in medias res.
Ho visto ieri Falstaff che mi ha tanto emozionato, e vorrei sapere come sceglie i registi per le opere e in particolare perché Marthaler per Falstaff?
Inanzittutto io conosco Marthaler da tanti ma tanti anni. Ho fatto come pianista e come organizzatore due produzioni con lui, Die schöne Müllerin di Schubert et una altra produzione alle Wiener Festwochen Schutz von der Zukunft. Lo conosco benissimo inside/outside e lo stimo moltissimo. Per me è uno dei grandi artisti del nostro tempo, uno dei grandi registi, poi è una persona che è talmente musicale con uno spirito cosi diverso dagli altri che ero tentato di chiedergli il Falstaff, ma lui aveva certi dubbi, non sulla musica ma sulla storia, certi punti interrogativi, ma c’era in lui un fascino per la storia. Poi mi ha telefonato un giorno dicendomi «Si, lo voglio fare il Falstaff, ma ho un idea molto particolare… Conosci il film Falstaff e The Other Side Of The Wind, di Orson Welles?»
Allora ho capito il suo intento: li si tratta di una sorta di intro(ed estro)spezione. Lui in un certo senso vede sé stesso, senza entrare in considerazioni psicologiche o psicoanalitiche: vede sé stesso e nello stesso tempo vede un mondo totalmente disilluso. Per me e veramente interessante: la figura del Falstaff di Orson Welles, il senso del comico di Marthaler, cosi particolare e bizzarro, fuori di ogni convenzione, il mondo cosi originale di Marthaler. E chiaramente lui ci offre uno spettacolo esigente, esigente per le persone che aspettano il Falstaff abituale, già visto mille volte. Ma io non volevo un Falstaff cosi, ne Marthaler, neanche Metzmacher. Allora c’è quest’idea di storia nella storia.
Direi storia nella storia nella storia…
Si (ride..).. Ma per me il risultato è alla fine una storia talmente commovente, toccante di un grande artista che ha incontrato un grande artista Verdi e un altro grande artista Shakespeare. Ero molto felice della produzione, tanto contento di questo Falstaff…
E poi ci sono state tante critiche… tante discussioni attorno a questo Falstaff.
È la questione della percezione dell’opera, molto, più difficile che la percezione dei concerti di musica sinfonica o da camera… Nel Teatro ci sono delle aspettative che sono cosi rigide, che quando un grandissimo artista va sotto o contro queste aspettative c’è una confusione enorme. Tanto per parlare di confusione e di caso, alla fine del secondo atto del nostro Falstaff c’è uno caos totale, totale, tutto si sbriciola, si da l’impressione che non c’è più regia, che Marthaler abbandona tutto nella totale anarchia… chiaramente tutto elaborato minuziosamente! Anche da parte di Marthaler in questo spettacolo c’è una generosità tale che tutti devono aprire gli occhi e le orecchie perché da sempre ho avuto l’impressione che Falstaff potrebbe essere un pezzo per Marthaler… Da anni avevo quest’idea del Falstaff con lui, c’è voluto del tempo, ma per me è una cosa riuscita ad un altissimo livello artistico, riflessivo, intellettuale. C’è il lato intellettuale, ma anche il lato slapstick dove racconta tanto di se stesso come in questo gioco del cestino dove si deve nascondere Falstaff…Ed è una cosa estremamente comica e nello stesso tempo assurda, alla Buster Keaton, ma anche alla Jacques Lecoq, perché Marthaler ha studiato con Lecoq…
Sono veramente contento di avere un Falstaff qui che è completamente, totalmente diverso dalle aspettative, come deve essere un Falstaff da Festival…
Ma appunto, su quali criteri sceglie i registi, ci sono gli “habitués” (Stone, Warlikowski, Castellucci), altri più rari (Marthaler non venuto dal 2011) e certi mai venuti, come Tcherniakov…
Tcherniakov viene nel 2025…
Innanzitutto I criteri sono soggettivi.
Ci sono registi che ritengo importanti dal punto di vista artistico, intellettuale, dal punto di vista dell’approccio del Teatro… e dell’idea del teatro.
Poi c’è l’intuizione
C’è anche la questione della capacità di lavorare in spazi cosi particolari come il Grosses Festspielhaus o la Felsenreitschule che sono spazi enormi. È molto difficile e tutti non son capaci di gestire tali spazi.
