Daniele Rustioni, direttore musicale dell'Opéra national de Lyon, ha lasciato il suo incarico con l'ultima replica de La Forza del Destino il 2 aprile scorso per diventarne il Direttore musicale emerito. La sua popolarità tra il pubblico, i forti legami che ha saputo stabilire con l'orchestra e la trasformazione che ha portato avanti, il repertorio diversificato che ha affrontato in questi otto anni ne hanno fatto una figura imprescindibile della vita musicale in Francia, ma anche internazionale, in quanto dirige regolarmente alla Bayerische Staatsoper di Monaco e dalla prossima stagione, su richiesta dell'orchestra, diventerà il primo direttore ospite al MET, cioè il secondo dopo il direttore musicale Yannick Nézet Séguin.
Tuttavia, poco incline ai riflettori e alle false estasi mediatiche, rimane poco conosciuto, pur costruendosi una carriera equilibrata tra buca d'opera e podi sinfonici, poiché dopo essere stato per diversi anni direttore musicale e artistico dell'Orchestra della Toscana (di cui è adesso direttore emerito), dal 2022 è diventato direttore musicale dell'Ulster Orchestra, a causa dei suoi stretti legami con il Regno Unito, dove ha studiato con Sir Colin Davis (alla Royal Academy of Music) e dove ha assistito Antonio Pappano alla Royal Opera House e Gianandrea Noseda alla BBC Philharmonic Orchestra. Aggiungiamo che i suoi legami con Noseda gli hanno permesso di dirigere all’inizio della sua carriera molto in Russia, dove ha potuto familiarizzare con il repertorio russo di cui oggi è uno dei migliori conoscitori.
È l'occasione per fare il punto della situazione e anche di guardare al futuro, durante una lunga conversazione a ruota libera che ha avuto luogo a Lione, poco prima della sua ultima apparizione all’opera, dove siamo entrati nel laboratorio del direttore, con le sue esigenze, ma anche con un paio di sorprese.
Ha affrontato per la prima volta La Forza del Destino di Verdi in occasione del Festival a Lione, quali sono le difficoltà specifiche di quest’opera un po’ “scapigliata “ diciamo?

Devo precisare che le difficoltà sono le stesse anche da ascoltatore. C'è un arco drammatico ben definito e teso fino alla fine del primo atto, che dura solo una ventina di minuti... dopodiché comincia una specie di schizofrenia della scrittura con l’alternarsi delle scene popolari del coro e la presenza di personaggi brillanti come Preziosilla, Melitone, Mastro Trabuco che contrastano grandemente con le scene melodrammatiche di Don Alvaro, Leonora e Don Carlo, e diventa difficile mantenere una tensione ed un’unità interpretativa dall’inizio alla fine dell’opera, soprattutto nel terzo atto. Il quarto atto ad esempio comincia con l'aria buffa (la scena e aria di Melitone), ma da un certo punto di vista è meno scioccante e più semplice da risolvere perché confluisce in una serie di scene con i tre personaggi principali che si susseguono in un crescendo con colpi di scena (il duetto baritono-tenore, l'aria del soprano “Pace, pace” e poi ancora l'ultima scena con il terzetto insieme al Padre Guardiano) sino alla tragica conclusione con la morte dei figli del marchese di Calatrava, la disperazione di Don Alvaro e l’ascesa dell’anima di Leonora in cielo.
Invece nel terzo atto trovo molto difficile costruire un arco teso e coerente mantenendo la stessa concentrazione, non solo del pubblico, ma anche dell'orchestra con tutti questi questi cambi repentini di colore. In quest’opera non si tratta di cercare di nobilitare lo zum papà popolare, ma collocarlo all'interno di un affresco storico che è cosa diversa del dare un colore alle scene anche più popolari di altre opere di Verdi che non trattano questi temi forti. Ecco perché la trovo un'opera molto difficile da approcciare dal punto di vista della coerenza interpretativa.
E le voci?
È difficile sostenere le parti “monstre” di soprano e tenore e, devo dire, anche del baritono. Forse il brano più difficile è il duetto tenore-baritono del terzo atto (che viene sciaguratamente tagliato a volte!) perché ha cambi di tempi e d’umore molto serrati, delle fiammate d’ira o d’impeto da parte di entrambi i personaggi. Nella scrittura verdiana, in quel caso, non c’è un accompagnamento tipicamente operistico con il tremolo affidato agli archi in buca. Di solito quando c'è un tremolo si può anche avere una maggiore libertà sulla linea vocale; invece qui ci sono una serie di sedicesimi misurati sempre sotto questi “tacca tacca tacca” implacabili e, da direttore d'orchestra, vado sempre ad analizzare e sottolineare in concertazione il minimo comun denominatore ritmico, che è molto importante essendo l’asse portante per l’insieme e il motore pulsante in tutti questi passaggi. Laddove si decide un tempo, non si può più scappare o bordeggiare, perché c'è quel minimo comun denominatore che comanda su tutto (anche sulla voce) e, a volte, anche sulla forma e passo scenico.
Io trovo che Verdi abbia impostato molti dei numeri musicali su questi “ostinati ritmici” che sono molto difficili da calibrare perché un conto sono quelli delle sue opere giovanili, e un altro invece sono gli ostinati che si ritrovano in un Verdi più maturo, dopo la trilogia popolare, dove magari la voce e l'interpretazione possono richiedere più spazio o se preferiamo, più libertà di espressione sulla parola scenica. È sempre delicato bilanciare queste due forze, l’ostinato ritmico in buca e una libertà espressiva in palcoscenico e quindi penso che La Forza del destino sia sicuramente una delle opere più difficili di Verdi che io abbia mai affrontato, sia nel trovare una chiave interpretativa che nella ricerca e gestione di questi equilibri.
La oserei definire più complicata da risolvere anche rispetto ad opere che vengono più avanti, quando ci si trova davanti a dei capolavori assoluti, dove la musica e l’espressione sgorgano con una naturalezza miracolosa. Trovo ad esempio che Simon Boccanegra nella versione finale sia una delle vette massime della sua arte, tutto è scritto in maniera così perfetta che da questo punto di vista posso considerare La Forza del destino ancora come “sperimentale”. Non vorrei essere frainteso, La Forza è uno dei capolavori Verdiani, con delle pagine di musica immortali (la sinfonia, “la vergine degli angeli”, “Pace,pace…”, “Urna fatale”, etc). Mi chiedo solo quanto Verdi abbia cercato un effetto immediato e “dimostrativo” nelle scene popolari de La forza, componendola per un pubblico che non conosceva, in questo caso per il Teatro imperiale di San Pietroburgo, dove l’opera è stata eseguita per la prima volta (nella prima versione). Così era stato sicuramente per I masnadieri, la sua prima opera commissionata fuori dall’Italia, scritta per il pubblico londinese, dove aveva inserito volutamente tutti gli effetti speciali possibili a livello ritmico, dinamico e vocale per mostrare e gridare a tutti chi era anche all’estero, in quella che è sicuramente la partitura più “rock ‘n roll” del primo Verdi. Diverso invece il discorso delle opere scritte per la più raffinata piazza parigina.
