
Dalla storia all'opera
Dalla storia della “Regina Cornaro”, data in sposa contro la sua volontà al re di Cipro, della famiglia dei Lusignano, per garantire l'eredità dell'isola alla Repubblica di Venezia, Giacomo Sacchero ha tratto un libretto che si discosta dalla storia “reale”, pur rispettandone l'elemento essenziale : Caterina alla fine dell'avventura rimane vedova – avrà conosciuto suo marito, volubile e indifferente, solo per un anno – e incinta. Darà alla luce un erede maschio, che morirà di malaria l'anno successivo. Cipro, che rimane nelle mani di Caterina, diventerà quindi presto oggetto di varie ambizioni, ma alla fine sarà Venezia a vincere la partita. Ecco, a grandi linee, la storia.
Quando ho letto questa storia, questo libretto e i nomi “Venezia” e “Cipro”, ho immediatamente pensato, non so perché, all'Otello di Shakespeare, il cui primo atto si svolge a Venezia e il resto a Cipro, e a quello di Verdi (che si svolge a Cipro), mentre quello di Rossini si svolge solo a Venezia.
È stato il riferimento a Cipro che mi ha condotto su queste rive shakespeariane e, immergendomi nel libretto di Sacchero, ho ritrovato il marito, la moglie e l'amante, un trio fatale, ma al contrario dell'Otello, in una ricerca di verità, di umanità da cui è bandita ogni follia omicida : siamo nel negativo di Otello, un dramma non di gelosia, ma di armonia e tolleranza colpite dal destino : e se in Otello sopravvive solo Cassio (che è solo l'amante “presunto”), mentre Desdemona muore e Otello si uccide, qui è Caterina che sopravvive e gli altri che muoiono. Ci troviamo in una storia che ha dati simili a quelli dell'Otello, che potrebbe trasformarsi in un dramma per sua stessa natura, e che paradossalmente si trasforma in un dramma perché i tre eroi sono anime grandi fino alla fine e fedeli gli uni agli altri. Mi sono divertito a pensare a Caterina Cornaro come a una sorta di anti-Otello e a riflettere perché in questa storia anche il cattivo Mocenigo è identificato come cattivo fin dall'inizio e non come un falso amico alla Jago. Tutto è al contrario… L'opera a volte è divertente…
Perdonatemi questa digressione in cui la mia anima ha riflettuto oltre ogni ragionevolezza, ma le vie donizettiane sono penetrabili in molti modi, ed è questo che rende la sua produzione teatrale appassionante e multiforme.
Giacomo Sacchero ne fa quindi un dramma dai toni romantici, limitato all'inizio del regno della regina, servendosi di alcuni fatti storici (il ruolo della Repubblica di Venezia, che vi collocò Caterina Cornaro di proposito, arrivando ad adottarla e a dotarla riccamente, la rapida morte di Lusignano) per ricamare altrove
Nel prologo, a Venezia si celebra il matrimonio d'amore tra Caterina Cornaro (soprano) e Gerardo (tenore), giovane nobile francese. è festa, interrotta da Mocenigo (basso), inviato del Consiglio dei Dieci, che ordina l'interruzione del matrimonio, perché la Repubblica ha deciso di prelevare la giovane donna per mandarla a Cipro a sposare Lusignano, re di Cipro, e rappresentare così gli interessi ben compresi di Venezia in quella parte del Mediterraneo. È un ukase. O così o guai… Gerardo viene allontanato. Se Caterina non obbedisce, lui verrà assassinato. Per proteggerlo, lei si sacrifica e accetta il matrimonio cipriota.
Ci troviamo quindi a Cipro, e la Repubblica di Venezia ha deciso di sbarazzarsi di Lusignano per governare direttamente. Gerardo sbarca e viene subito aggredito dai sicari di Venezia, ma viene salvato da un nobile sconosciuto che si rivela essere… Lusignano, che passava di lì. Gerardo viene salvato dall'uomo che gli ha portato via la donna amata e che quindi dovrebbe odiare, ma i due scoprono di essere uomini di bene e si alleano a vita contro Venezia.

Lusignano, stanco per la malattia, chiede alla moglie di ricevere un nobile francese. Lei accetta e riconosce Gerardo, che non ha mai smesso di amare, e gli rivela di aver accettato il matrimonio cipriota per salvargli la vita. Arriva Mocenigo che annuncia la caduta di Lusignano, ordinando alla moglie di succedergli sotto minaccia. Ma Lusignano interviene, svela l'inganno e fa arrestare Mocenigo. È guerra aperta contro Venezia, dove Gerardo e Lusignano, che conoscono entrambi la verità l'uno sull'altro, sono alleati.
Sul campo di battaglia i ciprioti sono vittoriosi, ma Gerardo si è sacrificato e Lusignano, ferito, che lo annuncia a Caterina, muore a sua volta. Caterina è ormai sola.