È molto soggettivo, ma cerco registi che siano capaci di tradurre opere come Falstaff o Macbeth nella loro importanza per nostro tempo. Non ha senso fare un Falstaff qualsiasi…
Il continuo rapporto con registi come Warlikowski, come Simon Stone, o come Castellucci e Tcherniakov mi piace, perché mi piace l’idea di creare una famiglia qui a Salisburgo. Quell’idea di invitare ogni anno uno o due registi nuovi non ha proprio senso. C’è una bellissima frase di Martin Kippenberger ((NdR: Martin Kippenberger (1953-1997) è un pittore, performance artist, scultore e fotografo tedesco)) che ha detto, riferendosi a Van Gogh, "Non mi posso tagliare un orecchio ogni mese". Quello che mi sembra essenziale è coltivare una continuità di lavoro con artisti che considero importanti per il Festival di Salisburgo. Forse cambierà con un altro direttore artistico, ma questa è la mia lingua, È cosi.
Allora parliamo un po’ di Lei. È stato direttore dei Wiener Festwochen, a Salisburgo ha diretto il ciclo Zeitfluss-Festival di musica contemporanea, è stato direttore ad interim dopo le dimissioni di Jürgen Flimm, ha anche diretto la parte concerti del Festival… Come si passa dal mestiere di musicista a quello di direttore artistico?
Ha iniziato tutto con Zeitfluss, negli anni novanta con un mio amico che voleva fare un Festival di Musica Contemporanea. Quando a Salisburgo si vuole fare una cosa con un certo peso, una certa importanza, una certa generosità, c’è il Festival. Allora noi siamo andati da Gerard Mortier e Hans Landesmann ((NdR: Hans Landesmann (1932-2013) ha partecipato alla fondazione della GMJO e del Wien Modern con Claudio Abbado, è stato direttore artistico dei concerti e Amministratore del Festival di Salisburgo dal 1989 al 2001 e ha accompagnato Mortier per tutto il suo mandato. È una delle più grandi figure culturali austriache)). Abbiamo presentato il nostro progetto, una sorta di Fringe Festival ((Festival di Avanguardia che ha luogo ad Edinburgo e che il più grande raduno artistico al mondo)) che non era mai stato fatto a Salisburgo. Il progetto è piaciuto e abbiamo cominciato dal Prometeo di Nono con un incredibile successo. E allora mi sono reso conto che forse avevo un certo talento per comunicare le cose che m’interessano nella vita, cioè musica e arte, anche cose complicate. E dopo Zeitfluss, ho fatto un po’ di progetti con Marthaler et Grüber, e poi mi hanno chiamato per la direzione dei concerti qua a Salisburgo. È continuata questa storia col Festival di Salisburgo che per me è un grande privilegio. Ma questo lavoro che faccio da parecchi anni ormai, non l’avrei mai fatto se non fosse un lavoro artistico. Ho qua la struttura e l’organizzazione, è molto effettiva e molto forte, io in questa direzione del Festival do molto peso alla parola “artistica”. Ci sono qua tanti collaboratori tanto qualificati che fanno un lavoro incredibile che io mi muovo in un’altra direzione nel Festival.
Per me l’idea di una strategia di carriera non ha nessun senso. Ho avuto la grande fortuna di entrare in questo mondo del Festival che per me era un mondo chiuso: Il Festspielhaus era per me una cosa come il Kremlino! Inaccessibile (ride)! Adesso è cambiato moltissimo. Mortier ha cambiato molte cose. Questi anni Mortier-Landesmann sono stati per me anni di socializzazione. Hanno cambiato molte cose per me. Ho visto certe produzioni, per esempio il Saint François d’Assise di Messiaen nella regia di Peter Sellars ha cambiato tutto per me! Come un “Change of Life”. Ho capito cosa può essere l’opera, cosa può essere un Festival e questa è forse la conseguenza logica della mia vita, che non ha niente di logico ovviamente (ride).
Quali sono i compiti dell’intendente?
Innanzitutto di sottolineare che il Festival di Salisburgo è un Festival delle ArtI. C’è tutto questo Bling-Bling intorno ma fondamentalmente è un Festival che si occupa di Arte, di musica, di teatro, di letteratura… Poi credo importantissimo creare un tono, un’atmosfera in un festival. Un festival è una cosa interessante. Io non sarei in grado di fare il direttore di un teatro stabile. Per me, i grandi festival sono tutti in piccole città Salisburgo, Glyndebourne, Aix-en-Provence, Lucerna che si aprono per sei settimane a tutto il mondo. Noi per esempio vendiamo 230000 biglietti: è un pubblico completamente eterogeneo, ed io devo omogeneizzarlo. Noi facciamo un programma, lo offriamo al mondo e poi vediamo se la gente viene o non viene… Adesso devo dire che c’è una grande fiducia in quello che facciamo, certo con discussioni attorno a certe produzioni, ma, che anche con limiti, danno l’idea del “perché facciamo il Festival di Salisburgo”. Delle produzioni come Macbeth, come Passione Greca propongono temi forti, politici, che sono importanti per noi.
