
Premesse
Quando si hanno alle spalle più di settanta opere di ogni stile e formato, drammi storici, fiabe, commedie, opere buffe, Grand-Opera in italiano e in francese, con le riscritture talvolta necessarie a seconda dei luoghi e dei cantanti, la varietà dei soggetti offre uno sguardo abbastanza completo su ciò che poteva piacere nella prima metà del XIX secolo, ma anche sui fatti sociali che hanno caratterizzato il secolo, ricchi di insegnamenti sull'evoluzione del costume. Non mancheremo di riparlarne a proposito di Deux hommes et une femme, il cui tema ha suscitato reazioni nel mondo associativo locale.
Il Furioso nell'isola di San Domingo propone un mondo coloniale, quello dell'isola di San Domingo, e tra i personaggi, uno schiavo nero, Kaidamà, il cui ruolo non è indifferente nella trama, e che pone la questione della rappresentazione della schiavitù, di per sé già difficile, accompagnata dalla questione del blackface (o meno) con tutta la letteratura che ciò potrebbe comportare, senza contare le numerose battute discutibili del libretto.
La storia dell'opera è piena di temi oggi pericolosi, e sono certo che alcuni teatri esitano all'idea di rappresentare un'opera così delicata per alcuni sguardi contemporanei. Ma la paura è cattiva consigliera. Il teatro, proprio perché è teatro, può e deve permettersi TUTTO. Nessuna rappresentazione deve essere censurata in nome delle polemiche del momento, perché se una rappresentazione è (auto)censurata, lo è tutto il teatro.
Cosa racconta quindi questa commedia coloniale agrodolce ?
Cardenio, figlio di un mercante spagnolo, ha trovato rifugio sull'isola di San Domingo. È impazzito completamente a causa del tradimento di sua moglie Eleonora, che non solo lo ha tradito, ma lo ha anche ridicolizzato. Così, gli abitanti cercano di prendersi cura di lui, Bartolomeo, un proprietario locale, sua figlia Marcella, ma anche il loro schiavo Kaidamà, che nonostante tutto ha molta paura di lui. Tutti infatti temono le sue crisi, i suoi accessi di violenza, la sua disperazione irrimediabile.
Eleonora, dal canto suo, alla ricerca del marito da anni e tormentata dai rimorsi, arriva a sua volta a San Domingo dopo un naufragio causato da una tempesta. È presto seguita anche da Fernando, fratello di Cardenio, che arriva sull'isola per cercarlo.
Quando Cardenio riconosce Eleonora, lei non ha il tempo di spiegarsi che la sua follia lo riprende, più forte che mai. Tra momenti di calma e crisi, Cardenio finisce per gettarsi in mare, ma suo fratello Fernando lo salva all'ultimo momento. Cardenio, salvato, rimane disperato e, entrato in possesso di due pistole, medita il suicidio.
Eleonora arriva, sconvolta dal rimorso, e quando Cardenio le propone di suicidarsi insieme, lei accetta. Ancora una volta Fernando e gli altri intervengono per salvarli. Cardenio viene disarmato, ma Eleonora, in preda alla disperazione, rivolge l'arma contro se stessa. All'ultimo momento, Fernando la disarma e Cardenio, commosso dal gesto disperato della sua contrita moglie, la perdona, ritrova la ragione e tutto finisce bene.
L'opera, che trae origine da un episodio del Don Chisciotte di Cervantes, è piuttosto strana, tra scene comiche abbastanza simili a quelle di Rossini (il libretto è di Jacopo Ferretti, autore di quello della Cenerentola) che Donizetti adorava, e momenti di grande emozione, tanto il personaggio di Cardenio è totalmente disperato. Si è sempre in bilico tra dramma e commedia, tra tragedia e burlesco, ma un burlesco che gioca anche a fare il funambolo con questo schiavo nero timoroso e caricaturale, impossibile da proporre così com'è oggi.
Dal punto di vista drammaturgico, la struttura in due atti ricorda le opere di Rossini, e la qualifica di melodramma rende ovviamente conto di questo aspetto agrodolce segnalato altrove, ma allo stesso tempo, per quanto il primo atto sia ben costruito, il secondo sembra meno serrato, ripetitivo, con scene finali a cascata, salti nel mare, tentativi di suicidio multipli, ma anche personaggi come il fratello Fernando, la cui utilità è innanzitutto quella di essere l'unico tenore – una voce necessaria, anzi obbligatoria in un'opera – che serve a un certo numero di numeri musicali ma che non serve necessariamente al vigore teatrale, anche se è il salvatore permanente di suo fratello e poi di sua moglie.
La regia di Manuel Renga
Si capisce che la regia dell'opera non sia così facile, e le risposte di Manuel Renga lasciano l'opera in quel limbo che ne costituisce il pregio, senza essere sempre perfettamente convincenti, ma senza nemmeno urtarla.

