
Nella Salome andata in scena al Teatro Massimo di Palermo in questo ultimo scorcio di primavera, la regia di Bruno Ravella (ripresa da Carmine De Amicis) fa leva su un sistema di semicerchi claustrofobici che individuano luoghi e tempi dell'azione scenica, ma fissano anche una serie di livelli simbolici volti a esplicitare i significati immanenti nel testo. La vicenda – o almeno l'essenziale di questa – si consuma tutta sottoterra, all'interno della cisterna dove è rinchiuso il Profeta Jochanaan. Bella l'intuizione che vuole la cisterna, abitata dalla dissoluta corte del Re di Giudea Erode, come un bunker (quale, per esempio, quello hitleriano sotto la Cancelleria di Berlino) sorvegliato da uomini armati con una divisa simile a quella dei soldati israeliani di oggi. Ravella coglie in Salome una dimensione da “tardo impero”, da regno a tal punto marcio e decadente da convincere chi lo regge di essere minacciato da nemici inesistenti che lo circondano. I soldati giudei, armati di mitra e di telecamere a infrarossi montate sul casco, si danno da fare all'inizio dell'opera a scovare presunti nemici all'esterno del bunker, dove invece è chiaro come l'insidia, il veleno mortale che ammorba la corte di Erode, non venga dall'esterno ma dal suo interno, sotto forma di lussuria e vizio. Succede così ogni volta che il potere è illegittimo. L'Erode di questo allestimento si rivela una volta di più parente stretto di altri usurpatori dalle mani macchiate di sangue : il Re di Giudea è tormentato dai fantasmi come Macbeth e come Boris Godunov ; come loro è preda di allucinazioni, in cui non capisce che la sola vera minaccia, il solo implacabile nemico, è dentro di lui.
Il principale rinvio simbolico dell'allestimento palermitano funziona dunque bene, fornendo una chiave persuasiva per decifrare la storia a partire dall'ipotesi di fondo di un impero, come canta Verlaine, “alla fine della decadenza”. Anche il contrasto tra il grigio militare della cisterna-bunker e l'albero fiorito piantato nel suo mezzo, all'interno di un'aiuola verde, allarga e approfondisce i riferimenti simbolici perché centrato su una chiara contrapposizione : guerra, odio, morte dalla parte del bunker ; vita, natura, amore dalla parte dell'albero. Dal punto di vista della densità simbolica, quindi, potrebbe bastare. Ma Bruno Ravella non rinuncia a uno strato ulteriore, dato dalla polarità che oppone il “sangue” (il potere usurpatore e violento, l'epilogo cruento, la necrofilia) all'“acqua”, che notoriamente purifica e, comunque, costituisce il principale strumento di lavoro del Battista. Ora, a parte il fatto che i simboli tendono ad appesantire il messaggio, e occorrerebbe in questo senso disporne sempre con parsimonia, il punto è che qui l'acqua non si limita a costituire il polo simbolico opposto al sangue : quando viene sollevato in alto l'albero, come a scoperchiare le nefandezze segrete della corte, dalle sue radici viene giù tanta acqua da parere una cateratta. Alla fine della scena tra Salome e Jochanaan, in cui Strauss attua con sovrana malizia uno “spostamento del significante” per cui il Battista respinge la seducente principessa ma poi si riferisce a Gesù con linee melodiche madide di eros, l'acqua piove sulle loro teste con una violenza tale da inzupparli entrambi. Se l'acqua è un simbolo, e lo è, ne basterebbero poche gocce : appunto, una quantità simbolica. Altrimenti, per essere sicuri dell'effetto, si dovrebbero spingere tutti quelli che vengono battezzati sull'orlo dell'annegamento.
In questo senso, sono tanto più da ammirare gli interpreti di Salome e del Battista, che cantano impassibili le loro parti difficilissime sotto la cascata che arriva dall'albero, con i vestiti che si appiccicano addosso e i piedi a mollo. Salome è la bella e brava Nina Bezu, capace di dare al suo personaggio un tratto di candore e di purezza giovanile che lo rende più commovente del solito. In una moltiplicazione di riferimenti temporali, le guardie hanno abiti contemporanei, Erode e Erodiade sono vestiti come viziosi aristocratici del Reich guglielmino (cioè l'epoca di Strauss), Jochanaan veste abiti senza particolari connotazioni temporali e Salome indossa un vestitino giallo alquanto rétro da debuttante alla sua prima apparizione in società.