È cosi i miei compiti sono un mix di tutte queste cose.
Un po’ di cifre, Ha detto 230000 biglietti… Per quale numero di manifestazioni?
Circa 220; ci sono anche simposi e tante altre cose intorno al Festival …
E a livello di bilancio?
Abbiamo un budget di 80-82 milioni di Euro, e le sovvenzioni coprono meno di 25%, dunque vendere biglietti è per noi tassativo. Quest’anno la richiesta è incredibile. Il 95% di copertura (“coverage”), questa cifra a molto a che vedere con gli anni precedenti – c’era anche richiesta importante l’anno scorso- e soprattutto a causa del 2020, perché siamo stati l’unico Festival a proporre un programma in tempi di corona, e abbiamo creato un pubblico nuovo, una nuova “comunity” come si dice in inglese, molto interessante, con una nuova empatia, con una nuova fiducia verso quel che facciamo, c’est… touchant ! ((NdR: toccante - sic, in francese nella conversazione))
Lei dirige un Festival che ha tre reparti, teatro, concerti, opera. Pensa a dare una coesione? Come mette le cose insieme?
Si certo, penso a mettere le cose insieme, ma senza avere una visione strettamente pedagogica. Per me ogni Festival è una specie di racconto. Il senso del Festival di Salisburgo non è di dare un concerto dopo l’altro senza avere una certa esigenza. C’è bisogno di far capire perché facciamo un Falstaff, un Figaro, un Macbeth, una Passione Greca, oppure Indian Queen di Purcell, e perché facciamo Les Troyens di Berlioz… perché c’è dietro un pensiero. Non facciamo le cose per caso. È importante per me, davanti a quest’enorme massa di concerti e avvenimenti, di avere come un ancoraggio, un momento di base, che poi cresce.
Noi qui facciamo gran parte del programma dopo il 20 settembre fino al 20 novembre, due mesi dopo di ché va tutto in stampa. È molto interessante vedere come le cose si sviluppano e si mostrano…
Come dire?... Sa, io non sono più giovane, sono della generazione dell’analogico, è come lo sviluppo di una fotografia che man mano appare, prima queste forme, poi diventa foto, prima con questa luce gialla, poi coi contrasti poi i colori… È molto bello! Qua è un po’ cosi, c’è una base, per me molto chiara, ma che si sta sviluppando in tante cose, e io in fin dei conti sono come un navigatore in mezzo a questa marea di cose: è un sistema di navigazione per me e per il pubblico.
Anche il pubblico è una sfida per me, perché questa massa di 230000 persone che cambia in continuazione, il pubblico della prima settimana non è quello della quarta, c’è un cambiamento continuo. Come posso io garantire in un certo senso questa storia, questo racconto che è lo stesso e nello stesso momento diverso di giorno in giorno, come posso raggiungere il pubblico di meta agosto? Di fine agosto?
Poi c’è quest’Ouverture Spirituelle ((NdR: Ormai, il festival comincia verso il 20 luglio con “L’ouverture Spirituelle” di circa 10 giorni con concerti di musica sacra ma non solo)) che è per me molto importante e li c’è liberta totale nelle scelte musicali, li possiamo fare tutta la geografia della musica dall’antica alla contemporanea, purché sia sempre legata a cose bibliche o spirituali. Per me è una cosa essenziale…
Cosa distingue Salisburgo dagli altri Festival?
Innanzitutto offre tutto, tutta la geografia musicale. Noi non siamo limitati. Certo c’è Mozart e Strauss, Mozart soprattutto ma ovviamente Strauss anche, ma possiamo fare tutto da Monteverdi a oggi. Non ci sono limiti. Ed è bellissimo. Bayreuth ha un solo compositore, Wagner. Poi c’è la dimensione dell’offerta, unica la mondo, poi anche la dimensione della storia del Festival, questi 102 anni sono un concentrato della storia culturale dell’Europa. L’archivio del Festival verrà aperto l’anno prossimo, speriamo, e quello che si scopre ci lascia a bocca aperta, negli alti e bassi, molti bassi e molti alti… Non è una storia omogenea, questo no, ma rimane incredibile, a cominciare da Max Reinhardt, Richard Strauss, Hugo von Hofmannsthal, è una cosa ai giorni d’oggi senza paragone. Non c‘è nulla da chiedere, da chiedersi: è cosi!