Renga ha deciso di non affrontare i problemi socio-storici, in particolare l'atmosfera coloniale e la schiavitù, relegando questo sfondo in una serie di immagini più o meno lontane (la scenografia di Aurelio Colombo è “evocativa” più che storicizzante, semplicemente perché Manuel Renga concentra la sua attenzione sulla questione della follia e della malattia mentale, mostrando che l'episodio di San Domingo non è per Cardenio un semplice momento eccezionale dovuto alla sua sfortuna, ma il sintomo di un male più profondo che lo ha afflitto per tutta la vita, partendo da una riflessione del libretto, lasciata a Bartolomeo che dice della follia « ci spero poco, un qualche ramo sempre ci resta », cioè che la follia è una pianta di cui si possono tagliare i rami ma le cui radici rimangono per sempre.

Per farlo, mette un Cardenio anziano, nel letto di una casa di riposo, con la sua badante, che vaga nel suo spazio mentale, spesso con un album di foto, a cui una Eleonora invecchiata ma tirata a lucido fa visita, guardandolo con pazienza e un po' di pietà. È quindi Cardenio anziano che rivede la storia di Cardenio giovane, con la deformazione dei ricordi, le esagerazioni che ne derivano e la follia che lo riprende se mai lo ha abbandonato.

Il mondo che ci verrà mostrato è quindi una proiezione mentale instabile, con uno scenario che si frammenta, mobili e ambienti che esplodono, e personaggi che non sono reali, ma come li vede Cardenio invecchiato, o come la sua memoria rappresenta i suoi ricordi di quel periodo. L'idea non è assurda e conferma che Manuel Renga è un regista interessante, ma la resa non sempre riesce a tradurre la situazione, tanto che a volte si ha l'impressione che la presenza della coppia anziana sia inutile, che la trama si svolga “in diretta”, perché la rappresentazione dei personaggi “in diretta” non ha la distanza deformata che ci si aspetterebbe dal ricordo disturbato del vecchio, nonostante i bei giochi di luce di Emanuele Agliati.



In altre parole, Renga forse non si spinge abbastanza lontano nella traduzione delle follie di Cardenio : come vede i “benevoli” (Bartolomeo, Marcella)? Potrebbe, ad esempio, considerare il mondo che lo circonda come un'aggressione universale, ma non è così : Bartolomeo e Marcella si comportano in modo normale e umano e Cardenio alterna momenti di calma e di crisi…
Renga propone una soluzione puramente teatrale, evitando ciò che potrebbe essere una facilità, come l'uso del video, ad esempio, con una focale soggettiva, come uno sguardo deformato, ecc… con qualche trucco. Con questa scelta, utilizzando mezzi puramente teatrali, giochi di oggetti con doppia funzione (la nave che evoca la sua giovinezza o che può anche essere un oggetto che circonda il vecchio Cardenio, l'armadio da cui esce Fernando ecc.), confonde un po' le acque senza sfruttare appieno questa possibilità. Così la presenza quasi permanente del vecchio Cardenio che vaga nella scenografia e del giovane Cardenio tutto preso dalle sue scappatelle a volte manca il suo scopo, perché appare poco chiara, goffa o superflua. Si tratta di un esercizio di equilibrismo, con i rischi che ne derivano : si può facilmente perdere l'equilibrio se la drammaturgia non è sufficientemente serrata. L'idea ha senso, è persino molto gradita in questi tempi in cui la malattia mentale è un argomento molto attuale, ma non va abbastanza lontano e manca il suo scopo.

