Giuseppe Verdi (1813–1901)
Rigoletto (1851)

DIRETTORE : Daniele Gatti
REGIA : Daniele Abbado

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE E LUCI Gianni Carluccio  
COSTUMI Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico
REGISTA COLLABORATORE Boris Stetka
MOVIMENTI COREOGRAFICI Simona Bucci

IL DUCA DI MANTOVA Ismael Jordi 
RIGOLETTO Roberto Frontali 
GILDA Lisette Oropesa 
SPARAFUCILE Riccardo Zanellato 
MADDALENA Alisa Kolosova 
GIOVANNA Irida Dragoti *
IL CONTE DI MONTERONE Carlo Cigni 
MARULLO Alessio Verna
MATTEO BORSA Saverio Fiore
Il CONTE DI CEPRANO Daniele Massimi 
LA CONTESSA DI CEPRANO Nicole Brandolino
USCIERE DI CORTE Leo Paul Chiarot 
PAGGIO DELLA DUCHESSA Michela Nardella 

Orchestra e coro del Teatro dell'Opera di Roma

Teatro dell'Opera di Roma, domenica 9 dicembre 2018

Rigoletto è un titolo classico del repertorio abituale dei teatri d’opera. E come tale, appare più spesso nel corso della programmazione piuttosto che all’apertura di stagione, particolarmente in Italia. Occorre dunque un buon motivo per averlo scelto all’inaugurazione della Stagione 2018–2019 dell’Opera di Roma.
Dopo Tristano e dopo La Dannazione di Faust, due titoli rari nelle stagioni romane, Daniele Gatti, che è appena stato nominato direttore musicale dell’Opera di Roma per tre anni, fino al 2021, ha deciso di tornare alla partitura autentica di Verdi piuttosto che dirigere le versioni stabilite dalla tradizione e dalle esigenze dei cantanti, le quali hanno condotto a pratiche esecutive piuttosto lontane dall’originale. Il risultato è stato sorprendente, facendo di questa edizione di Rigoletto una novità all’opposto di ogni istrionismo lirico.

Traduzione italiana di Luciana Fusi

Impianto scenico (Atto primo)

Un Rigoletto diverso

Ciò che ha reso originale questo Rigoletto, più che la messinscena di Daniele Abbado decorosa e chiaramente costruita lavorando fianco a fianco con il direttore, ma che esita fra una visione da thriller nero e uno sguardo alla tradizione (soprattutto nel finale), più che un trio di cantanti esemplari che assecondano le indicazioni del Maestro e censurano ogni facile effetto e ogni istrionismo di routine, ciò che rende originale questa produzione è la musica che mai si era ascoltata così e che costituisce un ritorno alla partitura di Verdi con le sue sorprese e la sua radicalità.

Daniele Gatti ha spiegato di aver riletto la partitura basandosi sull’edizione critica della Chicago University Press e scoperto che molti degli acuti abitualmente eseguiti non erano scritti, che i tempi erano spesso ben più lenti di quanto li si ascolti solitamente e che queste scelte dello stesso Verdi determinano una drammaturgia musicale molto diversa, con scene che cambiano completamente ritmo. Due esempi all’inizio : l’aria “Questa o quella per me pari sono” affrontata con un tempo assai più lento diventa non più la sigla di un Duca superficiale e senza scrupoli, ma piuttosto un programma ragionato di libertinaggio, una “spiegazione” data a Borsa e non un’aria brillante cantata a caso. Altro esempio, la prima apparizione di Sparafucile, a un tempo rallentato e con l’orchestra in sordina (contrabbassi e celli veramente eccelsi), diventa spettrale e al limite del reale.

Si dimentica spesso che se Verdi si è ispirato a Le roi s’amuse di Victor Hugo, violento attacco contro la monarchia e la nobiltà che scatenò le furie della censura, il suo librettista Francesco Maria Piave ambientò il soggetto a Mantova, città che Verdi conosceva bene poiché viveva a poche decine di chilometri. Ne conosceva il clima umido della pianura Padana, attraversata da nebbie fitte, glaciali e inquietanti. Verdi e Piave fecero del Rigoletto un’opera notturna, attraversata da albe livide e da temporali. E l’apparizione di Sparafucile è un’ombra che emerge dalla bruma e passa come un fantasma. Mantova è essenzialmente questa atmosfera e sarebbe ben strano se Verdi, scrivendo Rigoletto, non l’avesse evocata.

