
Un concerto che non segna il tutto esaurito
A quanto pare, gli amanti della musica torinesi non si rendono conto dell'enorme privilegio di avere Kirill Petrenko alla guida di una delle migliori orchestre italiane per due serate di concerti di incredibile livello…
Pensiamo che questo privilegio costa 30 € per i posti più costosi (con un supplemento di 1 € per la prevendita online). Anche per i francesi che vivono al confine nella regione Auvergne-Rhône Alpes, vale la pena fare il viaggio e, del resto, uno sguardo al programma ci mostra una stagione in cui, oltre ad Andrès Oroczo-Estrada, attuale direttore musicale e quello di Kirill Petrenko, troviamo tra i direttori ospiti Fabio Luisi (due programmi), Ottavio Dantone (due programmi), Michele Mariotti, Diego Ceretta, ovvero i direttori più in vista o più promettenti dell'Italia di oggi, ma anche Daniel Kawka, ben noto per il suo lavoro sulla musica contemporanea, o Hannu Lintu, che ha diretto Pelléas et Mélisande a Monaco di Baviera durante il Festival d’opera 2024.
Eppure… Se Kirill Petrenko in concerto a prezzi che vanno dai 15 ai 30 euro provocherebbe altrove una sorta di corsa all'acquisto folle, la sala non era piena per le due serate a Torino (lo era invece a Bologna, dove l'orchestra ha fatto un piccolo viaggio per un terzo concerto). Senza dubbio il programma, che prevedeva Janáček e Bartók e una sinfonia di Beethoven meno frequente, non ha attirato il pubblico, e senza dubbio è anche il risultato disperante di un lento deterioramento della situazione musicale in Italia da anni, continuamente denunciato da Riccardo Muti.
Il male viene da lontano e l'eccellenza degli artisti e del mondo musicale italiani non è in discussione : l'Italia vanta oggi una pleiade di direttori d'orchestra che qualsiasi altro paese, Germania compresa, invidierebbe.
Il lento degrado del panorama, evidente anche nel campo dello spettacolo, è iniziato quando, nel 1994, si è deciso di razionalizzare e risparmiare alla RAI, dove le quattro orchestre RAI (RAI di Roma, RAI di Torino, RAI di Milano, Orchestra da Camera Scarlatti di Napoli) sono state fuse in un'unica orchestra, quella della RAI di Torino. Ora, queste orchestre godevano di una certa reputazione (si pensi alle registrazioni operistiche con l'orchestra della RAI di Roma), alimentavano la penisola e sono state sacrificate. Certo, ci sono orchestre regionali qua e là (la Filarmonica Toscanini in Emilia-Romagna, l'Orchestra della Toscana, per esempio), ma l'armatura nazionale costituita dalle orchestre della RAI è stata brutalmente distrutta. Ed è sempre più facile distruggere che ricostruire sulle rovine.
Risultato : l'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI a Torino e l'Orchestra Nazionale dell'Accademia di Santa Cecilia a Roma sono ormai le uniche due orchestre “nazionali” in Italia, dove la musica sinfonica cede sempre il passo a quella lirica. Ma anche per quanto riguarda i teatri lirici, la programmazione si è ridotta a rare produzioni annuali (ad eccezione delle grandi istituzioni) e spesso limitata ai soliti grandi classici.
Tuttavia, in un panorama piuttosto devastato, Torino non è la meno dotata, con un teatro lirico di buon livello, il Teatro Regio, i concerti della RAI e i concerti del Lingotto, dotato di un bel auditorium (Renzo Piano) che ospita per una piccola stagione solisti e ensemble musicali internazionali, ma forse Torino non ha più l'anima melomane…
Fortunati quindi gli spettatori dell'auditorium Toscanini della RAI di Torino, una bella sala dal sapore anni Cinquanta (1952) ristrutturata nel 2005–2006, con un ottimo rapporto palcoscenico-sala, che il 15 e 16 ottobre hanno assistito a un evento musicale semplicemente… straordinario.
