5 apr 78
“[…] Nun werde ich eine sinfonie concertante machen,
für flauto Wendling, oboe Ram, Punto waldhorn, und Ritter fagott.
Punto bläst Magnifique. […]
Nun leben sie recht wohl, ich küsse ihnen 100mh [sic] die hände ud
bin Wolfgang Amadè Mozart”
5 aprile 1778
“[…] Ora farò una sinfonia concertante,
per flauto Wendling, oboe Ram, Punto corno francese, e Ritter fagotto.
Punto suona meravigliosamente. […]
Ora state bene, bacio le mani 100 volte e
Resto Suo Wolfgang Amadè Mozart”[1]
Un passo indietro per tornare al 1778. Le colonie nord americane sono in fermento. La Carolina del Sud è il primo stato ad approvare gli Articoli della Confederazione e dell’Unione Perpetua, che dopo pochi anni cederanno il passo alla Costituzione pilastro degli Stati Uniti d’America. Una bella occasione per giocarsi l’ennesima mano dell’eterna partita anglo francese, con le due Nazioni che tanto per non perdere l’abitudine si schierarono su fronti contrapposti.
Nel vecchio continente il sonno era agitato anche su altri fronti. Era il turno di una inedita guerra delle patate[2]. Non si pensi a un cooking show, roba da duelli all’ultima forchetta : dopo la morte di Massimiliano III, Giuseppe II d’Austria cercò “modestamente” di prendersi la Baviera ma venne bloccato dall’esercito di Federico II di Prussia. Lasciare a pancia vuota il nemico parve un micidiale strumento di offesa e gli austriaci rimasero, è il caso di dirlo, a bocca asciutta.
Sul fronte delle superpotenze musicali, a cavallo dell’età d’oro del classicismo ormai pronta a sfogarsi nelle passioni romantiche prima e quarantottine poi, la sera del 3 agosto 1778 è, invece, da segnare in rosso sul calendario : il Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala apre le sue porte, in tempi record rispetto all’incendio del Teatro Ducale in cui avevano avuto luogo pochi anni avanti le prime rappresentazioni di Mitridate, re di Ponto, Ascanio in Alba e Lucio Silla di MozartPer L'Europa riconosciuta di Antonio Salieri, un italiano rimandato al mittente da Vienna, si alzava il sipario del primo teatro del mondo[3].
Lo stesso palcoscenico ospiterà nuovamente il titolo, che non riscosse evidentemente stabile fortuna, la sera del 7 dicembre 2004.

Che sia, consapevole o meno (l’Orchestra di Santa Cecilia arriva a Milano dopo aver suonato per tre sere il medesimo programma a Roma), un omaggio di questa sera a tanto evento, da Milano risaliamo a Parigi per andare a vedere cosa era successo pochi mesi prima proprio in quell’anno 1778.
Mozart, nella capitale francese in cerca di sorte e denari, lavorando su pezzi d’occasione, aveva illuminato con la sua divina scintilla il genere della Sinfonia Concertante, che a dire il vero è generalmente poco più che l’occasione offerta a brillanti solisti, piuttosto che a generosi padroni di casa, di sfoggiare la propria abilità musicale.
La sorte non ci è stata troppo favorevole. Mozart compose, è certo, ma ceduto l’autografo al direttore Joseph Legros senza far copia, l’opera non venne eseguita e per giunta sostituita da una analoga del violinista Giuseppe Maria Cambini, l’ennesimo presunto rivale poi destinato all’anonimato.
Riemersa quasi cent’anni dopo una copia presso una collezione privata, la partitura che oggi si ascolta (in questo caso nella versione per flauto ma, più spesso, con clarinetto) lascia il sapore del dubbio sul fatto che, quantomeno, rispecchi il dettato mozartiano nella sua integralità.
Non è annoverabile tra i capolavori del salisburghese, figlia della scuola del classicismo viennese della generazione precedente, non scorre l’elettricità in egual misura a quella che s’infonde nei concerti per violino, del concerto per flauto e arpa, del concerto per clarinetto, della sinfonia concertante per violino e viola, per tacere di quelli con pianoforte.
Nel portare alla ribalta le prime parti, il buon gusto e l’educazione della scuola vocale italiana di tanto in tanto sterilizzano le idee musicali, che paiono a tratti a imitazione di banali linee e cadenze vocali, figlie di automatismi di quella stessa garbata opera settecentesca che Mozart finirà per seppellire definitivamente devastandola con l’eros della trilogia dapontiana.