La produzione
La trama di Caterina Cornaro non è né lineare né convenzionale, ma presenta tratti interessanti per gli spettatori di oggi… Francesco Micheli e il suo drammaturgo Alberto Mattioli hanno quindi deciso di trasporla nella nostra epoca. Caterina, incinta, è in ospedale a Venezia al capezzale del marito malato. Nell'attesa, inizia a sognare quell'altra Caterina, lontana nel tempo, anch'essa incinta e il cui marito muore… e le immagini si sovrappongono…
Perché fare semplice quando si può fare complicato ? È la domanda che viene subito in mente alla vista di questa produzione, la cui nota di intenti distribuita in sala prepara lo spettatore.
L'autore di queste righe non è un novellino in materia di regia e, soprattutto, ne ha viste di tutti i tipi nella sua memoria, a volte abbastanza geniali, altre abbastanza bizzarre da non stupirsi di nulla. Inoltre, Francesco Micheli è noto per (de)stravolgere i libretti, costruire parallelismi, attualizzare le trame in un modo che spesso gli riesce grazie alla sua immaginazione sfrenata e alla sua dolce follia. Non ci si aspettava certo di vedere Caterina piangere sotto le mura di Famagosta, ma nemmeno di vederla sognare in un corridoio d'ospedale in quel modo.
Così si legge nella nota di intenti del drammaturgo :
CATERINA UNA E TRINA
Esistono tre Caterina Cornaro. La prima è quella della storia, grande dama del Rinascimento, bella e colta, celebrata da Bembo e Tiziano, diventata prima regina di Cipro perché sposata dalla Serenissima con Giacomo Lusignano, sovrano dell'isola, poi, alla morte del marito, dopo l'annessione di Cipro da parte di Venezia, animatrice di una corte intellettuale e galante ad Asolo.
La seconda è quella dell'opera di Donizetti : il suo librettista, Giacomo Sacchero, trasforma la realtà storica in un romanzo storico : verosimile, ma non vero.
La terza Caterina è la nostra. Ci siamo inseriti nelle differenze tra la Caterina storica e quella dell'opera per raccontare questa eroina al pubblico di oggi, darle dei punti di riferimento, scoprire ciò che è presente in questo passato. Una donna incinta, sola, angosciata, seduta nella sala d'attesa anonima di un ospedale. Un'immagine tragica e familiare, che appartiene all'esperienza di ciascuno di noi. Si chiama Caterina, è sposata con Giacomo e ha appena perso suo padre, Andrea…
Ci si aspetta quindi, e le prime immagini lo confermano, di vedere sul palco la storia di questa donna incinta che rivivrà le avventure della lontana Caterina del passato donizettiano o veneziano…
È proprio così : la struttura scenica (scenografia di Matteo Paoletti Franzato) su una piattaforma girevole è composta da un lato da un corridoio d'ospedale con le sue sedie d'attesa e dall'altro da vaghi archi che rimandano all'architettura rinascimentale. Venezia ieri, Venezia oggi, Venezia sempre.

In realtà la questione drammaturgica che si pone è semplice : quale “Caterina” privilegiare ? Quella che aspetta in ospedale o quella che, in splendidi abiti rinascimentali, vive la storia ideata da Sacchero e Donizetti ?
Se è la prima, allora il canto deve essere destinato a lei fin dall'inizio e le scene del matrimonio del prologo devono essere trattate in modo diverso o almeno devono essere secondarie, sogni di questa donna, fantasie nebulose di una Venezia inquietante, ma in nessun caso devono avere effetto di realtà. È l'ospedale del XXI secolo che deve dominare, tutto il resto diventa accessorio o esplicativo.
Qui, invece, è stata fatta la scelta opposta.

Micheli opta infatti per la storia di Donizetti in primo piano, accompagnata incessantemente da immagini dell'altra, la donna incinta, da proiezioni di testi esplicativi, da didascalie un po' pesanti che traducono i suoi stati d'animo.

Così che ci si trova il più delle volte in un'opera tradizionale con costumi molto belli (di Alessio Rosati), concepiti per evocare una Venezia da sogno, una sorta di Rinascimento pittorico che trascende ogni realtà, movimenti scenici convenzionali, il tutto interrotto di tanto in tanto da immagini di ospedali, infermieri o medici (per la parte contemporanea) e proiezioni di dipinti rinascimentali (per la parte “storica”) che rappresentano in particolare immagini del sacrificio cristico, con luci assai belle di Alessandro Andreoli.
Il risultato ? L'impressione di un sovraccarico inutile, di una sovrapposizione a millefoglie, e una netta difficoltà a districarsi da questo intreccio. Fino al momento in cui, nel secondo atto più facile da trattare, la regia riporta in primo piano il contemporaneo (mentre nella prima parte era trattato in video o sotto forma di pantomima muta).