Il concerto
Il 15 ottobre è un giorno di gioia, in cui si nota un pubblico piuttosto eterogeneo, composto da giovani e meno giovani, amici venuti da lontano, alcuni ex “abbadiani” e persino una gloria mondiale dell'opera, Anja Kampe, reduce dal trionfo della Brünnhilde a Berlino, che torna a Torino dove ha studiato… Si percepisce un pubblico di habitué, felice di ritrovarsi attorno a un direttore ammirato.
Il programma, come abbiamo sottolineato sopra, è composto da tre brani molto diversi tra loro, Le danze Lachiane di Janáček, Il mandarino meraviglioso di Bartók e la Seconda sinfonia di Beethoven, e se si vuole trovare un filo conduttore piuttosto sottile, è almeno per i primi due, che costituiscono la prima parte, la Danza. Petrenko ama i ritmi di danza ed è un interprete eccezionale di Johann Strauss, di cui tutti ricordano la Fledermaus alla Bayerische Staatsoper di Monaco, uno dei vertici interpretativi di quest'opera, paragonabile solo a Carlos Kleiber.
In questa prima parte del concerto, Kirill Petrenko è nel suo elemento, il post-romanticismo, che esplora metodicamente attraverso brani noti e altri meno noti. C'è anche un altro filo conduttore in questa prima parte, un po' più nascosto… Le due opere, una delle quali risale al 1889–1890 (Janáček) e l'altra al 1918 (Bartók) sono state oggetto di una revisione quasi contemporanea, la prima nel 1927 e la seconda nel 1928, quando Bartók scrisse, sulla base del balletto originale che aveva fatto scandalo, una suite sinfonica creata il 15 ottobre 1928, che è quella proposta questa sera.
Si tratta quindi anche di una presentazione di questi primi trent'anni del XX secolo che hanno determinato in larga misura il futuro della musica.
Janáček : Le danze Lachiane
Janáček, anche nel suo periodo creativo più prolifico, è sempre rimasto legato alle radici popolari della musica ceca, compositore meno “classico” di Smetana o di Dvořák, la cui fama internazionale è immensa, e che nel 1878 scrisse le otto danze slave di successo planetario. Certo, dietro le danze Lachiane (una regione della Moravia settentrionale da cui Janáček è originario) c'è l'ombra di Dvořák, ma Janáček lavora molto più come etnografo. È noto che era interessato all'etnografia della Moravia, ben oltre la musica, e che ha al suo attivo diverse pubblicazioni non musicali. Quindi, inizialmente, non era alla ricerca di qualcosa di “spettacolare”, ma piuttosto di riprodurre un colore ruvido, più autentico e meno levigato, che si avvicinasse al colore originale di queste danze.
Infatti, sono state scritte in un momento in cui Janáček stava passando a uno stile più originale, più “in movimento”, e probabilmente è in questo senso che va inteso l'approccio di Kirill Petrenko.
Inoltre, queste sei danze non erano state originariamente concepite per essere ascoltate insieme, erano separate e solo il 2 dicembre 1924 furono create a Brno. Anche se Janáček vi torna sopra nel 1927, poco prima della sua morte (1928), non appiana nulla e mantiene all'insieme quell'aspetto rustico che è anche una chiave del suo grande periodo creativo. La musica popolare, con le sue rotture, le sue audacie, quelle che alcuni definiscono anche le sue goffaggini, è alla base dell'inventiva e dell'originalità di Janáček e in questo è ovviamente paragonabile a Bartók : metterli insieme in un programma significa mostrare un movimento comune verso le radici idiomatiche della loro musica e come la musica popolare diventi in qualche modo una musica elaborata, offrendo anche, con la sua rudezza e originalità, nuove vie per la creazione.