La Forza del destino sarebbe forse un’opera di transizione?
Le parti più drammatiche che seguono le vicende dei personaggi principali sono molto compiute. Trovo altre pagine più di transizione, con delle belle sorprese. Il blocco iniziale del secondo atto guarda avanti a Falstaff con alcune caratteristiche brillanti e scelte timbriche orchestrate ad arte, ma allo stesso tempo Verdi riesce a strizzare l’occhio a Rossini nel Rataplan nel terzo atto dove il coro e la Preziosilla cantano praticamente a cappella e la pagina è di una freschezza e di una classicità unica… un vero miracolo! Riesce a guardare avanti, ma con un linguaggio rossiniano. È un po' un controsenso, ma è il miracolo della scrittura verdiana. Questo finale del terzo atto nella sua semplicità è incredibile: ha l’effetto di un fuoco d'artificio, anche per la gioia del pubblico. Un fantastico coup de théâtre …
Al tempo stesso ci sono quei tre minuti ad esempio della Ronda (NdR: compagni sostiamo), con il coro di uomini con una scrittura più statica e delle armonie di una semplicità quasi imbarazzante. A mio avviso sono tre minuti molto belli dove Verdi fa della semplicità un'arte. Ma è una di quelle semplicità che è ancora più difficile da rendere. Quando il direttore d'orchestra si trova ad affrontare una pagina del genere, deve trovare il colore giusto e convincere tutti ad andare nella stessa direzione. Basta pochissimo perché una musica cosi semplice e quadrata possa rovinare la tensione costruita fino a quel momento se resa in maniera banale e superficiale. Una pagina del genere in Wagner e Strauss o Puccini addirittura non si trova. Non succede mai tra l’altro neanche in Traviata o Rigoletto ad esempio. Altri momenti, invece in Forza del destino ci sono. Anche nella prima parte di Ballo in maschera si trovano queste pagine (l’inizio prima di “siam soli udite”). È come una foresta di cristalli: basta poco, e si rompe tutto. La caratteristica è quella di sentirsi completamente scoperti in una musica che qui viene dal Rossini serio. Ecco la vera scuola, quando ci si trova davanti al Rossini serio, ad esempio, e la musica deve suonare estremamente nobile, non può mai essere una tiritera senza una profondità.
Lì non c'è chiarezza gestuale direttoriale che tenga, bisogna riuscire a spiegare all'orchestra e al coro anche a voce come “patinare” il suono: lo staccato non è veramente mai staccato secco e corto, perché deve amalgamarsi con la voce e il colore nobile verdiano, l’atmosfera notturna in scena, ma al tempo stesso deve viene fuori preciso, articolato.
Questa forse è la cosa più difficile da comunicare anche nei più grandi teatri fuori dall’Italia: le articolazioni, le dinamiche il colore di una scena o di un passaggio devono essere realizzate invitando a sentire il coro o il cantanti e naturalmente seguendo il significato della scena, dei pensieri, sentimenti e parole dei personaggi. E lì si apre un mondo. Si apre un mondo in queste pagine così scoperte, dove troviamo delle indicazioni delle dinamiche e delle articolazioni, con cui in realtà si può giocare perché tutto è interpretabile, tutto è relativo ed è questa la meraviglia dell’interpretazione del segno scritto. È il miracolo dell’opera, che si compie attraverso la sapienza, maturità e sensibilità di Giuseppe Verdi.

Nella Sua esplorazione del repertorio verdiano, cosa Le ha portato a poter dirigere La Forza del destino?
Ho affrontato La Forza del destino con un certo piglio e consapevolezza all’interno del catalogo di produzione Verdiana perché avevo già diretto Un ballo in maschera, Don Carlos e Simon Boccanegra. La Forza mi aveva sempre fatto paura in tutti i primi anni della mia carriera, sono felice di aver aspettato 17 anni di attività direttoriale prima di debuttarla. Sicuramente aver diretto anche tante opere del primo Verdi mi ha aiutato a approfondire l’interpretazione sulla voce e dare una patina diversa agli accompagnamenti, soprattutto a quelli del baritono (c'è sempre una profondità, una nobiltà diversa nell’accompagnare il baritono verdiano). Anche l’accompagnamento più semplice si eleva a delle vette incredibili in Verdi perché si deve fondere perfettamente con la linea del canto. In generale la scrittura per la buca è da nobilitare e levigare nei suoni dell’orchestra onde evitare effetti caricaturali, bandistici, volgari brutture o rischiare di fermarsi solo alla superficie di questa apparente semplicità della scrittura. Questa è la lezione di un Riccardo Muti che ha sempre insistito su un aspetto nobile verdiano anche nello zum papà più esplicito: si deve sempre cercare la nobiltà anche nell'atteggiamento di come deve essere suonato in orchestra. È veramente difficile creare l’atmosfera giusta, non dico sacrale perché la musica di Verdi è anche popolare e viene direttamente dalla nuda terra, quindi non bisogna cercare la sacralità sempre a tutti costi (a meno che non sia richiesta esplicitamente in scena!). Ma è vero che sarebbe bello avere un atteggiamento con Verdi come se fosse Mozart. Ecco, se riuscissimo tutti a suonare Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti come se fosse Mozart, allora avremmo delle esecuzioni che renderanno sicuramente più giustizia al Cigno di Busseto e all’opera italiana in generale.
Poi c’è il discorso del sostegno alle voci di soprano, tenore e baritono nell’arco di un’opera molto pesante, e l’esperienza che ho fatto dirigendo più volte Il trovatore mi è stata molto utile perché la scrittura vocale dei quattro protagonisti è veramente impegnativa e richiede tanta sensibilità, attenzione e cura da parte del direttore d’orchestra per accompagnare a dovere i cantanti in fondo alla recita facendo in modo che rendano il massimo.
Oggi Lei lascia Lione. Può trarre un bilancio dai suoi anni all’Opera di Lione?