Roberto Frontali (Rigoletto) di fronte ai cortigiani (Atto II)

Una lettura musicale affascinante per la sua profondità e novità

Per questo motivo l’impressione che si ricava da tale lettura musicale è l’eliminazione di ogni brillantezza a favore di una tinta cupa, di ambienti oscuri e di personaggi mai caricaturali, a cominciare da Rigoletto e dal Duca. Spesso si vedono in scena dei Rigoletto dai tratti esorbitanti di malvagità e dei Duca resi insignificanti dalla loro leggerezza superficiale. Qui non è stato così.
Gatti ha imposto alla compagnia di cantare diversamente, in modo più concentrato, evitando le proiezioni di decibel alla follia.
Prendiamo l’esempio degli acuti. Quelli non scritti da Verdi non sono eseguiti (era già un credo di Riccardo Muti nei suoi anni fiorentini, per esempio, l’acuto di “Di quella pira” del Trovatore). E del resto, per il suo modo di dirigere e d’imporre ai cantanti uno stile e un tempo, Gatti rende gli acuti inutili, non se ne sente più la necessità. Il lavoro di ritorno alla partitura, di concentrazione, dimostra infatti che la scrittura stessa di Verdi non li richiede se non quando sono necessari, e non per compiacere un cantante. E di colpo, il colore complessivo è totalmente diverso, facendo del Rigoletto non più l’opera brillante della trilogia popolare ma un triller nero, sinistro, nebbioso.

Un esempio : il primo atto

L’inizio del primo atto ha rivelato un quadro che non sempre si percepisce. Ma entriamo nel dettaglio per capire in che cosa consiste questo lavoro di spolveratura. La scena prima del primo atto è la fine della serata (lo stesso Hugo lo dice nella didascalia iniziale di Le roi s’amuse : “La festa sta per finire, l’alba imbianca le vetrate” ) e gli ospiti cominciano ad andarsene, come la contessa Ceprano. La festa non è più al culmine, per cui è inutile spingere sui toni brillanti (da qui un “Questa o quella” piuttosto trattenuto). In seguito, il gioco sonoro delle orchestre in scena, l’una in vista e l’altra in fondo, con quella nella fossa che interviene ogni tanto in alternanza, rimanda evidentemente al finale del Don Giovanni di Mozart (richiamo molto visibile nel momento in cui la Ceprano si allontana accompagnata dalle moine del Duca). Raramente si è potuto ascoltare una simile chiarezza nei diversi livelli dell’orchestra nella scena e in fossa, come pure una simile raffinatezza. Ma il volume non è mai invadente, con ritmi quasi rossiniani nella loro delicatezza. La messa in scena mette in primo piano una delle due orchestre, celando l’altra nelle quinte : e la vista dei musicisti cambia l’ascolto, richiamando l’attenzione diretta all’azione sui piani sonori, sul significato degli interventi nella fossa, sul suono prodotto dalle orchestre in palcoscenico. La scena diventa di colpo più elegante, più elaborata, più costruita : tale è la partitura di Verdi, a dispetto delle facilonerie che talvolta si è creduto di leggervi.

Un Rigoletto teso e straripante di colori

E’ così per tutta la serata : ci viene rivelato un Rigoletto più preciso, dal suono più analitico, con  sortite strumentali sorprendenti (i legni e soprattutto l’oboe che accompagna “Tutte le feste al tempio” di Gilda nel secondo atto, o il flauto in sintonia totale con le voci), un Rigoletto dalla tensione drammatica fortissima, con crescendi superbamente dominati da parte di un rossiniano come Gatti. Ma anche un Rigoletto che ci dice altro su quanto conosciamo dell’opera, un Rigoletto che può essere sconcertante ma comunque ci mostra una tavolozza nuova, un ampio spettro di colori che va dal grottesco e dal comico al patetico e al tragico, un Rigoletto nero ma non solo, che dà ai personaggi un’altra valenza e un altro peso.

È insomma il ritorno alla drammaturgia verdiana originaria a determinare nella messinscena e nella definizione dei personaggi una visione nuova : un solo esempio, il Duca che spesso è visto come un essere superficiale e senza scrupoli, acquista uno spessore differente, meno brillante, sicuramente libertino, ma un poco meno cinico. E Rigoletto diventa non un personaggio bifronte, dalle vite separate, buffone e padre : è più coerente, più uniforme, anche più dignitoso, perfino nelle buffonerie. Ne risulta un canto più raffinato, meno “istrionico” di quello cui ci hanno abituato certi grandi interpreti del ruolo.

Roberto Frontali (Rigoletto) e Lisette Oropesa (Gilda)

Una tavolozza vocale esemplare

Sul palcoscenico, il coro diretto da Roberto Gabbiani sfoggia una prestazione esemplare, molto controllata a causa del tono richiesto, che a sua volta non copre mai i cantanti.