Il marito Giacomo, costretto a letto, inizia a cantare dal suo letto d'ospedale in camice blu da malato, Caterina, “moderna” e anch'essa incinta, inizia a cantare e, per chiudere il cerchio, passa dietro le quinte, indossa il suo abito rinascimentale e torna a essere la regina, mentre in primo piano si mescolano Rinascimento e contemporaneo, volendo dare l'idea che tutto si mescoli nella mente della donna.

Così Gerardo, il tenore innamorato, diventa il chirurgo, disperato per non riuscire a salvare Giacomo, e le armi con cui si combatte sono siringhe o bisturi.
Quando Giacomo muore alla fine, è il malato in ospedale che muore sul suo letto, trattenuto e come trasportato da Mocenigo, emerso dal Rinascimento (per poco non sarebbe “Corridoio del tempo : i visitatori del XV secolo”) che lo afferra come il Cristo della Pietà Rondanini di Michelangelo.

Non discuto la scelta del “pitch”, ma la sua realizzazione, confusa e che si è scontrata visibilmente con un libretto che non si lasciava fare. In questo tipo di approccio, la leggibilità deve essere immediata, le corrispondenze tra presente e passato fluide e la scelta drammaturgica non deve oscillare tra due o tre acque, perché il libretto a volte permette l'inserimento della storia che si vuole raccontare e a volte molto meno. Ci si dice allora che se si fosse lasciato la regina navigare nel suo Rinascimento donizettiano, con bei costumi e in un allestimento tradizionale, si sarebbe gridato al conformismo forse, alla tradizione polverosa senza dubbio, ma non all'assurdità. Quando si vede Giacomo Lusignano ergersi come un malato molto XXI secolo circondato dal personale sanitario, e in lontananza il coro rinascimentale, è difficile trattenere un sorriso, se non una risata.
Sembra che la produzione non sia stata sufficientemente approfondita e che ci si sia accontentati di una serie di soluzioni di ripiego, come le proiezioni video (di Matteo Castiglioni) e soprattutto i testi esplicativi poco interessanti (anche se graficamente ben fatti), che finiscono per disturbare o infastidire, ricordandoci che siamo nell'anima di Caterina21 (XXI secolo), mentre l'essenziale di ciò che lo spettatore vede e sente è Caterina19 che interpreta Caterina15.
Questo tipo di trasformazione richiede un grande rigore, a cui Micheli ci ha spesso abituati, e qui non è stato raggiunto, senza nemmeno un briciolo di fantasia o ironia che avrebbe potuto rendere il tutto più digeribile. Resta da sperare che affini il suo lavoro in occasione della presentazione al Teatro Real di Madrid, coproduttore.

Non è l'opzione scelta qui che mi scandalizza e che sarebbe errata, ma il modo di trattarla che costituisce un vicolo cieco drammaturgico che diventa problematico o ridicolo.
L'altra faccia della medaglia, fortunatamente, è una musica la cui potenza è evidente e che è stata particolarmente ben difesa. Questo compensa quindi quello.
Gli aspetti musicali
La sorpresa, ascoltando questa musica, è la sua ricchezza. Non ci sono pause musicali, tutto si sussegue con logica, con ritmo, con un vero senso drammatico. Ascoltandola, ho pensato al « Trovatore », che per me rappresenta l'assoluto di ciò che può essere un dramma musicale, da cui non si può togliere alcuna nota. Non è proprio il caso di Caterina Cornaro, ma l'opera possiede una sorta di totalità musicale senza pause, dove l'opera di Donizetti – almeno in questa edizione di Eleonora di Cintio – è « come lui la voleva ». I crediti dello spettacolo recitano con orgoglio « Prima rappresentazione secondo la volontà del compositore ».
Molta musica di qualità, molta forza drammatica, fin dal prologo, una presenza del coro che rafforza la potenza dell'insieme e, soprattutto, una gamma di protagonisti (basso – il cattivo -, baritono, soprano e tenore – i buoni) che formano un quartetto coerente.

La presenza dei ‘cattivi’ è praticamente permanente nella messa in scena, ombre nere spettrali nascoste dietro le pareti, figure pronte al crimine, pronte a tutto, che sorvegliano tutto, mettendo i “buoni” in libertà vigilata permanente. Sono vestiti di nero, è ovviamente la morte che si aggira e che è pronta a colpire.