Nina Bezu ha un timbro chiaro che riconosce a Salome la sua innocenza, e in questo coglie nel segno : Strauss ama la sua eroina e sta dalla sua parte, perché la sola cosa in cui crede ancora – morto anche per lui il dio nicciano, mallevadore supremo di tutti i valori – è proprio l'amore. Che poi qui l'amore debba essere consumato nell'insolita modalità di una parte per il tutto, alla prima di Salome guadagnò a Strauss la reazione scandalizzata della buona società della Belle Époque, per un succès de scandale che gli procurò anche il primo successo economico. Soprattutto, però, l'esaltato monologo finale dell'eroina alla testa dell'amato, che rappresenta per lei tutto il Battista, va nel senso di sottolineare la forza del sentimento di Salome, una forza talmente grande da fare emergere la verità più profonda e autenticamente sentita anche dal più spregiudicato dei compositori : « il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte ».

Tommi Hakala è un Battista convincente e preciso, anche lui più sintonizzato sul versante umano che su quello “mitologico” del suo personaggio. Ottimo anche l'Erode di Charles Workman, che restituisce alla “più grandiosa incarnazione di grottesco demoniaco”, come Franco Serpa definisce il suo personaggio, un'eleganza quanto mai persuasiva : il libretto di Wilde, con la preziosità decadentistica dei riferimenti (i pavoni, gli smeraldi, le gemme promesse a Salome), indica un gusto squisito di Erode, una sensibilità per il raro e l'eccelso, che spesso finisce in ombra dietro le sue brame lussuriose. Non stavolta : l'Erode di Charles Workman è un perfetto dandy. Apprezzabile anche l'Erodiade di Anna Maria Chiuri, resa con buona adesione al carattere vizioso ma pur sempre regale del suo personaggio. Bella prova di tutti gli altri, specialmente il Narraboth di Erwandro Stenzowski.
Gaetano d'Espinosa guida un'Orchestra del Massimo in gran forma e fa un eccellente lavoro di concertazione : i reparti dialogano nel modo migliore, i soli sono di prim'ordine e l'amalgama generale è ottimale. Si potrebbe però eccepire sul suo modo di intendere il linguaggio di Strauss. Vero è che nelle opere di Strauss, come in Wagner, l'orchestra è il fomite principale del senso dell'insieme, ma l'impostazione di d'Espinosa privilegia a tal punto la buca rispetto al palco che spesso le voci ne risultano coperte : dettagli importanti di quello che si dicono i personaggi a volte si perdono, sommersi dalla massa di suono che arriva dal basso. Anche restando alla sola parte orchestrale, poi, non risulta perfettamente calibrato il rapporto tra ductus cromatico e Leitmotive, spesso diatonici. L'emersione di un Leimotiv dalla massa cangiante del tessuto contrappuntistico, in Salome, è sempre emozionante proprio per via del suo carattere volutamente esplicito ; ma se si mette in risalto anche il più piccolo inciso melodico come se fosse portatore di un significato irrinunciabile, per giunta con la potenza straripante degli ottoni, si depotenzia il ruolo dei motivi conduttori. I Leitmotive rappresentano in Salome dei culmini formali ed espressivi, delle vette assolute di corrispondenza tra suono e significato, tra intenzione ed effetto, ma per funzionare nella maniera migliore dovrebbero emergere da uno sfondo lasciato più neutro, come momenti di particolare intensificazione espressiva ; altrimenti si corre il rischio di annacquarli all'interno di una serie indifferenziata di culmini, uno più bombastico dell'altro.
In ogni caso, grande successo dello spettacolo davanti al pubblico palermitano, che ha atteso il meraviglioso monologo finale di Salome davanti alla testa mozzata del Battista con la trepidazione che si deve a una delle più audaci invenzioni nella storia del teatro musicale : la folta sequenza di Salomè otto-novecentesche – da Klimt, a Moreau, a Beardsley, a Huysmann, a Flaubert, a Wilde – doveva approdare a quella di Strauss come una sorta di entelechia : alla Principessa della Giudea si addice la musica.