Ci siamo tolti delle belle soddisfazioni e abbiamo ottenuto importanti riconoscimenti internazionali. L’orchestra e coro dell’Opera National de Lyon dal 2019 sono ‘in residence’ al Festival International d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence, grazie ai meriti ottenuti sul campo e ai risultati musicali di livello internazionale (ricordo che Aix ha sempre avuto in cartellone anche la London Symphony o la Philharmonia come orchestre ospiti del Festival). Dal 2017 abbiamo eseguito ogni stagione un’opera in forma di concerto al Théâtre des Champs-Élysées a Parigi, siamo stati in tournée in Oman e in Italia, l’Opera de Lyon è stata premiata nel 2017 come miglior teatro d’Opera al mondo agli ‘International Opera Awards di Londra’ e agli ‘Oper! Awards’ della critica tedesca, alcune nuove produzioni sono state premiate come miglior spettacolo al mondo della stagione secondo la critica tedesca: nel 2019 la Чародейка/Charodeyka (L’incantatrice) di Tchaikovsky (regia di Andriy Zholdak) e nel 2024 La dama di Picche (regia di Timofeï Kouliabine), entrambe dirette da me. Ho ricevuto la nomina a “Chevalier des Arts et des Lettres” da parte del Ministro della Cultura francese proprio per il lavoro svolto in questi anni all’Opera di Lione nel 2025.
Dopodiché è stato fatto un lavoro importante in termini di repertorio. Parlo di 11 anni di collaborazione artistica perché la mia relazione con Lione è cominciata con un nuovo Simon Boccanegra nel 2014, ed è anche bello chiudere simbolicamente questo percorso con questa produzione de La Forza del destino. In mezzo ci sono stati tanti titoli Verdiani con l’orchestra lionese. Del primo Verdi abbiamo eseguito, anche in forma di concerto, Nabucco, Ernani, Attila, I due Foscari e Macbeth. Poi abbiamo affrontato Rigoletto, infine siamo approdati ad alcuni dei capolavori della piena maturità: Falstaff, la Messa da Requiem e Don Carlos. Oltre al Don Carlos eseguito in francese, è stato interessante anche aver dato un focus al repertorio italo-francese con Guillaume Tell, Moïse et Pharaon, la Lucie de Lammermoor (versione francese).
Sicuramente siamo riusciti a dare un’impronta significativa per quanto riguarda il repertorio italiano con delle novità assolute per la città di Lione, come Mefistofele, Andrea Chénier, Adriana Lecouvreur, per non parlare poi del lavoro fatto su Puccini perché voglio ricordare che qui a Lione non era quasi mai stato eseguito negli ultimi 40 anni. Sono molto felice di aver riportato Tosca, Madama Butterfly, e soprattutto di aver diretto per la prima volta La Fanciulla del West nella capitale dei Galli.

E oltre il repertorio italiano o italo-francese?
La soddisfazione più grande per me è stata sicuramente la produzione de Die Frau ohne Schatten, che metto al primo posto personale e del mio indice di gradimento. Dal punto di vista del lavoro musicale, ma anche della sfida visto che era un’orchestrazione ridotta per causa degli spazi nella buca dell’Opera di Lione.

Dopo Die Frau ohne Schatten, indubbiamente La dama di picche e Il Gallo d'Oro sono stati altri due momenti cruciali dal punto di vista della nostra crescita artistica. È stato molto interessante anche poter collaborare con alcuni registi con personalità anche molto forti. Voglio ricordare L’Incantatrice, in particolare con Andriy Zholdak, che è stata un’operazione culturale molto forte perché si è trattato anche di una prima francese: quell’opera di Ciaikovskij non era mai stata eseguita in Francia. Poi il Falstaff e Il gallo d’oro, entrambe con la regia di Barry Kosky, mentre la regia de Die Frau ohne Schatten è stata firmata da Mariusz Trelinski. Poi ci sono stati anche esperimenti, come Eine Nacht in Venedig, quindi operetta in forma scenica. E poi tutti i concerti sinfonici naturalmente, con un focus particolare su Mahler, Richard Strauss, Debussy e Ravel.
È stato fatto un grande lavoro sul repertorio nonostante i numeri della stagione lionese non siano quelli di un grande teatro che fa repertorio alla tedesca, né di Londra o Parigi dove fanno 18-20 titoli all’anno. A Lione facciamo da 10 a 12 titoli solamente. Ciononostante ogni stagione ho passato sei mesi a Lione perché oltre ai tre programmi sinfonici e tre o quattro titoli operistici c'è sempre stato il lavoro anche di audizioni o di concorsi in orchestra. L’orchestra è completamente cambiata: in questi 11 anni sono andati in pensione tutti quelli che sono entrati in organico dal 1983 al 1986 con il primo concorso. È arrivato in questi ultimi anni tutto il ricambio generazionale: qui non c'è neanche un professore di quelli che hanno cominciato negli anni 80 e il ricambio in questi dieci anni l'ho fatto io come presidente di commissione. Anche questa è stata un'esperienza importante.
La funzione di direttore musicale fa anche crescere dal punto di vista umano, su come rapportarsi all’interno del teatro. La posizione di direttore stabile musicale va interpretata in un certo modo. Non si tratta di solo dirigere, e poi tornare a casa. Al contrario è molto affascinante entrare nel cuore di un’istituzione, nel cuore del teatro, che è il centro culturale di una città, e questo il pubblico lo sente profondamente. Siamo stati molto attenti a dosare i programmi sinfonici, i titoli d'opera più popolari rispetto invece a titoli meno battuti.
E grazie a Serge Dorny, durante il periodo della pandemia non ci siamo mai fermati, abbiamo trovato sempre altri spazi per suonare. Ho lavorato tantissimo con gli archi, con sezioni dell'orchestra separate e si è fatto un salto di qualità al mio avviso notevole proprio grazie al covid! Abbiamo registrato anche per la radio pezzi difficilissimi, tipo Der Tod und das Mädchen (la morte e la fanciulla) di Schubert nella versione di Mahler per orchestra d'archi con i contrabassi. Mi ricordo una registrazione di Pulcinella di Stravinsky, con musicisti distanziati e dunque ancora più difficile, nonché la sinfonia for Wind Instruments di Stravinskij con i fiati, brani di Strauss e di Dvořák solo per fiati. Insomma c’è stato un lavoro a sezione che non avremmo potuto fare se ci fosse stata una situazione normale. Anche l’attività operistica non si è mai fermata: abbiamo registrato la versione del Werther per baritono in quel periodo lavorando anche sul repertorio francese. Siamo stati ad un passo dall’eseguire una ripresa de Le Rossignol di Stravinsky dopo un mese di prove. Ricordo anche Beatrice et Benedict, dove la nuova produzione con Damiano Micheletto è stata eseguita in teatro per pochi eletti, ma almeno è stata realizzata in scena. Manon ed Herodiade, eseguite in forma di concerto anche al Théâtre des Champs-Élysées, è stato un altro grande traguardo a mio avviso, un repertorio che ho imparato a conoscere ed amare proprio a Lione. Insomma, ho debuttato tanti titoli e ringrazio l'orchestra e il coro di Lione che da un certo punto di vista mi hanno anche fatto capire questo repertorio. Ho anche rischiato molto: la mia prima opera da direttore principale designato è stata La Juive… Un bel rischio…Non è che avessi diretto opera francese prima, quindi è stata una prova del fuoco.