Ecco perché Petrenko accoppia le due opere nella serata, ma anche nei concerti che presenterà in Asia con i Berliner, in una linea cronologica più coerente, dato che la seconda parte del concerto nella Tournée sarà Petrushka di Stravinskij .
Si tratta quindi chiaramente di un discorso “unitario”: Petrenko non lascia nulla al caso ed è proprio questa esplosione di novità musicali in tutto l'Impero austro-ungarico ormai al tramonto che vuole sottolineare durante i primi anni del XX secolo.
Kirill Petrenko, come abbiamo sottolineato, ha una particolare affinità con i ritmi di danza, ama sia sottolinearli, sia le loro variazioni, le rotture, i ritorni, e offre di queste sei danze un'interpretazione vorticosa, seguita con incredibile impegno e persino una gioia visibile da parte dell'orchestra assolutamente splendida. C'è una tale osmosi tra il direttore e i musicisti che si ha l'impressione di un insieme, un vero modo di fare musica insieme e non di dare un semplice concerto.
È questa impressione che domina, con la volontà di trasmettere la musica in tutta la sua brillantezza e brutalità, con le sue variazioni di colore, bucoliche, liriche, ma anche più selvagge, da cui emergono una dinamica e un'energia assolutamente sbalorditive, persino folli. Qui tutto è esposto, le asperità, gli scontri, i momenti di calma lirica (la seconda danza, La Bénite) e i vortici (la sesta, la più famosa pilky – danza della sega dei contadini che devono segare la legna per l'inverno), senza mai rinunciare alla densità sonora, senza mai rinunciare al rischio, all'imprevisto. È una sorta di quintessenza, di stilizzazione della musica popolare che viene offerta qui, con le consuete qualità del direttore, prima fra tutte una chiarezza di resa strabiliante perché ogni minimo dettaglio è udibile, ogni minima inflessione strumentale valorizzata, con in particolare i fiati impeccabili che confermano la qualità di questa orchestra poco conosciuta al di fuori dei confini italiani e che fa scuola a molte formazioni internazionali.
Tutto questo pulsa, con il cuore e con la testa : si suona in modo totalmente coinvolgente, mai distaccato. Petrenko qui è a suo agio, e i musicisti gli fanno sentire la loro adesione totale. Quanto al pubblico, è già trasportato da questa musica che quasi nessuno nella sala conosceva prima.
Béla Bartók : Il Mandarino meraviglioso
È un buon punto di partenza per il secondo brano, più noto e di rara complessità, Il Mandarino meraviglioso, non il balletto del 1918, ma la suite orchestrale creata nel 1928.
Conosciamo la storia di questo balletto che all'epoca fece scandalo : una storia di malavita a Shanghai . Ecco come la riassume Bartók :
In una misera stanza di periferia, tre teppisti costringono una ragazza ad attirare per strada degli uomini che intendono derubare. Un cavaliere squallido e un giovane timido, che si lasciano sedurre, vengono buttati fuori come poveri diavoli. Il terzo ospite è l'inquietante Mandarino. La ragazza cerca di farlo uscire dalla sua spaventosa rigidità ballando, ma quando lui la abbraccia con ansia, lei fugge tremando. Dopo un inseguimento sfrenato, lui la raggiunge, ma i teppisti escono dal loro nascondiglio, lo spogliano e cercano di soffocarlo con dei cuscini. Ma lui si rialza e guarda la ragazza con nostalgia. Allora lo trafiggono con la spada : lui vacilla, ma il suo desiderio è più forte delle sue ferite : si getta sulla ragazza. Lo impiccano, ma lui non riesce a morire. Solo quando il suo corpo viene calato e la ragazza lo prende tra le braccia, le sue ferite iniziano a sanguinare e lui muore.
È l'eterna storia di Ἔρως (Eros) e Θάνατος (Thanatos), ma un Eros che urta la coscienza borghese di quegli anni.