Qual è il peso di questo passato? La prima volta che son venuto c’erano le epifanie (teofanie?) di Karajan…
All’epoca di Karajan era tutto basato su Karajan. Il programma era tutto concentrato su di lui, ed era un terzo di quello che offriamo oggi. Era tutto fondato sulla popolarità di Karajan e sul potere dell’industria musicale, sui dischi. Oggi non esiste più. Era tutte pieno di Deutsche Grammophon, DECCA, EMI, Philips… Adesso non c’è più niente. Non ha più alcuna importanza.
Mortier, con tutto il rispetto e la stima che ho per lui, è arrivato a un momento storico del Festival, quello del post-Karajan. È chiaro che non si può fare un Festival di Salisburgo alla Karajan senza Karajan. Impossibile. C’era questo “Wind of change” ((Vento del cambiamento)) e Mortier è arrivato a un momento aperto, un momento di trasgressione con possibilità ancora estremamente generose. Che oggi non ci sono più. Pensi che Saint-François d’Assise è stato fatto con il Los Angeles Philharmonic, una cosa oggi impensabile: non è più possibile. Anche questo è passato.
Ci sono oggi un sacco di problemi da risolvere a livello economico con Lukas Crepaz ((NdR: Direttore commerciale e finanziario)) , e non c’erano i problemi che sono forti oggi e che saranno ancora più forti i prossimi anni: cos’è il teatro? cos’è permesso? Tutte queste discussioni sulla “political correctness” non c’erano all’epoca! Il mondo di Karajan non c’è più, ma neanche il mondo di Mortier; cito Stefan Zweig, è Die Welt von gestern (il mondo di ieri) ...((Die Welt von gestern - Erinnerungen eines Europäers/Il mondo di ieri, Ricordi di un europeo, Oscar Mondadori)) È cambiato tutto. Sono delle problematiche che m’interessano molto: cos’è il teatro? Cos’è il mistero del teatro? È fatto di cose che non si possono collegare a parametri di “correctness”, alla pseudo moralità di oggi.
Dobbiamo affrontare dei problemi totalmente diversi di quelli che ha affrontato Mortier. E sarà ancora più duro per il mio successore… Sono critiche fortissime adesso, in ogni cosa che facciamo. Dicevo poco fa in un simposio in modo ironico che fra poco non sarà più possibile fare Carmen, donna, zingara, lavorando in una fabbrica di sigarette… Impossibile… Così va il mondo.
Oltre alle opere di repertorio, il Festival propone ogni anno sia una prima mondiale, sia un’opera raramente eseguita? Qual è l’importanza della prima mondiale per Salisburgo, e su quali criteri sceglie le opere cosiddette rare?
Come glielo detto, in questi anni in cui sono responsabile, l’importanza per me è di raccontare una storia, l’importanza è il racconto.
Non ha tanta importanza per me fare una prima mondiale, davvero no.
Certo ho una grande passione per la musica contemporanea. Ma ho fatto qua a Salisburgo tanto per la musica contemporanea, che adesso m’interessa di più indagare sulle opere, mettere queste opere come Macbeth o Falstaff sotto il microscopio per interrogarle e capire cosa ci raccontano. Guardiamo adesso La Passione Greca, è davvero per me una grande rivelazione per tutti.
Una prima mondiale? Ma fare Passione Greca quest’anno e l’anno prossimo Idiot di Weinberg è molto importante per me. Forse devo chiedere a me stesso se ho agito in una maniera ragionevole, ma abbiamo già fatto tanta musica contemporanea, Reimann, Rihm, Henze, faremo Eötvös nel 2025 (Tre sorelle). In un certo senso si può dire senza polemica che Passione Greca sia una prima mondiale… Chi conosceva quest’opera? Nessuno! Adesso tutto il mondo lo conosce. Questo è il compito di un Festival … ((NdR: E la gente ha cercato disperatamente posti perché segnava il tutto esaurito)).
Lei parlava poco fa di Mozart e Strauss come compositori emblematici di Salisburgo, ma sembra che oggi si faccia un po’ fatica a presentare Mozart, poche produzioni trovano consenso, sia musicalmente che scenograficamente… Qual è secondo Lei il motivo?
È molto difficile rispondere a questa domanda...