Percorrendo tutti questi anni, alla fine fra opera in forma scenica e in forma di concerto avrò diretto 33 titoli. Con tanto sinfonico, con il ricambio dell'orchestra, con quest’esperienza pluriennale, ne esco sicuramente diverso.
Diverso perché? Può approfondire?
Ne esco diverso perché c’è una consapevolezza dei propri mezzi e anche dei propri limiti. Non credo nella tuttologia, è impossibile fare tutto il repertorio e portare tutto allo stesso livello, ho avuto tante possibilità di toccare tanta musica diversa. Sono felicissimo di aver affrontato anche il mio primo Wagner con Tannhäuser e anche Berg con Wozzeck. Ma laddove nel Wozzeck è stato possibile trovare delle soluzioni in questa buca così particolare per le dimensioni di questo teatro relativamente piccolo, perché stretto con forma rettangolare ed è stato più facile trovare delle soluzioni con tutti gli altri autori, Wagner richiede tanti musicisti in buca per creare il suo suono. Abbiamo osato e sono felice del risultato ottenuto in Tannhäuser, però è venuta a mancare proprio la pasta del suono degli archi rispetto ai fiati. Purtroppo per Wagner ci vuole una buca grande, non ci sono scorciatoie possibili da intraprendere o visioni cameristiche particolari: Wagner si fa con il numero degli archi richiesto e basta (ride).
Detto questo, abbiamo avuto anche un’altra esperienza, quella del secondo atto del Tristan und Isolde in forma di concerto, col numero giusto degli archi richiesti dalla partitura sul palcoscenico, e ce ne saranno anche altre in futuro… penso al primo atto de Die Walküre e al secondo di Parsifal. Infatti adesso si apre un altro piccolo capitolo di storia come direttore musicale emerito del teatro e ci sarà l’occasione di fare queste altre esperienze wagneriane in forma di concerto… sul palcoscenico, lo prometto, rispetteremo sempre le esigenze di organico wagneriano! (ride di nuovo).
Sicuramente esco forgiato dal lavoro pluriennale con l'orchestra, più consapevole di quello che voglio io in termini di suono, in termini di tensione drammatica sia nel sinfonico che nell’operistico, più consapevole di quello che posso richiedere all'orchestra, per quanto riguarda la reattività, le dinamiche e soprattutto l’adattarsi alle voci perché una grande orchestra d’opera dopo tutto si vede al momento dell'esecuzione dal vivo. Qualsiasi cosa succeda in recita, cambia addirittura l’intonazione in casi estremi per venire incontro alla linea del canto, ma l’importante è che a seconda dell’espressione del cantante l’orchestra debba suonare in maniera diversa. Quindi aprire questo canale di comunicazione, aprirsi a questa sensibilità, aprire le orecchie insomma… poi è questo in parole povere il fare musica insieme. È difficile! È meno complicato fare musica assoluta insieme nel sinfonico… in buca non è una cosa che viene naturale perché sei nascosto, e il rapporto con il suono sul palcoscenico è completamente diverso. Quindi è un'arte che si costruisce nel tempo e ancora di più da questi otto anni esco consapevole del fatto che proprio è un altro mestiere rispetto al repertorio sinfonico.
E dopo questi anni, ha un rimpianto?
Tutti gli artisti devono sapersi guardare dentro ed essere ipercritici perché man mano che si va avanti nell’attività musicale si deve diventare sempre più maestri di se stessi. Per essere maestro di se stesso, bisogna essere in grado di sdoppiarsi e avere un paio di orecchie e di occhi che possono giudicare da fuori. La critica più feroce e vera è quella che ci dobbiamo rivolgere da soli. Possibilmente costruttiva, di evoluzione e crescita . Questo per dire che ho avuto la possibilità di debuttare moltissimi titoli a Lione, col senno di poi alcune partiture le avrei affrontate con più consapevolezza e in maniera diversa. Dall'altra parte, mi rendo conto che debuttando molti pezzi ho dato il massimo all'epoca e ho avuto soprattutto la fortuna di farlo in un teatro “mio”, con condizioni particolari. Infatti a Lione ho sempre avuto a disposizione sei letture d’orchestra, due italiane, cinque o sei prove d’assieme, l’ante-generale e la generale con un cast solo. E quattro settimane di prova piene per montare lo spettacolo con i cantanti e la regia. Un lusso. In questo senso mi sono sentito abbastanza coraggioso e corazzato per poter debuttare anche dei titoli importanti. Ma da lì a aver digerito completamente tutto questo repertorio è una altra cosa. Molti dei brani che ho debuttato dovranno essere rivisitati in futuro. La direzione prevede una digestione e una consapevolezza del materiale musicale, un'analisi armonica del fraseggio e del pensiero del compositore e anche ovviamente la semantica del libretto. È tutto il pacchetto che richiede tempo per essere completamente metabolizzato. Penso di essere molto dedito a quello che faccio e sinceramente penso di essere uno dei pochi interessati a fare il lavoro di direttore musicale di un teatro e di voler investire del tempo in un teatro d’opera, che è una cosa che vedo che è sempre più fuori moda fra i direttori “famosi”. Senza fare polemica, è la realtà fattuale. Il vero direttore musicale inoltre deve sviluppare qualità umane e di riuscire a capire, a leggere ed investire nelle persone che collaborano in teatro. Sento di essere maturato e cresciuto perché dopo otto anni sono riuscito a trovare il modo di comunicare nella maniera più efficace per ottenere risultati a livello artistico con l'ufficio di produzione, la sovrintendenza, il casting manager, i cantanti (persino qualche agente di cantanti), i registi. È anche un lavoro di mediazione per fare il più bel gioco di squadra possibile. Anche questo è una realtà che il direttore d'orchestra deve trovarsi ad affrontare oggi per difendere le ragioni della musica e fare il bene del teatro.