Lisette Oropesa sta diventando un soprano di riferimento, ha trionfato a Parigi ne Gli Ugonotti, poi ne L'Elisir d'amore, è stata Nannetta nel Falstaff diretto da Gatti ad Amsterdam.  La si potrebbe credere una voce leggera ma non è così, la sua voce è corposa, con acuti e sovracuti ben padroneggiati e controllati. E’ una Gilda freschissima, giovane, ma anche decisa e matura. Non ha nulla dell’usignolo, in particolare nell’ aria “Caro nome” che, depurata delle cadenze e fioriture inutili, è tutto il contrario : la linea di canto e i passaggi sono impeccabili, la dizione senza inciampi, con un vero senso del colore, e sa far emergere il dramma, le esitazioni quanto la gioia. Il modo in cui, entrando in scena, si precipita verso il padre e tenta di raccontargli il suo amore nascente (senza peraltro riuscirci) con un colore giovanile e nella sincerità immediata della gioia, scolpisce un “Caro nome” certo pieno d’amore ma già serio e malinconico che è un capolavoro di emozione e insieme di pudore soprattutto nella frase “e fin l’ultimo mio sospir, caro nome, tuo sarà” così premonitrice. Ma sa anche, alla fine del secondo atto, affrontare dei forti accenti drammatici. La voce è di rara sicurezza, di grande omogeneità e il coinvolgimento espressivo è totale. Una grande Gilda, oggi senza dubbio la migliore, che sa perfettamente dosare i toni della giovinezza, dell’amore, del dramma con una grande presenza scenica e vocale. E’sconvolgente nella scena finale (“Ah, ch’io taccia ! A me, a lui perdonate!”) come pure nella chiusura del secondo atto quando chiede al padre di perdonare (“Perdonate : a noi pure una voce di perdono dal cielo verrà”), momento ancora una volta premonitore poiché la regia la fa morire in piedi, come l’angelo che diventerà in cielo…

Roberto Frontali (Rigoletto) e Ismael Jordi (Il Duca)

Di fronte a questa Gilda insieme radiosa e sensibile, il Duca di Ismael Jordi è volutamente di minor spicco, in una messinscena i cui affreschi sono meno luminosi e quasi oscuri : in armonia con le scelte della direzione musicale, che limita al massimo gli effetti per far risaltare il colore e l’atmosfera e dimostrare che Verdi all’origine forse non volle un Duca simile a un gioiello di paccottiglia, dalla voce chiara e brillante ma un personaggio “semplicemente” libertino e forse (nell’atto II) sinceramente innamorato (“Ella mi fu rapita”). Ismael Jordi è un autentico belcantista dalla voce ben controllata, dal timbro chiaro che può ricordare Giacomo Aragall. Interpreta un Duca molto diverso dalla consuetudine, quasi più interiorizzato ; e le esibizioni tenorili, cadenze e sovracuti, non converrebbero a un personaggio del genere.  Nel trio dei protagonisti è forse il più sorprendente, perché sia l’approccio della direzione sia quello della regia gli impongono una certa misura, dotando il personaggio di una certa ambiguità e in ogni caso togliendogli ciò che può avere di odioso nella visione abituale. In lui c’è, in questa interpretazione, qualcosa di più profondo e Jordi sa renderne una specie di tenerezza modulando e addolcendo il canto quando occorre, senza mai esagerare o essere volgare. Il suo “Questa o quella” iniziale a tempo rallentato è più esplicativo che illustrativo del carattere del personaggio, una dichiarazione dongiovannesca “non v’è amor se non v’è libertà”. Insomma, un grande risalto quasi in chiaroscuro di un Duca mai gratuitamente brillante.

Roberto Frontali è Rigoletto, la messinscena punta a cancellare la separazione buffone\padre unificando il personaggio, a cominciare dai costumi di Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico che lo presentano in una giacca nera con qualche paillettes quando è buffone e che egli si toglie per ridiventare colui che il Duca descrive come “misterioso un uom v’entra ogni notte”. E’ prima di tutto tale globalità a colpire, ovvero l’unità di un personaggio che sotto le luci giudica detestabile l’umanità aristocratica e che di notte ridiventa “l’uomo misterioso”. Frontali evita tutti i borborigmi e le moine di Rigoletto e giustamente impregna il suo canto di grande umanità, anch’egli con una scienza dei colori consumata e una raffinatezza che rende la sua interpretazione affascinante. Il suo è un Rigoletto fondamentalmente giusto, più interiorizzato, tragico colpito fin dall’inizio dalla maledizione. Nell’incontro con Sparafucile, diventa quasi meditativo, cesellando il suo “pari siamo” con una rabbia interiore che lo rende disperato, e il suo “Cortigiani” del secondo atto è quasi un monologo interiore.  Rigoletto è restituito alla tragedia. Frontali (classe 1958) è davvero sconvolgente, senza aver bisogno di forzare la voce, gli basta recitare il testo. La sua linea di canto, il colore, la dizione e perfino l’unico rimasto che è il la bemolle della “Vendetta” sono solidi e perfettamente in tono. Un Rigoletto degno d’un universo alla Edvard Munch, l’espressionismo alla Verdi. Magnifico.