L'unico personaggio trattato in modo sottile, data la situazione e il funambolismo di cui parlavamo prima, è Kaidamà, lo schiavo nero. Poiché è anche una proiezione del vecchio Cardenio, non c'è bisogno di truccarlo (Blackface), né di farlo cantare da un cantante di colore, basta renderlo un “personaggio” strano, che contrasta con l'atmosfera generale : Kaidamà è legato a Cardenio, ma ne ha paura, e quindi lo tratta con diffidenza e distanza, pur cercando di aiutarlo. Renga ne fa un personaggio marginale dotato di tutti gli stereotipi del “nero” (si pensi alle visioni tratte da La casa dello zio Tom, ma anche del nero agile e danzante), e del resto Eleonora, appena salvata dal naufragio, lo incontra e crede di trovarsi di fronte a Satana, e il suo padrone Bartolomeo lo insulta sempre copiosamente e con grande violenza, ma Renga se la cava dotandolo allo stesso tempo di una marginalità molto simpatica e malinconica, alla Chaplin, o alla maniera di un clown triste.

Dice infatti di essersi ispirato a Emmett Kelly, il famoso clown che ha creato il personaggio di Willie il vagabondo. Renga lo fa quindi interpretare da un cantante bianco, il che, dal punto di vista del ricordo, degli stereotipi e del tipo di personaggio, è piuttosto interessante, e Bruno Taddia è abile nel rendere lo strano lato del personaggio, diventato in qualche modo anche un lontano discendente di Arlecchino (siamo a Bergamo…) passato per Chaplin e altre figure.
Kaidamà, capro espiatorio, è anche un figlio dell'Illuminismo e un bravo ragazzo, che subisce le ire di Cardenio passando sistematicamente dalla dolcezza al bastone, che condivide il suo pasto, che canta « la pietà con gli oppressi è un dover » che di fronte a Cardenio che lo ha colpito più volte con il bastone « Le mie spalle lo ricordano ma mio cor lo scorderà ». Il personaggio è quindi dotato di autentica umanità. È trattato come tale in questa messa in scena e il modo in cui viene visto è senza dubbio uno dei punti di forza di questo lavoro.
Il resto oscilla tra il tradizionale e l'approssimativo. I personaggi sono insufficientemente caratterizzati (Bartolomeo, ad esempio, e persino Fernando, un po' superficiale nel suo ruolo di Zorro salvatore), l'allestimento ricorda un po' un'atmosfera coloniale (carta da parati floreale che evoca una vegetazione tropicale ispirata alle dimore patrizie di Bergamo) tra l'astratto e il concreto : è una scatola, come una scatola dei ricordi, con oggetti, armadio, bicicletta, letto che sono gli oggetti quotidiani del vecchio Cardenio, che diventano anche elementi della memoria quasi surreali.

Ma lo sguardo non sempre riesce a distinguere la realtà dal ricordo, la follia dalla ragione. Così, nei momenti di crisi più acuti di Cardenio, le pareti si aprono, lasciando intravedere una sorta di aldilà, i mobili e il mondo intero volteggiano dando l'impressione che tutto nella sua testa sia sottosopra : l'idea di un Cardenio senile che la follia non ha mai veramente abbandonato è piuttosto gradita, ma non essendo portata fino in fondo oscilla tra momenti confusi e momenti autenticamente poetici, che sembrano usciti da una fiaba, Fernando che esce da un'acqua rappresentata da coriandoli, la nave in miniatura naufragata come una nave da burattinaio, tutto questo è piacevole da vedere, ma manca il contrasto nella sovrapposizione dei mondi che si mescolano…