E forse una cosa più concreta di cui mi rammarico è di non aver lanciato veramente nessun cantante francese giovane negli otto anni in cui sono stato al timone musicale della secondo scena lirica di Francia. Ho collaborato con quasi tutti i più grandi e già affermati cantanti francesi a Lyon, ma non abbiamo avuto abbastanza coraggio di osare con i giovani francesi affidandogli ruoli importanti. Forse l’unica è stata il mezzosoprano Eve-Maud Hubeaux che ha cantato il ruolo di Eboli nel Don Carlos del 2018, ancora giovane. Sento di avere un debito nei confronti della Francia in questo senso.
Adesso l’aspettano nuove esperienze. Come gli anni passati a Lione possono aiutare ad affrontare un’orchestra più grossa in un’istituzione di dimensioni enormi come quella del MET? Ma anche della Bayerische Staatsoper dove dirige spesso?
Sicuramente il bagaglio di esperienze che stavo costruendo a Lione ha già dato i suoi frutti, perché al MET è proprio l’orchestra che mi ha voluto, con la benedizione di tutto il teatro. Inoltre l’apertura al repertorio tedesco e francese mi consentiranno di dirigere sempre di più repertorio non italiano, soprattutto a Munich dove la prossima stagione sarò impegnato a dirigere solo repertorio tedesco (Ariadne aus Naxos e Der Freischütz).
Lione e New York sono situazioni completamente diverse, e da un certo punto di vista è più facile gestire un’orchestra più grande rispetto a un’orchestra più piccola. Un’orchestra grande è ancora più accentratrice per quanto riguarda un leader, la spalla dei violini e altri solisti in posizioni chiave dell’orchestra, e risponde in maniera meno umorale alla figura che c’è sul podio. Le prime parti dell’orchestra pendono più responsabilità sulle spalle.
In entrambe le prestigiose istituzioni (MET e Bayerische Staatsoper) intendo continuare il lavoro di ricerca sul suono e sulla sensibilità della buca in relazione alle voci in palcoscenico. Utilizzando la scuola e il metodo “alla vecchia maniera”. Il lavoro e la preparazione sulla parola era la normalità, il pane quotidiano fino agli anni 80-90, cioè il direttore d'orchestra al pianoforte che suona tutta opera accennando con il canto tutte le parole del libretto e dello sparito, sapendole interpretare. Ma pian piano tutto questo sta sparendo. A volte mi rendo conto che non sto facendo niente di speciale, però è visto da orchestre anche blasonate come qualcosa di speciale, perché il “mestiere” non lo fa quasi più nessuno. Quanti direttori oggi fanno una vera prova musicale al pianoforte con i cantanti e vanno oltre il mettersi d’accordo sull’insieme e l’organizzazione di corone e ritardandi? Si occupano solo della ‘Latitudine e longitudine’ della musica, coordinano e basta. Chi forgia veramente una interpretazione personale e riesce a bilanciare le voci del cast? Chi è guidato da una vera urgenza interpretativa personale basata sullo studio profondo del segno scritto? Durante le letture d'orchestra senza cantanti il direttore deve poter cantare tutte le parti vocali e e anticipare i respiri, le dinamiche non scritte sulle parole per i professori d’orchestra, come vuole la migliore tradizione direttoriale italiana. Per esempio se un cantante scende giù e va in registro medio grave è ovvio che l’orchestra deve suonare di meno per un fatto semplicemente acustico di legge fisiche. Gli accenti e le dinamiche sulla parola, il senso e il colore di una scena. Questo è “l’abc” del mestiere, ma l’abc sta diventando come far andare un razzo su Marte.
Come mai ?
Perché si sta perdendo tutto del “mestiere” del passato, e la musica spesso sembra non essere la cosa più importante nei teatri d’opera oggi, ad eccezione di qualche isola felice. Ho 41 anni, forse non mi posso mettere a fare già il bacchettone, di solito sono i grandi maestri di 80 anni a dire: “ormai siamo all'inizio della fine e si sta perdendo tutto”. Però è vero che i cantanti si lamentano che quasi nessuno dice più niente di interessante alle prove musicali al pianoforte. È vero che la maggior parte dei direttori d’orchestra chiamati a dirigere opera non si immedesima più con i cantanti, perché ci vuole tempo per prepararsi e perché bisogna aver fatto “la gavetta”: mettersi al pianoforte, aver respirato la vita in teatro, essere stati in palcoscenico, conoscere le necessità dei cantanti, conoscere le loro insicurezze, scegliere il tempo da staccare pensando se un cantante possa arrivare in fondo a una frase tutto d'un fiato, organizzare dei piani B di fiati ed eventualmente rivedere il fraseggio. Cominciare con lo studio del libretto e provare a recitare il testo per avere un tempo naturale sulla parola nei recitativi ad esempio.
Cose che sono sempre state la base della preparazione di un direttore d'opera, perché un direttore d'opera veniva dal pianoforte, aveva fatto da assistente di altri direttori d’opera, aveva fatto il répétiteur accompagnando tanti cantanti, aveva lavorato in teatro, aveva diretto le bande dietro il palcoscenico, e imparato anche a rispettare tutti quelli che lavorano dietro le quinte. Essere consapevole della macchina del teatro quando si prende il microfono per interrompere una prova. Nella prova d’assieme, ad esempio, non si può pretendere di riprendere da un punto dopo pochi secondi quando poi c'è tutto un palcoscenico che si deve risistemare, magari in mezzo ad un cambio scena (!). Queste sono cose ovvie che però regolarmente oggi sembrano dimenticate. Oggi si invitano a dirigere direttori d’opera senza questa preparazione fondamentale. Grandi nomi e anche bravissimi direttori che dirigono principalmente repertorio sinfonico si trovano ad affrontare questi problemi complessi nell’opera che richiedono tanta dedizione e che non si possono imparare da un giorno all'altro. Ci vuole tempo per capire come funziona la macchina complessa del teatro, anche per i geni della bacchetta… e oggi a molti direttori artistici, sovrintendenti e casting manager di teatri anche importanti va benissimo avere direttori d’orchestra magari bravissimi ma che ignorano tutto questo bagaglio e non conoscono il repertorio, perché romperanno meno le scatole sulla scelta dei cantanti, entreranno meno in merito alle scelte del regista.
