
La produzione
Con i suoi 300 spettatori, il Teatro Verdi di Busseto è un ambiente intimo, ma per il regista Manuel Renga non lo era ancora abbastanza : il palcoscenico era troppo lontano, i personaggi non abbastanza vicini. Lo scenografo Aurelio Colombo ha quindi costruito nella sala un dispositivo supplementare che racchiudeva la fossa, con una passerella che avvicinava i protagonisti agli spettatori, riducendo al contempo la capienza del teatro a poco più di 200 persone, dato che la Platea (i posti dell'orchestra) era ridotta a 4 file… Entrando, ci si trova a uno o due metri da un personaggio nero che si suppone essere una strega, mentre sullo sfondo rosso risplende la parola “Vaticinio” .
Manuel Renga è un regista di nuova generazione da seguire innanzitutto perché lavora sia in teatro che in opera, si è formato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi e ha lavorato anche come assistente di personalità come Graham Vick. È la sua terza realizzazione al Teatro Verdi di Busseto dopo Rigoletto (2022) e Falstaff (2023) e ha scelto una strada che naviga tra la focalizzazione sugli individui e un universo estetizzante e simbolico : lo spettacolo alterna così momenti coreografici (coreografie di Paola Lattanzi) non sempre utili o efficaci a nostro avviso e altri più drammatici in cui i personaggi sono in primo piano.
Molto efficaci invece le luci di Emanuele Agliati, di una freddezza notevole, brutali, violente, che illustrano ovviamente l'universo shakespeariano.
Manuel Renga ha giustamente sottolineato l'importanza di Shakespeare nell'opera di Verdi e la preoccupazione del compositore di attenersi al testo, poiché ne fa il fulcro essenziale dell'opera, pur essendo particolarmente attento al testo, alla sua musicalità e alla sua adeguatezza alla situazione drammatica in tutte le sue opere : in questo senso, anche con mezzi diversi (Verdi non scrive i suoi libretti), ha preoccupazioni che lo avvicinano a Wagner.

Così, Manuel Renga gioca sia sui personaggi, sia sull'atmosfera e sul rapporto con la natura, in particolare con l'uso delle foglie di quercia sulle streghe, ricordando che esse vi scrivono le loro previsioni come le Sibille, per poi disperderle (non si può non pensare anche alle querce di Dodona in Grecia che, tremando, emettevano gli oracoli di Zeus…). Le catastrofi umane sono sempre accompagnate da sconvolgimenti della natura in Shakespeare, e tali sconvolgimenti sono presenti anche in tutto il genere lirico almeno fino a Rossini, attraverso l'uso “smodato” della tempesta come momento obbligatorio, ricordando anche che la parola “tempesta” è un titolo shakespeariano o che l'Otello di Verdi, molto più tardo, si apre con una tempesta… Inoltre, in Macbeth, la foresta di Birnam che avanza è anche una sorta di manifestazione “soprannaturale” o percepita come tale, che Renga traduce con una successione di immagini simboliche nate dal folklore, costumi o maschere apotropaiche che affondano nelle rappresentazioni contadine più profonde e mostrano relazioni inquietanti tra l'uomo e la natura, accentuate violentemente dai tre colori nero, bianco e rosso che dominano la scena, così come dai giochi di luci e ombre o dall'isolamento di alcuni spazi che inchiodano i personaggi nella loro solitudine.

Tutto questo ha senso, ma pecca un po' di accumulo, se non addirittura di dispersione. In uno spazio così ridotto come quello di Busseto, forse è necessario leggere “l'essenziale” e qui l'essenziale sembra disperdersi tra molti elementi diversi, di per sé eleganti e ricercati, ma non sempre convincenti. Invece di avere una sorta di immersione totale del teatro nell'anima dello spettatore, favorita dallo spazio ridotto, invece di sentirsi in contatto diretto con il dramma, che la passerella dovrebbe favorire, tutto ciò allontana paradossalmente il nostro sguardo, e il dispositivo centrale che allontana la cornice del palcoscenico accentua questa distanza che diventa distanziamento.
Così, è il gioco dei cantanti che sembra un po' sacrificato, a favore di “movimenti”, di “mimi” che accentuano l'effetto di distanziamento, proprio come il trucco esagerato, gli occhi cerchiati di nero, ecc… che ci rimandano a un mondo brechtiano e diminuiscono l'effetto emotivo, che tuttavia il regista sembra aver ricercato.