Forse è un effetto voluto, per mostrare una confusione mentale permanente, ma si rimane un po' insoddisfatti, nonostante alcuni momenti piacevoli. Renga lavora maggiormente sull'immagine, l'inquadratura, l'atmosfera, il colore dorato dei ricordi tropicali : ha più difficoltà con i movimenti scenici piuttosto convenzionali, tranne che per Kaidamà, l'unico personaggio davvero elaborato che gli permette di passare senza intoppi dal dramma alla commedia, dal vicino al lontano e di appianare i singhiozzi del libretto.
Ma tutte le scene finali, le meno elaborate del libretto e quindi le più difficili da rendere, rimangono piuttosto convenzionali e ripetitive, mentre un po' più di varietà sarebbe stata gradita.
Nel complesso, una messa in scena d'atmosfera, abbastanza fluida, più riuscita di Macbeth a Busseto a mio avviso troppo estetizzante, che si affida alle qualità singolari degli artisti per rendere i personaggi : la freschezza di Marcella, la gentilezza di Bartolomeo, i disordini del clown triste di Kaidamà, la follia di Cardenio incarnata da un Paolo Bordogna totalmente immerso nel ruolo, il lato elegiaco di Eleonora (Nino Machaidze)… tutto è ben reso, anche se il lato drammatico sembra più esagerato, mentre guadagnerebbe da una minore caricatura. Ma, come si è detto, è un puro funambolismo che ci offre comunque un bel momento
Gli aspetti musicali
Ancora una volta, Donizetti sorprende con una forma ibrida, evidentemente ispirata a Rossini, come dimostra la sinfonia, qui è stata ripristinata nell'edizione critica di Eleonora di Cintio, particolarmente gradita, agile, ricca di colori e ritmi vari, nella grande tradizione del « cigno » di Pesaro. L'opera mantiene una forma tradizionale, con recitativi accompagnati al pianoforte (eccellente Hana Lee, confinata in un palco) e quindi una struttura che affonda le sue radici nel dramma giocoso (recitativo, aria o ensemble), ma che riserva sorprendenti sorprese musicali, come il doppio finale del primo atto, totalmente sbalorditivo per vivacità, di novità, di senso teatrale e drammatico, che riprende forme tradizionali, ma con una consumata arte dell'opportunità per raccogliere applausi trionfali un po' come il Mozart del secondo atto delle Nozze di Figaro per il ritmo vertiginoso, ma che già annuncia i grandi concertati verdiani per il respiro e l'ampliamento del discorso . Più faticosa musicalmente la seconda parte a causa di una drammaturgia approssimativa, nonostante il rondò finale di Eleonora alla Rossini e momenti più elegiaci.
L'opera è ibrida, sviluppata, a più livelli, ma la musica rimane fluida, colorata, mai incoerente, e si può capire il successo che accolse la prima a Roma, al Teatro Valle, che 16 anni prima aveva visto la prima della Cenerentola, e fece di questo « Furioso » uno dei grandi successi di Donizetti.
Richiede in particolare una presenza orchestrale marcata, ritmata, piuttosto esplosiva, ma che sappia anche lasciare spazio a respiri elegiaci, e Alessandro Palumbo, alla guida dell'orchestra Donizetti Opera, raccoglie perfettamente la sfida.

In primo luogo, la direzione garantisce la chiarezza dell'esecuzione con un'orchestra particolarmente limpida che permette di apprezzare l'orchestrazione donizettiana, valorizza gli strumenti (i legni…) e non cede mai alla brutalità o al contrasto, ma al contrario si preoccupa di unificare l'insieme, di dare coerenza a questa musica che viene resa con una certa raffinatezza e una grande flessibilità, adattando i tempi e il ritmo ai momenti comici e a quelli malinconici, senza alcuna rottura di tono, con una costante attenzione all'eleganza e alla finezza, rendendo giustizia a una partitura ibrida in cui l'interpretazione dell'ouverture, la « Sinfonia », con il suo doppio colore, prima cupo, poi vivace e ritmato, è uno dei grandi momenti sorprendenti della serata, in cui si percepisce immediatamente la presenza di un vero direttore e che dimostra ancora una volta la qualità della scuola italiana di direzione musicale.

Il coro dell'Accademia del Teatro alla Scala, come ogni anno, sotto la direzione di Salvo Sgrò, dimostra che la nuova generazione è pronta, tanto è brillante il suo ruolo.
La compagnia, composta da sei cantanti, rimane piuttosto ridotta, nella tradizione di questo tipo di opera, dove dominano le voci gravi (basso e baritono).

Giulia Mazzola aveva conquistato il pubblico nell'edizione 2024 del Festival nel ruolo di Norina in Don Pasquale, che aveva affrontato con notevole grinta e un vero senso della scena ; questa volta il ruolo è più discreto, anche più leggero, e lei lo affronta con grande freschezza. Inizialmente un po' titubante, acquista gradualmente sicurezza e il personaggio prende forma, in contrappunto alla voce più assertiva e ampia di Machaidze nel ruolo di Eleonora. Giulia Mazzola è una cantante che si adatta a personaggi di stili diversi, attenta a curare il colore di un ruolo. Conferma l'ottima impressione dello scorso anno.