Io ringrazio mia madre perché la mia prima grande esperienza musicale è stata il coro di voci bianche del Teatro alla Scala. Avevo 10 anni. Ho passato molto più tempo a guardare e godere della macchina del teatro rispetto ai pochi minuti che cantavamo. Mi ricordo il Mefistofele con Muti dove i bambini cantano nel prologo e nell'epilogo. In mezzo ci sono due ore e mezzo di opera! Allora si vedevano lavorare i tecnici in palcoscenico, gli elettricisti, i costumisti, i maestri collaboratori che facevano il loro lavoro per creare la magia del teatro, dà l’idea della sacralità di questo lavoro…il tutto del più alto livello possibile – è la Scala dopo tutto! Ho visto l’amore e la passione che tutti mettevano in uno spettacolo. E ho imparato la disciplina, il rispetto e la passione necessari per stare in teatro. Addirittura ricordo che quando facevamo i monelli, ci portavano a vedere le lezioni dei nostri coetanei alla scuola di ballo della Scala… una disciplina ferrea già a quell’età avevano i giovani ballerini scaligeri! Quindi sì, certo, ho 41 anni, però un po’ mi pesa. Mi spiace vedere la faciloneria. Il modo con cui si affronta l'opera oggi sempre di più.
Per quanto un direttore possa essere bravo, estroverso, talentuoso e capace di trasmettere la musica, senza quel bagaglio di esperienza non può capire il lavoro dell’opera. È quell’esperienza che permette di essere veramente il fulcro di tutto quello che succede. Non si può ovviamente controllare tutto ma si deve avere la consapevolezza. Nella buca, seminascosto, il direttore d’opera deve sapere tutto quello che succede anche dietro il palcoscenico. Questa è anche la responsabilità di chi gestisce i teatri: se non si è in grado di vedere, capire o apprezzare la differenza fra chi sa e chi non sa, ci si deve assumere la responsabilità anche dei risultati.
Qual’è il ruolo del repertorio sinfonico? Si chiama spesso il direttore italiano per l’opera, salvo grandi eccezioni. Come si colloca rispetto al sinfonico? Lei è tutt’ora direttore dell’Ulster Orchestra dopo esser stato direttore dell’Orchestra della Toscana. Come il sinfonico nutrisce il lirico e vice versa?
Questo è un problema storico, intendo di storia della musica, riguarda i direttori, ma anche i compositori italiani e le istituzioni musicali italiane. In Italia oggi abbiamo solo due orchestre sinfoniche nazionali, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Rai di Torino. Per il resto, ci sono le orchestre delle Fondazioni liriche e quindi è vero che siamo giudicati in maniera storica come operisti, ma è anche vero che abbiamo saputo coltivare come italiani una grande tradizione direttoriale anche nel repertorio sinfonico.
Su quello c'è anche un paradosso perché malgrado il numero ridotto delle orchestre sinfoniche nazionali in Italia c'è una scuola di direzione italiana che oggi va per la maggiore.
Sì, in termini anche quantitativi, gli italiani sono tantissimi, e giustamente. Questo è dovuto al fatto che l’opera italiana è la più amata dal pubblico, ed anche quella che vende di più biglietti. Ci sono una ventina di titoli operistici, lo zoccolo duro del repertorio italiano che sono dei best-seller, il pane quotidiano del repertorio nei teatri in giro per il mondo che vengono regolarmente messi in cartellone, e gli italiani hanno chiaramente una marcia in più, possono accompagnare meglio i cantanti, fosse anche solo perché sanno quando far scendere il braccio e la bacchetta sulla parola. Ci sarà sempre bisogno di qualcuno per dirigere l’opera italiana. Ma anche perché i direttori italiani sono molto preparati e proprio grazie all’attività operistica imparano molto bene la tecnica direttoriale e a risolvere problemi gestuali come i cambi di tempo, seguire la linea del cantante, gestire le corone, etc. Seguendo il percorso normale che tutti i grandi direttori hanno intrapreso nel ‘900: tanta opera all’inizio della carriera per poi spostarsi sempre più sull’attività sinfonica.
Nonostante l’opera sia stata inventata e sia fiorita in Italia, non dobbiamo dimenticare che sono tre i paesi che hanno fatto la storia della musica occidentale a livello puramente strumentale: la Germania (e includo anche Vienna), la Russia e l’Italia. E quindi anche dal punto di vista direttoriale da Toscanini, poi De Sabata, Serafin, Giulini fino ad Abbado e Muti c'è stato sempre una grande tradizione italiana anche sul sinfonico e sul repertorio operistico anche tedesco, russo e francese perché c'è sempre stata una sorta di egemonia culturale sulla conoscenza della musica da parte degli artisti di questi tre paesi.
Ora, mettiamo da parte la Russia visto la situazione politica odierna che la sta isolando anche dal punto di vista culturale, è mai possibile che da vent’anni a questa parte ci sia una crisi d’identità direttoriale dopo Thielemann in Germania e dopo dopo Chailly e Gatti in Italia, circa il mantenimento della grande tradizione direttoriale di questi due Paesi? Mi spiego: i direttori italiani fanno più fatica ad emergere con le grandi orchestre sinfoniche internazionali e vengono chiamati sempre meno a dirigere opere di repertorio non italiano.
Alla mia età, combatto anche dirigendo alcune delle migliori formazioni sinfoniche, naturalmente portando la mia identità di italiano e anche la mia esperienza operistica nell’affrontare il repertorio sinfonico. Voglio dire che è possibile in assoluto mettere una tensione “lirica” dentro il repertorio sinfonico, immaginarsi dei movimenti delle sinfonie, come se fossero delle scene d'opera, o sentire delle parole sopra una linea melodica di musica assoluta. La grande differenza è che nella buca il direttore d'opera è costretto a gestire molto spesso, a controllare, a volte stando anche “fuori dalla musica” con la testa. Mentre nel sinfonico il direttore non può mai stare fuori dalla musica. E c’è un grande contraddizione in questo perché a livello gestuale nel sinfonico si può ridurre molto di più. Quindi essere dentro la musica nel sinfonico non significa smanacciare o dirigere più grande, può significare dirigere di meno e portare di più a sé l’attenzione dei musicisti, invece in buca è necessario portare fuori il gesto per essere chiaro, per far vedere a tutti in palcoscenico dove siamo.