L'atmosfera musicale corrisponde a questo gioco di ombre e luci, e la direzione di Riccardo Frizza, alla guida dell'eccellente orchestra Donizetti Opera, ha quel rilievo che rende questa musica assolutamente appassionante. Alterna momenti lirici particolarmente ben condotti, sostenendo i cantanti, e momenti drammatici (numerosi) senza mai perdere di vista l'equilibrio, senza mai lasciare che la musica trabocchi, ma al contrario mostrando costantemente la costruzione musicale e la qualità dell'orchestrazione. Sebbene il suo approccio non mi abbia sempre convinto, ho trovato nella sua interpretazione la volontà di rivelare un Donizetti raffinato, orchestratore di grande livello, che offre una lettura limpida e allo stesso tempo non rinuncia mai alla cura del teatro. La volontà di offrire un'interpretazione equilibrata non impedisce infatti di trovare qua e là tocchi di fantasia, una reale inventiva per restituire a questa partitura poco conosciuta un valore insospettabile, con un'impressione di profusione, di ricchezza armonica e restituendole quei colori in chiaroscuro, indiscutibilmente cupi, ma allo stesso tempo iridescenti di una luce crepuscolare che le conferisce la sua singolarità.
Gli aspetti vocali

Il coro dell'Accademia del Teatro alla Scala, molto sollecitato, si dimostra all'altezza della situazione, potente, agile, dai colori vari, ben preparato da Salvo Sgrò.
Le voci non sono da meno, in tutto il cast.
Francesco Lucii (Strozzi e un cavaliere) e Vittoria Vimercati (Matilde), con le loro voci precise e ben proiettate, sono all'altezza della situazione.

Ho invece trovato il padre (Andrea Cornaro) interpretato da Fulvio Valenti certamente presente nel prologo, ma con una voce un po' affaticata e un timbro un po' opaco.

Riccardo Fassi è Mocenigo, personificazione della morte in questa messa in scena, e quindi ombra permanente e spettrale. La voce è potente, ben posizionata. Il cantante è regolare, vocalmente mai in difetto : a volte manca un po' di personalità scenica, ma in questa produzione è molto aiutato nella sua incarnazione vagamente diabolica e si rivela eccellente.

Enea Scala è il focoso Gerardo, conosciamo bene le qualità di questo tenore che interpreta i grandi ruoli rossiniani e belcantisti con notevole slancio, energia e forza, anche se a volte è un po' troppo esuberante e ha dimenticato l'arte di addolcire, alleggerire la voce e l'arte della sfumatura. Quando si ricorda queste regole del canto che tende a dimenticare, allora il personaggio emerge, potente, commovente e particolarmente coinvolgente. Se domasse la sua tendenza a lanciare le note piuttosto che controllarle, Enea Scala sarebbe senza dubbio uno dei grandi tenori di questo tempo. È bello essere impetuosi, ma l'eroe romantico è anche riservato e cupo… Resta il fatto che la sua interpretazione non manca di rilievo e che il ruolo gli calza a pennello.

Vito Priante, nel ruolo di Lusignano, conferma di essere molto più di un baritono rossiniano, una vocalità in cui è stato spesso confinato. Dopo il suo Macbeth di grande successo a Busseto, conferma qui la sua capacità di colorare, interiorizzare, rendere la nobiltà del personaggio con un canto sempre controllato, sfumato, giocando su un timbro particolarmente vellutato. Ha quella delicatezza e quella raffinatezza e, per dirla tutta, quello stile che contraddistingue i baritoni belcantisti. A questo titolo, la versione presentata gli restituisce l'arioso finale della morte che Donizetti scrisse dopo la prima napoletana, più conforme alle abitudini (aria finale del soprano). Ne esce con vera grandezza, nonostante la ridicolaggine della messa in scena.

Infine, l'instancabile Carmela Remigio è Caterina Cornaro. E se la cava in questo ruolo temibile con un impegno marcato nella messa in scena che le richiede, come è stato sottolineato, molteplici sfaccettature. Remigio è una cantante regolare, coscienziosa, che non imbroglia e che ha diritto al rispetto. Con i suoi mezzi, che non sono quelli di una Caballé o di una Gencer, difende il personaggio, lo interpreta e, soprattutto, non mostra alcuna lacuna nel canto. Certo, la voce manca un po' di ampiezza, alcuni acuti sono un po' limitati, ma nel complesso è più che convincente, perché sempre molto musicale, mai imprudente, con un'attenzione alla linea e al fraseggio che garantiscono una performance solida, se non addirittura di riferimento. Continua a difendere un repertorio in cui ci sono ben poche voci convincenti, e lo fa con un'onestà e una dignità che meritano il nostro rispetto.
Nel complesso, una riscoperta da cui si esce abbastanza soddisfatti, perché le qualità musicali hanno ampiamente compensato le debolezze o gli errori/gli smarrimenti della visione scenica ; c'è sempre una vera sorpresa davanti a questa musica spesso considerata con distacco, e questa sorpresa fa sì che si torni a Bergamo con piacere ogni anno per viverne altre.