Anche Valerio Morelli ci aveva sedotto la scorsa stagione con il suo bel timbro di basso nel ruolo del malvagio Ali in Zoraida di Granata. Proveniente dalla Bottega Donizetti, conferma l'ottima impressione di allora. Questa volta il ruolo è piuttosto simpatico (tranne che con il suo schiavo Kaidamà), pieno di sollecitudine, e la dolcezza del suo timbro serve evidentemente a delineare il personaggio, con un vero senso musicale. Una voce da seguire.

Bruno Taddia è Kaidamà, il personaggio più elaborato di questa messa in scena, e se la cava con onore in questo ruolo difficile. È agile sul palco, molto coinvolgente e vocalmente particolarmente solido. Vera incarnazione, mai esagerato, rimane sempre in bilico tra il buffo e il tragico, il che lo rende particolarmente commovente, persino appassionante, perché mai esuberante, mai caricaturale e sempre ambiguo. Un grande successo che gli vale una vera e propria ovazione.

Il tenore indispensabile in ogni opera è qui l'argentino Santiago Ballerini, Fernando, che Manuel Renga non riesce a rendere un personaggio interessante, ma la cui voce molto controllata e solida mostra qualità di sicurezza su tutto lo spettro che dovrebbero aprirgli molte porte nel repertorio belcantistico, dove mancano tenori… Il timbro non fa necessariamente sognare, ma la tecnica c'è, con acuti ben negoziati, un controllo del respiro esemplare e un volume invidiabile. Le sue due arie sono difficili e piuttosto dimostrative : lui è all'altezza e offre una performance di livello notevole.

Nino Machaidze è ben nota su tutti i palcoscenici e interpreta il ruolo di Eleonora, la moglie piena di rimorsi, con quel chiaroscuro nella voce necessario a un personaggio che deve rimanere un po' malinconico, persino tragico, ma allo stesso tempo garantire una presenza autentica. La voce è ampia, ben controllata, gli acuti sono ben proiettati, sicuri, sostenuti, sonori. Sa giocare sia sulla brillantezza che sul patetico grazie a una bella personalità scenica che Renga, a mio avviso, non sfrutta a sufficienza.

Paolo Bordogna è Cardenio. Le ben note qualità sceniche di questo cantante, in particolare nel repertorio comico, facevano sperare in una bella interpretazione in un ruolo particolarmente complesso. Alla prima nel 1833, il ruolo fu interpretato da Giorgio Ronconi, che fu anche il creatore di Nabucco, un'altra incarnazione della follia. Ciò significa che era necessaria una voce ampia, potente e sicura.
Paolo Bordogna non è apparso in forma ottimale fin dall'inizio, anche se la sua interpretazione scenica è rimasta convincente. La voce era insicura, con molti problemi di intonazione, come se non riuscisse a trovare un vero appoggio. Non si percepiva il Bordogna delle grandi serate. Infatti, nel secondo atto, un malessere lo ha costretto a uscire di scena con l'interruzione dello spettacolo, che ha voluto riprendere con un certo coraggio, nonostante la presenza prevista di un sostituto. Ha quindi terminato, con tutti gli onori e sotto gli applausi calorosi del pubblico.
Il ruolo è difficile e richiede qualità interpretative che Bordogna possiede senza dubbio : bisogna passare dal comico al tragico, dalla dolcezza alla violenza, da un secondo all'altro e praticamente senza transizione. Forse non ha proprio il profilo vocale del ruolo, più vicino al baritono verdiano. Ma nonostante la difficoltà del giorno, che fa capire quanto il canto sia un esercizio fisico che richiede una solidità corporea costante, ha assunto la parte con coraggio e ha portato a termine la rappresentazione. È anche questo che permette di misurare i grandi.
Nel complesso, e nonostante questo piccolo incidente della serata, una rappresentazione che è un felice incontro con un'opera che merita di essere meglio conosciuta per la sua musica varia, inventiva e ritmata. Se la produzione non soddisfa completamente le aspettative, non rovina comunque la festa e usciamo nella notte bergamasca ancora una volta stupiti e deliziati da ciò che Donizetti ci ha offerto.