Cercare di navigare all'interno di questo equilibrio non è semplice. E ammetto di essermi sentito più a mio agio nel repertorio operistico all’inizio della carriera, perché ci sono nato e cresciuto. Ma questo non l’ho mai vissuto male, nel senso che è anche un motivo d'orgoglio portare con me la tradizione musicale del mio Paese. È il mercato che tende ad “inscatolare” e a catalogare gli artisti. Opera italiana agli italiani, opera tedesca ai tedeschi, etc etc. Seguendo questa logica gli artisti inglesi, giapponesi, americani o coreani non dovrebbero toccare la maggior parte del repertorio sinfonico e operistico…
Devo dire che oggi si parla tanto di direttori finlandesi, delle possibilità che i direttori finlandesi hanno nel sinfonico fin da giovanissimi con le orchestre scandinave, ma devo dire che non ci possiamo lamentare in Italia delle possibilità che le fondazioni liriche danno alle giovani promesse italiane, nell’opera. Io nei primi anni di carriera ho diretto in tutti i più importanti teatri italiani, soprattuto a Torino e a Venezia, e poi mi sono affacciato all’estero con un’esperienza, un bagaglio dato anche dal lato pratico di aver diretto in questi teatri italiani. Voglio dire che esiste ancora oggi una tradizione, una scuola che va avanti anche da parte delle orchestre delle Fondazioni liriche italiane per i direttori italiani nell’opera. Ma nel sinfonico dobbiamo riuscire a essere più competitivi nel momento in cui l'Italia da un certo punto di vista ha rinunciato a sostenere le sue orchestre sinfoniche. Negli anni 90 tagliare quattro orchestre della Rai non ha sicuramente aiutato anche la direzione d'orchestra italiana e poi gli effetti si vedono 10, 15, 20 anni dopo. Tutti i grandi direttori italiani all'inizio della carriera facevano concerti ogni stagione nelle orchestre della Rai e ogni anno mettevano pezzi nuovi in repertorio; si trovano su YouTube video meravigliosi di Claudio Abbado che dirige le orchestre della RAI di Roma o di Milano, giovanissimo. Oggi ci sono meno possibilità e non è automatico che all'estero chiamino a dirigere giovani direttori italiani sconosciuti per dirigere concerti sinfonici. In Scandinavia c’è un sistema ben diverso e in Inghilterra, nonostante tutte le difficoltà, le orchestra della BBC ci sono ancora, fanno tantissima musica inglese, ci sono tante possibilità per i direttori inglesi di dirigere. E certo i 10 anni all'Orchestra della Toscana sono stati fondamentali per me, purtroppo non è stata quell’incarico a lanciarmi a livello internazionale nel sinfonico, forse proprio per la posizione che l’Italia ricopre culturalmente rispetto al repertorio orchestrale.
Conosco molti direttori italiani bravissimi che ad un certo punto si sono “arresi”: felici di avere il calendario pieno di titoli operistici italiani nei teatri in giro per il mondo, hanno smesso di combattere per avere possibilità di dirigere concerti sinfonici, e di conseguenza hanno smesso di frequentare le partiture dei grandi compositori sinfonici. I direttori italiani bravi hanno il dovere di dire qualche no in più a degli ingaggi operistici per avere il tempo di perseguire la strada del sinfonico il più possibile, nonostante le difficoltà oggettive del mercato oggi. Lo dobbiamo alla nostra grande tradizione musicale italiana.
Poi c’è un altro aspetto da considerare sui giovani direttori, che una volta di più segnala il maestro Muti: è più facile trovare oggi un direttore d'orchestra giovane con più sinfonie di Mahler o di Šostakóvič nel suo repertorio rispetto che Haydn, Beethoven e Mozart. Ha ragione perché Šostakóvič e Mahler fanno più effetto, e tutto e già scritto per l’orchestra, c’è un lavoro di concertazione più oggettivo, che si può risolvere anche con meno ricerca personale e scavo artistico (ovviamente sarebbe richiesto anche per questo repertorio!). Credo che un direttore fino ai 45 anni debba insistere molto di più sul repertorio classico per poi affrontare i grandi di fine 800 inizio 900. È difficile trovare un giovane direttore che faccia bene una sinfonia di Mozart, molto più difficile da concertare e rendere. Potrei fare lo stesso esempio in ambito operistico fra un’opera di Richard Strauss e Bellini.
Ma Lei non ha diretto molto Mozart all’opera
Ho diretto una volta Don Giovanni e Così fan tutte, due volte Nozze di Figaro. Quindi la “trilogia da Ponte” l’ho affrontata, e al MET la prima opera che farò come direttore ospite principale (NdR: “Principal Guest Conductor”) sarà Don Giovanni.
Naturalmente Mozart - Da Ponte è un Mozart particolare che si può risolvere anche da italiano in maniera diversa. Celebre fu l’esecuzione di Così fan tutte che Muti diresse a Salisburgo e un giornalista gli chiese: “Ma lei come fa a dirigere Così fan tutte dopo l’esecuzione di Karl Böhm qui?” e lui disse: “semplice: io dirigo Così fan tutte lui ha diretto Così fan tutten (risata)” perché comunque è vero che il tempo sulla parola, il senso sulla parola e l’unione con la musica nella trilogia Mozart-Da Ponte è qualcosa di miracoloso… e gli italiani possono dare un’interpretazione più profonda da questo punto di vista rispetto ad austriaci e tedeschi. Mozart è sicuramente un autore principe e il fulcro sia nel sinfonico che nell’opera. Mozart è un po' un punto chiave per qualsiasi direttore serio. Mozart permette al direttore di trovare il suo centro, il suo equilibrio fra l’operista e il sinfonico. Ed è vero, non si fa abbastanza. Comunque i direttori, anche quelli giovani dovrebbero farlo più spesso, nonostante sia molto delicato ed esposto. Quindi capisco perché sia difficile affidare Mozart a un giovane in un contesto prestigioso.
Poi devo fare una nota polemica: non si capisce perché oggi in Europa Mozart dev'essere affidato solo ai barocchisti? I direttori che non sono specializzati nel barocco non sono in grado di fraseggiarlo o di trovare i colori giusti? Non è vero, anzi…
Forse è anche questo il motivo per cui ho diretto relativamente poco Mozart nei miei 17 anni di carriera.
D’altronde oggi si affida Mozart molto più spesso a cantanti giovani che a cantanti più sperimentati. E questo lo considero un problema.
Assolutamente vero! Ma anche i cantanti sono colpevoli a programmare. Ad un certo momento il cantante o l’agente decide che deve assolutamente allargare la voce e andare verso un repertorio più pesante e si abbandona Mozart. Mentre farebbe così tanto bene alla voce continuare a cantarlo.
Cecilia Bartoli dice sempre che è un balsamo per la voce
È un balsamo anche per le orecchie e per la consapevolezza perché ci mette a nudo comunque… Sull’intonazione, sulla purezza del suono, sul legato, la scelta del vibrato ... Quando arriva il successo, probabilmente continuare a fare tanta fatica su Mozart può diventare un problema!
