Alberto Triola è direttore artistico del Festival della Valle d’Itria dal 2010. Negli ultimi anni è stato direttore generale del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e presidente del Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli.
Stabilmente impegnato in campo teatrale e musicale da quasi un trentennio, dal 2002 Alberto Triola si distingue per significative esperienze al vertice di importanti teatri e festival italiani, quali il Festival dei Due Mondi di Spoleto, il Festival Monteverdi e il Teatro Ponchielli di Cremona, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, il Lirico di Cagliari, con stagioni di riconosciuti successi e programmazioni artistiche di apprezzata vivacità culturale, che segnano spesso la consacrazione di nuovi talenti vocali, registici e direttoriali.
Abbiamo intervistato Alberto Triola e gli abbiamo chiesto quale senso condurrà gli spettatori alla scoperta della manifestazione.
Questa è la 45esima edizione del Festival della Valle d'Itria. Una sfida è stata vinta ma un'altra si prospetta: superato quasi il mezzo secolo come portare nel futuro ed arricchire questa realtà che non ha certamente i mezzi economici dei grandi festival come Salisburgo o Bayreuth? per citarne solo due
La forza del Festival della Valle d’Itria è la fedeltà alle sue radici e alla sua identità; non ha mai rinunciato alla propria vocazione di ricerca e di laboratorio anche in epoche difficili sia dal punto di vista di congiunture economiche che da quelle dei venti culturali imperanti che spingono nella direzione di una massificazione e una globalizzazione delle proposte. Per questo motivo Il Festival della Valle d’Itria resta tra i pochissimi festival, in Italia e in Europa, di pura ricerca fedelmente ancorato a questa identità che è la sua forza, il suo patrimonio e il suo capitale su quale va investito sempre di più a maggior ragione in momenti di difficoltà e di superficiale adagiarsi su scelte di comodo per garantirsi facilmente successi di cassetta.
Il Festival, in controtendenza, sta aumentando il suo pubblico di anno in anno. Le ultime edizioni sono state contrassegnate da un exploit continuo e una crescita impressionante di presenze, tant’è che sono aumentati anche gli spettacoli e la percentuale di pubblico, siamo ormai ad un tutto esaurito per quasi tutte le serate.
La sfida con la contemporaneità è segnata dallo sforzo e dall’impegno di aprirsi e rendere il più possibile inclusive e democratiche le proposte del Festival. Questo è un salto mortale triplo perché riuscire a mantenere la vocazione della ricerca e al tempo stesso evitare di chiudersi in una turris eburnea per una presunta o cosiddetta aristocrazia cultura o intellettuale è davvero difficile; eppure è proprio questa la sfida del presente e del futuro. Proprio per questo motivo da qualche tempo il Festival ha aperto le proprie porte, sia fisiche di Palazzo Ducale con le prove aperte ai giovani sempre gremite, nonché culturali con proposte in grado di intercettare anche l’interesse di un pubblico più vasto, in particolare quello locale del territorio perché sempre di più è fondamentale che i Martinesi e coloro che vivono nelle città vicine considerino il Festival come una ricchezza propria e non una proposta discesa da un Ufo che occupa addirittura i propri spazi, sì da far temere che possa portar via risorse al territorio, stravolgendo così quelli che sono gli intenti delle imprese culturali. Il Festival della Valle d’Itria è una ricchezza per la città e il territorio che lo ospita; studi di settore hanno dimostrato che ogni euro investito, in prodotto culturale di questo tipo, restituisce da quattro a cinque volte tanto. Lo spettacolo dello scorso anno Il Barbiere di Siviglia rivisto e reinterpretato, con Elio, i ballerini e l’Orchestra della Taranta salentina, è stata un’operazione popolare e di apertura che ha anche permesso riflessioni di carattere etnomusicologico e di antropologia culturale nel rapporto della musica di Rossini e le radici ancestrali della musica del Salento e del Sud Italia. Quest’anno con lo spettacolo di danza ed il ciclo contemporaneo ispirati alla poetica di organizzatore culturale di Paolo Grassi che, lui per primo, ha propugnato la necessità del teatro come servizio pubblico e come luogo di ritrovo democratico e privilegiato per la collettività.
Il festival quest'anno è dedicato a Napoli e alla sua scuola musicale. Per una manifestazione che ha valorizzato i compositori pugliesi e dell'Italia del Sud, mi pare un atto dovuto.
Il Festival da sempre ha avuto attenzione alla tradizione e al repertorio della Scuola napoletana/pugliese. Una Scuola che prima di essere italiana è europea perché molti compositori e musicisti nati in Puglia hanno approfondito, sia composizione che lo studio di uno strumento che l’arte vocale, a Napoli nei suoi quattro Conservatori e da lì si sono spostati in tutta Europa portando il senso la cultura e il valore della musica napoletana in tutto il Continente europeo. Mai però, possiamo rivendicarlo con orgoglio, era stato dedicato nessun festival alla Capitale a Napoli che è ancora sentita come la città a cui fare riferimento dalla popolazione di questo lembo d’Italia. Napoli è stata una grande capitale europea, sottolineò la parola europea, fino alla fine del diciottesimo secolo era davvero il centro di creatività e di propulsione riguardo alla musica, alla cultura non solo letteraria, al pensiero e le arti più di ogni altra capitale europea. Il confronto con l’oggi è molto doloroso ma per questo riteniamo fondamentale dedicare, non tanto un omaggio a Napoli, quanto un momento di riflessione sul patrimonio straordinario quella città e la sua cultura ci ha lasciato; una cultura viva che significa molto, anche oggi, per chi ama l’opera e la musica in Italia e in Europa. E’un Festival che, quest’anno, allinea diversi autori dai padri nobili come Porpora, Leo fino ad arrivare a Cimarosa senza dimenticare quella fioritura un po’ eccentrica che è rappresentata da Nicola Manfroce, calabrese di nascita ma di studi napoletani. Proprio a Napoli al Teatro di San Carlo Manfroce vide nascere il proprio astro con la messa in scena della sua opera Ecuba, il suo capolavoro ma anche il suo ultimo canto del cigno poiché morì a soli 22 anni pochi mesi dopo il grande successo dell’Ecuba e l’eco che si diffuse in tutta Europa. Manfroce è un compositore eccentrico rispetto alla Scuola Napoletana; mancano quelle venature patetiche, quella tinta malinconica e nostalgica che si ritrovano nelle fioriture del belcanto, screziature che sono la cifra dei compositori di scuola napoletana. Lui si rifà più all’opera riformata, il modello è certamente Spontini anche se la sapienza contrappuntista e la nobiltà e la dignità della scrittura musicale è tipicamente napoletana.