Atto terzo : Riccardo Zanellato (Sparafucile) Alisa Kolosova (Maddalena) e Lisette Oropesa (Gilda)

I protagonisti sono ben fiancheggiati, innanzitutto dallo Sparafucile di Riccardo Zanellato, a sua volta insinuante e sinistro nella scena del primo atto con Rigoletto ma, al terzo, altrettanto misurato nella espressione, con un grave profondo, una voce rotonda e una magnifica dizione, chiara, giocata sui colori che conferisce al personaggio una presenza quasi irreale. La Maddalena di Alisa Kolosova è ben costruita e sfoggia una voce sicura, potente.  Tutto il resto della distribuzione è impeccabile, in particolare la giovane Irida Dragoti nel ruolo di Giovanna e Carlo Cigni in quello di Monterone.

Ma è soprattutto merito del Maestro l’essere riuscito a cambiare le “cattive” abitudini e di aver restituito con le sue scelte musicali questo Rigoletto  alla verità dei personaggi e dell’ambientazione cupa , contrastata, fremente più che vibrante.

Una regia efficace ma senza inventività

E dalle intenzioni che Gatti ha imposto alla direzione dell’opera si arriva presto alla messinscena di Daniele Abbado che ha operato in stretto rapporto con le idee del Maestro, laddove il regista ha legato il proprio lavoro al ritmo drammaturgico della musica di Verdi con risultati, in alcune scene, molto convincenti.

Atto secondo : Ismael Jordi (Il Duca) Lisette Oropesa (Gilda) e Irida Dragoti (Giovanna)

La messinscena aderisce dunque felicemente a questo contesto, senza essere di per sé troppo ricca d’idee ma nell’insieme efficace, Come già detto, direttore e regista hanno puntato, insieme, a fare del Rigoletto un thriller espressionista dove tutta la brillantezza è cancellata. Daniele Abbado colloca la vicenda negli anni Quaranta del Novecento, in un’Italia dominata dal fascismo. Da qui l’ambiente cupo creato dalle scene fredde e metalliche di Gianni Carluccio, abbastanza leggere per spostarsi senza sottrarre spazio e disposte su vari livelli . Viene evocato un tempo in cui gli arresti, i complotti e naturalmente i colpi bassi degli Sparafucile del momento erano all’ordine del giorno. Ma il periodo storico non ha molta importanza, se non per dirci che il potere è sempre losco e prevaricatore.
Più interessanti sono gli ambienti uniformemente notturni, come si è detto, nelle brume inquietanti di una Mantova mortifera. La scena più riuscita è quella dell’incontro tra Rigoletto e Sparafucile, durante la quale tutto viene deciso e dove Sparafucile è una specie di spettro che attraversa la nebbia, mormorando a Rigoletto la sua proposta senza veramente insistere, senza che si sappia se questa apparizione è reale o no, lasciando che si diffonda il lato irrazionale dell’opera già aperto dalla maledizione di Monterone. Mentre la scena finale della morte di Gilda che muore in piedi, come trasfigurata, è un topos delle grandi scene di morte verdiane come quella di Traviata. Forse qui mancava un poco d’ispirazione ma senza nuocere all’insieme, che non meritava le contestazioni ricevute, sembra, alla prima dello spettacolo.

Senza ombra di dubbio, il protagonista assoluto della rappresentazione è stato Daniele Gatti, dando a questo Rigoletto un colore nuovo, d’interesse raro e di rara immaginazione, ottenendo dai cantanti un approccio non superficiale, uno sguardo più sensibile sui loro ruoli e determinando anche i momenti più riusciti di una messa in scena senza grandi novità. Dopo le detestabili vicende estive, rivedere Gatti sul podio, trasfigurato dalla musica di Verdi e acclamato calorosamente dal pubblico romano, ormai il suo publico, è stato qualcosa di fortemente emozionante.

Roberto Frontali (Rigoletto)

 

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