La prima del balletto a Colonia (il 27 novembre 1926) fu infatti un enorme scandalo che portò il sindaco di Colonia (Konrad Adenauer…) a vietarne la rappresentazione e l'opera fu proibita anche in Ungheria. Per questo motivo Béla Bartók scrisse una suite per orchestra (1928) affinché la sua musica potesse essere ascoltata, ma senza l'agonia finale del Mandarino sotto forma di trasfigurazione e soprattutto senza che il pubblico dovesse provare “orrore” erotico.
Petrenko ha diretto altre opere piuttosto evocative di questa atmosfera, ad esempio la messa in scena di Die Soldaten di Zimmermann che ha diretto a Monaco di Baviera nella regia di Andreas Kriegenburg, dove la scenografia (di Harald B. Thor) era dominata dal trittico “La guerra” di Otto Dix.
Perché questo richiamo ? Perché è l'espressionismo, un espressionismo alla Otto Dix che attraversa l'opera, il cui tema ricorda in qualche modo il terzo atto di Lulu di Berg, tratto da Frank Wedekind. Un mondo losco, la povertà, la prostituzione, i sobborghi di una grande città.
L'opera è di una ricchezza timbrica fuori dal comune, una sinfonia di colori servita da un organico strumentale enorme e diversificato, in particolare per quanto riguarda le molteplici percussioni.
Petrenko affronta l'opera creando un vortice di timbri che lascia senza fiato, con sequenze formidabili, rotture, stridori, dissonanze, lasciando continuamente affiorare il taglio senza che la tensione scompaia mai. Se dovessimo paragonare questo affresco a un universo pittorico, a parte Otto Dix, sarebbe un universo tragico alla Tintoretto, tratti, oscurità, raggi di luce e lampi in un cielo cupo e un caleidoscopio di colori che non ti lascia mai in pace, tutto pulsazioni, tutto agitazione, tutto brutalità. Una musica di fine dei tempi (scritta nel 1918…), senza alcuna concessione… La performance dell'orchestra (i suoi fiati!! il clarinetto solista!!) è spettacolare, segue la mano del direttore, versatile, che rileva ogni dettaglio perché in questo vortice sonoro tutto rimane leggibile, chiaro fino al minimo dettaglio, è completamente coinvolta in questa follia sonora che ci lascia sbalorditi. Un'interpretazione sensazionale.
L.v.Beethoven : Sinfonia n. 2
Dopo questa prima parte totalmente estenuante e in gran parte inaspettata, pensavamo che con Beethoven saremmo tornati su un terreno conosciuto, in qualche modo più sereno. Ma Petrenko è un visionario, nel senso che non prende mai un brano per quello che è, ma per ciò che preannuncia, per ciò che dice tra le righe, manipolando la partitura fino all'impossibile.
Sceglie un Beethoven “tradizionale”, da grande orchestra sinfonica e non da formazione ridotta di ispirazione barocca, come aveva fatto un tempo (e con quale sorprendente verità!) Abbado nei suoi famosi concerti di Roma con i Berliner. Il suono è quindi corposo, piuttosto grandioso, in particolare durante il primo movimento, ma senza mai allentare quella che è una delle caratteristiche di Petrenko, la tensione.
Beethoven sta infatti attraversando un periodo contrastante di successi musicali (in particolare tutta la sua produzione pianistica e concertistica) e di problemi personali sentimentali e fisici (avverte i primi effetti della sordità); così la sinfonia n. 2 è un modo per trascendere la sua situazione umana (scriverà di essere stato sull'orlo del suicidio) attraverso una scrittura di cui Petrenko si impegnerà a darci alcune chiavi di lettura.
Si dice spesso che la seconda sinfonia sia per alcuni l'ultima traccia di Haydn e del Settecento musicale, prima della serie delle “grandi sinfonie” che inizia con l'Eroica (La terza). Lo si nota, ad esempio, nel larghetto del secondo movimento, che suona quasi come un addio al Settecento. Non è un caso che Petrenko abbia scelto di inserirla nel programma dell’Europakonzert (1° maggio 2026) al Palazzo Esterhazy di Eisenstadt, il lugo haydniano per eccellenza.