Ascoltiamo un Allegro dal carattere sorridente ma piuttosto generico, nella difficoltà di esporre in rilievo contemporaneamente timbri che non si sposano poi così tanto tra loro. Un movimento che vive se sostenuto dalla leggerezza di un soffio, viceversa scade nel generico se reso didascalico o pomposo, che trarrebbe beneficio più a confondersi nel tono di una lieve serenata notturna che nella pomposa definizione di sinfonia concertante.
L’Andantino con variazioni è conclusione dovuta per mettere in risalto le qualità dei singoli virtuosi. Le dieci variazioni e il finale che riprende e tira le fila del discorso ci lasciano poco, l’occasione per un saluto nulla più che educato.
Ma, per quanto costretto dalle forme o dalla banalità dell’occasione, il colpo d’ala del Genio arriva e scompiglia le carte. Ecco dunque, tra ordinari movimenti estremi, la gemma sfolgorante dell’Adagio. Nel secondo movimento i solisti diventano giganti sulla scena : il carattere degli strumenti è sbalzato con una dolcezza garbata che non sfocia in malinconia ma in serena azione, via via lasciando spazio ad una tersa, religiosa atmosfera di gluckiana memoria, pura bellezza. E’ il cuore dell’opera e ne giustifica da solo l’ascolto. Il centro di gravità dell’intero concerto.
In una esecuzione ideale, Kirill Petrenko è riuscito a trasmetterci tanto il senso della leggerezza della scrittura delle parti orchestrali quanto i pregevoli colori e il virtuosismo dei quattro eccellenti solisti alfieri di quella che si può oggi considerare la miglior orchestra sinfonica italiana, senza paura di smentita.
Niente pesantezze o ritmi forzati, non c’è spazio per leziosismi : in stupefacente equilibrio i temi e gli arabeschi musicali, senza enfasi chiassosa o forzature, passano leggeri, scivolano da uno strumento all’altro come fosse la cosa più naturale del mondo. Questa è l’essenza di Mozart[4].
Pure abbiamo detto di come la scrittura dei movimenti estremi non regga il confronto con gli altri capolavori d’occasione usciti dalla mente del salisburghese : questa sera ce ne dimentichiamo per via del fraseggio nervosamente moderno e del legato, della leggerezza e del virtuosismo orchestrale. Giunti al canto estatico, senza enfasi, della consolatrice melodia principale dell’Adagio, impareggiabile per l’apparente semplicità, non resta che abbandonarsi a tanta spontanea grazia. Applausi per solisti, orchestra e direttore sono di quelli che poche volte si ascoltano alla Scala.

Tutto intorno a Mozart, in concerto sono in programma passioni romantiche. Aperto nella prima parte dall’ouverture Manfred di Robert Schumann, asciutta, nervosa, giustamente inquieta come l’eroe di Byron, dopo l’intervallo è il turno di una delle più complesse e incerte opere sinfoniche dell’ottocento.
Era ormai da tempo entrato negli -anta Johannes Brahms quando, nel 1876, aveva scritto la parola fine sulla partitura della Prima Sinfonia, la cui stesura era iniziata ben quattordici anni prima. Brahms sentiva sulle spalle tutta la responsabilità di dover riprendere il cammino che un altro tedesco aveva compiuto. A lui spettava l’onere, più che l’onore, di andare oltre Beethoven, di passare le Colonne d’Ercole dello Schluss-chor “An die Freude”.
Il percorso fu quanto mai sofferto, gli aggiustamenti seguirono sino a ridosso della prima esecuzione pubblica ma Brahms potè ben dire di aver trovato una strada nuova, tanto più se si guarda ai movimenti centrali dell’opera.
Si aprono davanti a noi paesaggi ancora nebulosi e sofferti, a tratti inquieti. La scrittura densa degli archi che procedono con sonorità compatte e legate, spesso sopra ritmi scanditi in maniera implacabile, lascia ampi spazi a malinconici interventi dei legni. Il finale stesso, memore del predecessore più per la costruzione formale del pezzo che per l’omaggio tematico, suona forzatamente chiassoso. Non, dunque, la decima di Beethoven((secondo la celebre etichetta apposta da Hans von Bülow)) ma un’opera che segna l’avvio di un grande e personalissimo gusto sinfonico.

Questa prima sinfonia diretta da Kirill Petrenko non conosce, tuttavia, nordiche distese sferzarte dai venti e non sente la necessità di riallacciare i fili della storia. Scaturisce dal fuoco della passione e dei contrasti umani, sotto il ferreo controllo tecnico di una direzione che non trascura alcun segno in partitura.
Il ritmo incalzante sostiene una narrazione tesa, con arcate di suono compatte. Il fraseggio nervoso senza abbandoni è antidoto alla tentazione verso ogni enfasi e sottolineatura esagerata.
Il gesto dei violini che apre, senza soluzione di continuità rispetto al precedente, il movimento finale si muove sopra un’atmosfera livida e incerta piuttosto che su una banale massa di suono. Persino il motto dei corni al Più Andante (f sempre e passsionato scrive Brahms) prima del grande tema, suona sospeso e sommesso e introduce un Allegro non troppo, ma con brio che anche nell’apoteosi finale si abbandonerà al fuoco della passione più che allo splendore della gioia

Al termine della festosa serata, calorosi e ripetuti applausi per tutti gli interpreti. Difficile per molti spettatori non fantasticare su che stagioni potrebbe riservare al Teatro alla Scala un direttore musicale come il russo…
[1] Lettera di W. A. Mozart al padre Leopold, Parigi, 5 aprile 1778, presso Staatsbibliothek zu Berlin – Preußischer Kulturbesitz. I solisti citati Johann Wendling (flauto), Friedrich Ramm (oboe), Giovanni Punto (corno) e Georg Wenzel Ritter (fagotto), furono tutti celebrati membri dell'orchestra di Mannheim, fuoriclasse dell’epoca
[2] Kartoffelkrieg fu nominata la guerra di secessione bavarese, combattuta tra il 1778 e il 1779
[3] Marie-Henri Beyle detto Stendhal, 1783–1842, settembre 1816
[4] L’avevamo appena ritrovata nel Carmen Würth Forum il 24 maggio, con Petrenko alla guida dei Berliner e Wenzel Fuchs nel concerto per clarinetto KV 622.