C'è un'idea di Mozart... un Mozart apollineo... Un'idea di Mozart un po' "inquietante"... C'è un problema dialettico molto profondo, davvero molto profondo: l'avanguardia mozartiana di oggi è un Mozart HIP (Historically Informed Performance/Historisches Aufführungspraxis). È impossibile eseguire un Mozart "storicamente informato" a Salisburgo. Devo trovare un equilibrio tra il fatto che la prassi esecutiva storica è ciò che Mozart domanda ora, e una realizzazione scenica che sia intelligente e che esplori Mozart. Quando oggi facciamo Figaro e parliamo dell'Illuminismo, quello è il nostro mondo. Dobbiamo esplorare il nostro mondo in modo diverso,
Martin Kušej mostra un altro lato nella sua produzione, non la luce, ma l'oscurità, il lato cupo, e questo è davvero molto interessante. Kušej elude ciò che oggi non è più rilevante, lo "ius prima noctis". Non ha più nessuna importanza...
Dobbiamo cercare ciò che è importante per noi oggi, ciò che possiamo trarre da quest'opera, come il perdono, che è un grande momento dell'umanità. Il perdono è una cosa molto più importante di tutte le cose piccolo-borghesi in cui ci perdiamo. Cosa è permesso, cosa non è permesso? Ma con Mozart tutto è permesso. Con Mozart tutto è possibile: ci vuole onestà, intelligenza e una certa dose di ponderatezza. Mozart è molto più grande del carattere piccolo borghese della sua ricezione! Mozart permette tutto, tutto, si apre a tutto, tutto, anche al buio, al lato oscuro, a tutto ciò che ci disturba.
Lei ha ragione, è molto difficile fare Mozart oggi: Per questo l'anno prossimo voglio riproporre il Don Giovanni di Castellucci, che è una grande riflessione sul mito di Don Giovanni. Lo trovo interessante, dobbiamo avere il coraggio di affrontare queste riflessioni. Non è la provocazione che mi interessa, in nessun modo. La provocazione come strategia è noiosa e stupida. Ma la provocazione nel senso etimologico della parola "pro-vocare", chiamare fuori, far emergere, questo si ha un significato.
E Wagner? Non si fa più Wagner da dieci anni…
Non si può fare Wagner. È troppo lungo per i programmi che abbiamo. Wagner è stato il compositore per il Festival di Salisburgo di Pasqua. Poi bisogna avere un “agreement” con Bayreuth. E abbiamo talmente tanti spettacoli… Nel Grosses Festspielhaus che può accogliere opere come Parsifal o Tristan, tra concerti, recital, altre opere, è molto difficile inserire un’opera di 5 ore o 5 ore e mezza con le relative prove... Ci sono troppi problemi.
Karajan ha creato il Festival di Pasqua tra l’altro per poter fare il Ring perché d’estate è molto difficile.
Vorrei fare Tristan, è un sogno, ma….
Ci può dare un’apertura sul futuro?
Risponderò con una bellissima frase presa a James Joyce ((Ulisse, Parte I, episodio VII, Eolo)): “Sono un uomo con un grande avvenire dietro di me” …
E Lei a questo punto della sua carriera che dirige il più grande Festival del mondo ha ancora un sogno incompiuto nel cassetto?
Non so, come direttore del Festival… si… Fare un Tristan und Isolde sarebbe veramente un sogno. Ma è giusto che ci siano sogni… Con i sogni… Robert Musil ha fatto questa differenza nell’ “Uomo senza qualità”: “Wirklichkeitssinn” e “Möglichkeitssinn”, il senso della realtà e quello della possibilità. Questo è importante sempre avere in mente.
Per concludere, Lei ci ha parlato delle difficoltà di oggi a fare opera…
Ma c’è davvero una crisi dell’opera?
Noi siamo in crisi, noi, noi. Ci sono molti simposi sulla crisi dell’opera, e della musica classica, ma la crisi siamo noi.
Un’opera, un quintetto di Schubert, una sinfonia di Mahler descrivono una crisi. Nella Nona di Mahler, l’ultimo pezzo, l’adagio descrive una crisi dove tutto si sfascia, la sua crisi, la sua morte, da l’addio, da l’addio alla tonalità, l’addio alla sinfonia e l’addio a tutto un impero asburgico che sparisce. C’è una tale malinconia (“Wehmut”)! Ma questo è la descrizione di una crisi, ma non è la crisi stessa.
Noi siamo in una crisi molto profonda, molto paurosa in un certo senso…
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