Il primo movimento, che inizia con grande solennità, fa capire subito che il Beethoven che ascolteremo suona “classico”, come ci si aspetta da Beethoven, ma immediatamente oltre la solennità si instaura un equilibrio, come gli echi dei fiati e degli archi, l'immediata percezione di ogni strumento, i bassi molto presenti, con un tempo rallentato ma teso che sfocia poi nell'allegro con brio in una sequenza di rara fluidità, con echi quasi mozartiani (nel ritmo, si crede di sentire l'ouverture delle nozze), e tuttavia con contrasti reali ma senza mai nulla di eccessivo. I volumi, come sempre con Petrenko, sono controllati, e si passa da un motivo all'altro, da un colore all'altro, senza che la tensione sottostante scompaia mai ; c'è una sorta di manifesto e di affermazione con tratti di incredibile vivacità, pur rimanendo in un quadro incredibilmente controllato.
Conosciamo la precisione dei gesti di Petrenko e dei suoi sguardi, e l'orchestra lo segue senza alcuna sbavatura, con un suono di una chiarezza brillante e particolarmente sontuoso, dove tutto è dialogo in un'incredibile armonia di equilibrio ma allo stesso tempo, e non è contraddittorio, tutto variazioni, ritmi, colori, interventi che si rispondono e fanno vedere tutta un'architettura e una costruzione.
Si sente ovviamente Mozart, ma si sente anche Cherubini, che Beethoven ammirava tanto nella volontà di mantenere tutti gli equilibri con un pizzico di drammaticità : mai una gioia troppo esplosiva.
Il larghetto respira in modo completamente diverso, con una rara dolcezza ma non senza una delicata malinconia. Qui si delinea un paesaggio, uno spazio che ha qualcosa di un dolce addio, con un sorprendente gioco dialogico degli strumenti (ancora una volta, i fiati, il clarinetto, l'oboe e le risposte dei violini). L'orchestra è sorprendentemente dolce, mai pesante, sempre leggera, e sempre con quell'incredibile chiarezza e quella sensazione aerea con tocchi di suono come tocchi di colore (gli ottoni) o gli interventi finali del flauto : c'è qui un'autentica delicatezza evocativa, ma con il direttore che tiene sempre l'insieme della costruzione con mano ferma, con un gesto sempre preciso e leggibile che i musicisti seguono con una sorta di fede…
Lo scherzo è innanzitutto un piccolo miracolo di fluidità e padronanza dei volumi, quasi danzante, con un incredibile senso dei ritmi qui essenziali e una vera e propria scansione. Ma Petrenko non rinuncia mai alla tensione, sempre presente sotto l'apparente leggerezza, forse una sorta di apice in cui gli equilibri sembrano miracolosi. Da sottolineare anche la performance degli strumentisti, che non suonano mai forte, ma padroneggiano il suono per conferirgli allo stesso tempo leggerezza e consistenza. Miracoloso.
Il finale è sorprendente perché non è mai artificioso, mai retorico : in questa interpretazione non c'è nulla di una pesantezza magniloquente che potrebbe offuscare l'impressione generale di un flusso, di una dinamica, di una forza che va, di una gioia reale ma mai esplosiva o incontrollata. Sono solo crescendo, piccole variazioni di volume, echi tra i registri che si ascoltano a vicenda e offrono una lettura di limpida chiarezza, in cui ogni strumento si sente al proprio posto, in una sorta di gioia creativa. Si ha l'impressione di riscoprire un Beethoven completamente aperto, che si cimenta con ritmi e modulazioni infinite e che ci appare incredibilmente naturale, mai manierato, mai esagerato, ma nemmeno mai arido, nella grandiosa semplicità di un meraviglioso incontro tra un direttore e un'orchestra che ci comunicano la loro gioia.
Un concerto memorabile.

