Cremona, Teatro Ponchielli
venerdì 23 novembre, ore 20.30, domenica 25 novembre, ore 15.30
Brescia, Teatro Grande (30 novembre e 2 dicembre)
Como, Teatro Sociale (11 e 13 gennaio 2019)
Pavia, Teatro Fraschini (18 e 20 gennaio 2019).
RINALDO
Opera seria in tre atti su libretto di Giacomo Rossi
da una sceneggiatura di Aaron Hill, da La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso
Musica di George Friedrich Händel
Edizione critica a cura di Bernardo Ticci
Revisione drammaturgica a cura di Ottavio Dantone
Personaggi ed Interpreti
Rinaldo Delphine Galou
Almirena Francesca Aspromonte
Armida Anna Maria Sarra
Goffredo Raffaele Pe
Argante Luigi De Donato
Mago Cristiano Federico Benetti
Donna Anna Bessi
Compagnia di Danza Déjà Donné
Coreografie Virgina Spallarossa
clavicembalo e direzione Ottavio Dantone
Regia Jacopo Spirei
scene Mauro Tinti
costumi Silvia Aymonino
luci Marco Alba
ACCADEMIA BIZANTINA
Nuovo allestimento
Coproduzione dei Teatri di OperaLombardia
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Ottavio Dantone, classe 1960, non è più un ragazzaccio, anche se la sua aria giovanile e scanzonata potrebbe farlo pensare. Son passati più di vent’anni, ormai, da quando, con la sua Accademia Bizantina, idealmente affiancato dal Giardino Armonico di Giovanni Antonini o dall’Europa Galante di Fabio Biondi, sgobbava duro per imporre, come rivendica lui stesso, il verbo della sensibilità italiana nel mondo della prassi esecutiva storica della musica antica, contro il “dominio” degli ensemble stranieri: «La parola è strettamente connessa alla musica. La retorica ha nell’Italia il suo centro. Così si dà alla musica il suo significato», ci dice, incendiandosi di entusiasmo, mentre lo incontriamo nel camerino del Ponchielli tra una prova e l’altra del Rinaldo di Händel, il nuovo allestimento del Ponchielli in coproduzione con i teatri di Opera Lombardia.
Pugliese d’origine ma milanese d’adozione e milanista doc, un’infanzia da promessa del calcio e da autodidatta della musica prima di divenire allievo della cembalista Emilia Fadini, maestra di antichisti, oggi Dantone vive a Parigi, indiscutibilmente celebre. Può godersi e centellinarsi la carriera: «Troppi impegni. Ormai accetto di dirigere l’opera solo per Cremona e la Scala». Proprio alla Scala, dal 10 febbraio al 5 aprile 2019, dirigerà la Cenerentola di Rossini nell’allestimento di Ponnelle, mentre il 6 e 7 dicembre sarà sul podio dell’Orchestra Rai per un programma sinfonico che va da Haydn (Le matin) a Mozart (la sinfonia Praga) a Schumann (la Renana).
Quanto a questo Rinaldo lombardo, ne firma la regia Jacopo Spirei, già allievo e collaboratore di Graham Vick, che definisce il capolavoro di Händel «un’opera inusuale, che mescola realtà e fantasia». Ha immaginato un protagonista (qui, il contralto Delphine Galou) «eroe smarrito, uomo qualunque, una persona anonima che lavora in un piccolo ufficio», dove, nel primo atto, nasce l’amore con Almirena. Nel secondo atto, la porta del vizio, il regno della perdizione e di Armida, è un club notturno. Il terzo atto si conclude nuovamente nell’ufficio, dove Rinaldo affronta Argante. Proprio a partire dalla regia, rivolgiamo alcune domande a Dantone.
Maestro Dantone, lei con il Rinaldo ha una lunga storia.
È l’opera che ho diretto di più: tra forma scenica e forma di concerto, l’avrò fatta 60 o 70 volte. È un’opera che conosco piuttosto bene. A Losanna, poi, nel 2021, ho in programma una ripresa dell’edizione di Glyndebourne, quella con la regia di Carsen.
Lei diresse Rinaldo agli Arcimboldi, per la Scala, nel 2005, nell’allestimento storico di Pizzi, e alcuni anni dopo appunto a Glyndebourne, con la regia di Carsen ambientata in una scuola infestata dai bulli. Ora, da Cremona, è la volta della regia di Jacopo Spirei, anch’essa contemporanea. Tutti allestimenti fori dall’ordinario, non trova?
L’edizione di Pizzi era un trionfo di visionarietà barocca, il suo Rinaldo era statico, focalizzato sui costumi, sui gesti, su elementi spettacolari come i cavalli, i veli enormi, ed era caratterizzato da un “distacco” totalmente barocco. Quella di Carsen altro maestro assoluto, era una versione moderna, visionaria, perché raccontava un sogno, di fatto. Immaginava un personaggio vessato nella realtà, uno studente maltrattato da professori e compagni che poi diventano Armida, Argante, le Furie...e a quel punto si apre il palcoscenico e comincia un sogno nel quale la vittima si ribella a tutto questo. La regia di Spirei invece è psicologica, è un’introspezione, una lotta contro il male e contro se stessi.