Lasciare Lione è un momento di svolta della Sua carriera: arrivano altre prospettive in grandissimi teatri, molto al MET, un po’ anche alla Bayerische Staatsoper, ma abbastanza poco in Italia.
È vero e questo mi dispiace, perché ovviamente all’Italia devo moltissimo e so come in Italia si faccia e si senta l’opera in maniera completamente diversa, soprattutto il nostro repertorio.
Ma rispetto all’estero c'è un problema di programmazione. Non ho alcuna intenzione di rinunciare all'attività direttoriale in Italia, ma purtroppo anche nelle istituzioni più importanti italiane si programma con solo un anno-un anno e mezzo di anticipo. È troppo tardi rispetto ad altri teatri, tipo il MET o Il Teatro Real di Madrid che programmano con 4-5 anni di anticipo. Questo negli ultimi anni di attività mi ha penalizzato con alcuni teatri e orchestre italiane. Io ho ricevuto tanti inviti molto importanti, e mi sono anche mangiato le mani di non essere tornato, essendo cresciuto in tante istituzioni prestigiose Italiane, e poi c'è anche un aspetto poetico: tornare e di poter restituire al mio Paese quello che ho ricevuto. Quindi sono molto felice di tornare alla Scala nella stagione 2025/26 dopo tanti anni, e sono anche contento di dirigere un concerto sinfonico con l’Orchestra del Maggio. Nella stagione in corso sono appena tornato a Santa Cecilia e all’orchestra della RAI di Torino. Queste sono le quattro istituzioni anche simbolicamente più importanti del mio Paese, quindi non mi posso lamentare ultimamente.
È anche vero che una presenza più costante sarebbe bella. Sono molto legato al mio Paese, ho sempre detto che nel percorso fatto al Conservatorio “G.Verdi” di Milano - quindici anni di studio - non mi è mai mancato nulla, anzi. Siamo veramente seri a livello accademico in Italia, non dobbiamo invidiare nessuno nella sostanza della preparazione, ma forse non ci sappiamo vendere tanto bene.
Dal punto di vista della carriera, è vero che mi trovo ad un punto di svolta: sono cambiate per me le condizioni non dedicando più sei mesi a Lione ogni stagione. Mio impegno di 3 anni che comincia al MET dal 25-26 significa sostanzialmente tre titoli nell'arco di un periodo di due mesi, più un concerto con l’orchestra a del MET alla Carnegie Hall, e ho la possibilità di dirigere una o due altre produzioni operistiche altrove.
Dopodiché non mi pongo degli obiettivi a tutti i costi, non ho dei chiodi fissi a livello carrieristico. È molto ingenuo pensare “Vorrei diventare direttore dei Berliner Philharmoniker, dell’Orchestra del Concertgebouw, del Teatro alla Scala o del Metropolitan Opera…” Sono discorsi anche un po’ stupidi e naïve perché in realtà le cose funzionano solo quando c’è la chimica giusta con i professori d’orchestra. L'obiettivo è quello di fare la musica al più alto livello possibile, e se non scatta la scintilla artistica con l’orchestra e l’istituzione musicale in generale, se non si verificano le condizioni giuste, il sogno può diventare un incubo solo perché si è voluto a tutti i costi avere una posizione in un’istituzione di prestigio. E poi il direttore d’orchestra oggigiorno deve sapere fare squadra col management. Se la squadra non è affiatata, o se non ci sono le condizioni politiche o culturali ideali, è inutile incaponirsi e volere una posizione a tutti i costi. Si deve creare un rapporto di stima e di amore musicale con l'istituzione, dall'Orchestra a tutto quello ruota attorno all'istituzione. Quella per me è fare la “carriera” giusta, indipendentemente dal nome dell’orchestra o del teatro. Certo, l’obiettivo principe rimane quello di fare musica al più alto livello possibile, e questa deve rimanere la stella polare del viaggio.
E dunque non vuol dire avere a tutti i costi una posizione il prima possibile in istituzioni prestigiose?
Prendiamo il Concertgebouw e Klaus Mäkelä, fenomenale direttore finlandese, mi sento di dire che con un’orchestra di quel peso e di quel prestigio, probabilmente per quello che sono io, mi sarei dedicato anima e corpo solo ad un’orchestra. È una grandissima opportunità anche di crescita per lui. Ma se riesce a far felice anche tutte le altre orchestre che dirige, chi sono io per giudicare il fatto che ha accettato anche la direzione a Chicago. Se una genuina chimica musicale è scattata anche a Chicago, ben venga. Si tratta si scelte personali. Siamo tutti diversi e interpretiamo la musica e l’attività musicale in maniera diversa.
La cosa che mi renderebbe artisticamente più felice sarebbe avere sia un teatro d'opera che una grande orchestra sinfonica, ed è un desiderio non contraddice ciò che ho appena detto perché sono due posizioni molto diverse… possono coesistere. Non è detto ad esempio che un direttore d'orchestra sinfonica debba per forza vivere nella città in cui è direttore, invece sono convinto che il direttore musicale di un grande teatro debba necessariamente vivere in quella città. Perché deve essere inserito proprio nel contesto culturale specifico e vivere il teatro d'opera anche nella sua funzione sociale.
Rimane un sogno nel cassetto adesso?
Sì. Molti! Ci sono delle orchestre sinfoniche bellissime che sto dirigendo come ospite in queste stagioni e con cui si sta instaurando un rapporto di fiducia reciproca con cui mi piacerebbe intraprendere un percorso musicale stabile in futuro. L'ho già fatto con altre orchestre, l’Orchestra della Toscana e l’altra in Irlanda la Ulster Orchestra e credo sia giunto il momento di aprire un altro capitolo artistico della mia vita. Cercando il più possibile di crescere come persona, più vado avanti più mi rendo conto che salire su quei 30 cm del podio significa trasmettere un vissuto più che muovere le braccia. Pensi che ho debuttato il giorno del mio venticinquesimo compleanno la Messa da Requiem di Verdi, e giustamente un paio di maestri hanno commentato: “Ma se nella vita non si è morto nemmeno il gatto domestico, come fai a dirigere il Requiem di Verdi?”. Crescita umana equivale a crescita artistica e per comunicare con le anime dei musicisti in orchestra bisogna avere un profondo mondo interiore da condividere. La scelta del repertorio a volte è legata anche a questo aspetto. Il Tristan, Parsifal, la Nona sinfonia di Mahler, le ultime due sinfonie di Bruckner, sono sogni nel cassetto e dei colossi da affrontare e gustare al momento giusto. È un percorso affascinante che accompagna in continua evoluzione il direttore fino alla tomba.
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