Quest'anno si ricorda, a cento anni dalla nascita, Paolo Grassi. Una figura gigantesca che ha dato moltissimo all'Italia e all'Europa, uscite da una guerra devastante, nel campo della cultura. Nato a Milano da una famiglia di Martina Franca è sempre rimasto legato alla terra delle sue origini, come ricordarlo al meglio?
E’ vero Paolo Grassi è un gigante della storia della cultura italiana, ma anche teatrale, musicale, televisiva ed editoriale. A lui dobbiamo la nascita del primo teatro pubblico in Italia e la rivelazione, che richiese molto coraggio in un’epoca di ricostruzione materiale e morale del Paese, del teatro come servizio pubblico essenziale al pari del gas, dell’acqua, dell’elettricità e dei trasporti. Le sue radici martinesi legano in modo indelebile il suo nome al Festival; il rapporto tra Milano e Martina Franca è sempre più forte grazie a lui, si rinnova di anno in anno con le collaborazioni del Piccolo Teatro. Molti dei giovani registi che hanno debuttato a Martina vengono dalla gloriosa Scuola del Piccolo di Luca Ronconi. A Paolo Grassi si devono tante cose, si deve un senso civico ed etico del fare teatro e una forte coscienza morale di responsabilità di chi è chiamato a fare l’organizzatore teatrale e gestire le politiche culturali e programmare le stagioni di festival e a fare scelte che non sono soltanto scelte tecniche di repertorio ma sono scelte illuminate da un forte legame con la realtà e la contemporaneità perché la cultura, anche quella che studia approfondisce e propone opere d’arte e repertori antichi e classici, in realtà è fatta per l’oggi ed è fatta dall’oggi: gli interpreti e i destinatari sono tutti cittadini del nostro tempo, per cui la cultura è viva e non è mai una rievocazione. Anche un Festival come questo che ripropone riscoperte, titoli dimenticati antichi e sepolti ha comunque una fortissima vocazione contemporanea ed è questa la scommessa: rendere vivo attuale stimolante graffiante il messaggio che gli autori e le loro opere portano all’oggi e alla sensibilità di oggi, cosicché la collettività possa riconoscersi nelle proprie radici comuni ma anche nella propria visione e nei nervi scoperti dell’attualità. Questa è la lezione di Paolo Grassi; in questa edizione del Festival della Valle d’Itria ci saranno vari spettacoli diversi l’uno dall’altro ma, in qualche modo, tutti ispirati alla sua figura e vogliono raccontare una poetica di organizzazione teatrale. Lo ripetiamo Paolo Grassi è stato un grande impresario, un illuminato uomo di teatro, ma è stato a suo modo un artista; la sua visione dell’organizzazione teatrale racconta una sensibilità ed una umanità profondissime.
Un titolo che susciterà curiosità e attenzione è sicuramente Ecuba di Nicola Manfroce; un musicista calabrese morto giovanissimo che però nei suoi brevi anni aveva provato a rinnovare il genere dell'opera seria. Che opera è Ecuba ?
Ecuba è un’opera che si rifà alla tradizione di Gluck, l’opera riformata dall’impianto rigoroso severo e austero. Manfroce puntava sulla grande campitura drammaturgica con grandi scene; naturalmente rifugge dalla forma chiusa e non indulge in variazioni di stampo puramente estetico ed edonistico ma punta dritto al dramma e scolpisce figure e personaggi che derivano da modelli antichi tragici della mitologia. Personaggi elevati sublimi a partire dalla protagonista Ecuba, una tragedienne esemplare, soprano coturnato e per questo è necessario avere un’interprete di grande spessore artistico e di valore. Abbiamo scelto Carmela Remigio che ha tutte le caratteristiche di temperamento artistico e di cultura di sensibilità e maturità per poter raccontare questa figura di donna, madre e moglie segnata dal dolore profondo per la perdita, a causa di una sanguinosa guerra decennale, dei suoi cari. E’ ancora caldo il corpo del figlio maggiore Ettore, quando ordisce una terribile vendetta utilizzando a mo’ di strumento la propria figlia. Si staglia come una figura gigantesca, colossale; è un’opera complessa che non lascia spazio a oasi di patetismo fine a sé stesso e a un virtuosismo vocale che punta a stupire. E’ certamente un’opera che accende i bagliori sul dramma interiore sulla sofferenza del singolo individuo e di un intero popolo. Duplice il carattere di Ecuba che gioca e agisce su un’ipocrisia, molto ben raccontata dal punto di vista psicologico sul doppio binario di intendimento profondo reale celato e una superfice apparentemente accomodante. Colpisce e impressiona il finale sinfonico che affida alla musica l’immagine della città di Troia, in fiamme che crolla su sé stessa.