Come si accordano queste diverse “visioni” con l’opera di Händel?
Da tutte queste esperienze ho ricavato la conferma della mia impressione: l’opera barocca si presta moltissimo, forse più dell’opera dell’Ottocento, a una trasposizione fantasiosa nel tempo. E questo perché si fonda (vedi, soprattutto, i titoli seri), su una componente magica, o mitica, per cui alla fine le situazioni sono astratte. Quelle che sono “vere” sono le pulsioni, sono veri gli affetti dei personaggi. Perciò l’ambientazione non ha un ruolo fondamentale per farsi emozionare dalla musica. Tutto è sospeso in un ambito metafisico. Qui, con Spirei, siamo in un piccolo ufficio, all’inizio. Poi in un prato, che è il luogo ideale di Almirena e Rinaldo. E poi c’è il mondo al di là, oscuro, torbido, dove vive Armida, che rapisce Almirena. Ronaldo dovrà fare i conti con questo mondo, ed entrarci, subire le influenze e le tentazioni...
Lei ha lavorato sulla prima edizione, andata in scena a Londra nel 1711, e sulla seconda edizione, sempre londinese, del 1731, rivedendo la drammaturgia.
Già alla Scala lavorai su un mélange delle due edizioni. Perché in effetti bisogna dire che ognuna delle due versioni, presa da sola, ha delle “mancanze”. Mischiando le due si ottiene il meglio, secondo me. Per esempio, il ruolo di Almirena, soprano, è l’unico in comune tra le due versioni. Il mago, nella prima, è un contralto (un castrato, in origine), ma ho preferito la tessitura da baritono prevista dalla seconda versione; Argante nella seconda è un contralto, ma ho preferito la prima edizione dove è un basso. Armida l’ho preferita soprano, come nella prima, anziché contralto come nella seconda; Goffredo è un tenore nella seconda versione, io ho scelto il contraltista previsto dalla prima, dove ha arie diverse e più convincenti; ho tagliato Eustazio. Diciamo che ho fatto un mix.
Una cosa filologica?
La cosa più filologica che potessi fare. Assolutamente. Non devo neanche giustificarmi...alcuni critici parlano di filologia come di una specie di “fotografia” dell’antico, di un momento fisso. La filologia per me deve invece riferirsi al linguaggio, al modus operandi, alla produzione delle emozioni così come erano allora. La filologia lavora sulla lingua e sul linguaggio, sul modo di cantare e di suonare, non sulla “struttura”. E nemmeno sugli strumenti in sé e per sé. Gli strumenti sono solo un “mezzo”.
A proposito di strumenti antichi. Singolare, ripensandoci, che in origine sia stato proprio Riccardo Muti, un direttore molto distante dalla sua sensibilità, a esprimere tra i primi grande apprezzamento per l’Accademia Bizantina. Lo stesso Muti che poi la invitò al Piccolo Teatro a dirigere diverse recite della Nina di Paisiello...se lo ricorda Piero Ricci, lo zampognaro molisano, recuperato per rispettare le intenzioni del compositore?
Altroché se me lo ricordo! La Nina di Paisiello fu fatta in modo storicamente “consapevole”. Muti è un musicista molto rigoroso. Il primo contatto con lui accadde a Ravenna. Lui venne a Sant’Apollinare ad ascoltare i Concerti grossi di Corelli. Dopo mi disse, col suo fare da istrione: «A me gli strumenti barocchi fanno schifo, ma voi siete bravi!». Ne nacque una frequentazione, si andava a cena insieme. Poi venne l’opportunità di dirigere dieci recite della Nina. Ricordo anche che a quell’epoca (1999, ndr) erano in auge ancora gli esecutori stranieri di musica barocca. Ora la situazione si è ribaltata.
Un violinista, famoso concertista, un giorno, in privato, mi disse tutto il male possibile degli archi montati con corde di budello: «Le corde d’acciaio tengono l’intonazione molto meglio, e hanno un suono incomparabilmente più forte e più bello». Lei cosa direbbe a chi considera la “filologia” come una prassi antiquaria, settaria?
Talmente tante cose che non potrebbero entrare in un articolo... Il suono di una corda di budello è bellissimo, in realtà, ma l’equivoco più grande che ancora sussiste è considerare la musica come “antica” o meno soltanto basandosi sugli strumenti. Si può suonare malissimo uno strumento antico e benissimo su quelli moderni. Bisogna conoscere il linguaggio, questo è il punto. La musica presuppone l’apprendimento di un vero e proprio vocabolario. Se no, è un’esperienza fuorviante. Non si vogliono usare gli strumenti originali? Non importa, si usino pure delle ocarine. Ciò che conta è rispettare le sillabe, le virgole, gli accenti, le articolazioni. Questo fa la differenza.