Così, tra immagini simboliche della natura, nate dal paganesimo, immagini proiettate del futuro e inevitabili immagini di guerra (Macbeth si apre e si chiude con la guerra), ci troviamo di fronte a uno spettacolo particolarmente elaborato e paradossalmente troppo carico per una tragedia così nuda, tanto che ci viene da pensare alla produzione di Kosky a Zurigo e Vienna, incentrata sulla coppia su una superficie di 3 m2, dicendoci quanto sarebbe stata adatta a questo piccolo spazio, senza la necessità di costruire una passerella che ingombra più di quanto risolva.
Così i personaggi vagano in questo mondo instabile tra realismo e simboli che i costumi (abbastanza eleganti) di Aurelio Colombo (autore delle scenografie) traducono : i costumi maschili sono essenzialmente costumi contemporanei che immergono gli eroi nella modernità piuttosto terribile che viviamo, mentre le donne rimangono più distanti e tradizionali, più teatrali in un certo senso, continuando a giocare quei giochi di vicinanza-distanza che sono un elemento essenziale dello spettacolo.

Troppe idee uccidono l'idea, e lo spettatore esce con belle immagini che sembrano un po' inutili, ed è un peccato perché Manuel Renga ha indubbiamente talento.
Le voci

È anche una sfida musicale affidare un'opera del genere a giovani cantanti, in ruoli che spesso vengono affrontati in età matura. Dobbiamo quindi rendere omaggio alle prestazioni dei giovanissimi provenienti dall'Accademia Verdiana, come Melissa d'Ottavi (la dama di Lady Macbeth), Matteo Pietrapiana (Domestico, sicario, prima apparizione) e soprattutto l'eccellente Francesco Congiù nel ruolo del valoroso Malcolm, senza dimenticare Emil Abdullaiev nel ruolo del medico e Caterina Premori nella seconda e terza apparizione.

Nel ruolo di Macduff ritroviamo Matteo Roma, già ascoltato a Pesaro in Moïse et Pharaon (2021) e in Eduardo e Cristina (2023), dove abbiamo apprezzato le sue qualità di controllo, potenza ed eleganza. Le ritroviamo qui, amplificate nella piccola sala di Busseto dove la potenza della voce riempie la sala, con un vero impegno vocale, un fraseggio impeccabile e una spiccata capacità di trasmettere l'emozione del personaggio : ottiene un successo clamoroso e meritato : è senza dubbio uno dei grandi tenori italiani del futuro.

Altrettanto potente e sensibile, altrettanto commovente, altrettanto interiore è il Banco di Adolfo Corrado, ascoltato in particolare a Bergamo in Alfredo il Grande di Donizetti nel 2023, di cui scrivevamo : « Adolfo Corrado è il cattivo di turno e la qualità della sua voce è notevole, per la sua potenza, per la qualità del timbro e della linea, per il buon uso delle modulazioni e del respiro, ma anche per il fraseggio impeccabile e la bella capacità di colorare.» Qui conferma queste qualità di linea, controllo, fraseggio, ma anche intensità nel caratterizzare il personaggio. La sua aria « Come dal Ciel precipita…» è uno dei momenti più belli della serata. Matteo Roma e Adolfo Corrado, due nomi da seguire con molta attenzione.

Il ruolo temibile di Lady Macbeth è stato affidato alternativamente a Marily Santoro, che ha cantato nella prima, e Maria Cristina Bellantuono, che ha cantato in quest'ultima rappresentazione. Conosciamo le insidie di un ruolo che nemmeno le cantanti più esperte riescono a superare. Non è una questione di mezzi, ma di colore vocale, di espressività e, soprattutto, di intensità. Maria Cristina Bellantuono ha una voce aperta e solida, ma non ha ancora l'interiorità necessaria per incarnare un ruolo in cui anche una voce alla fine della carriera può fare meraviglie con stile : ricordiamo Jennifer Larmore a Ginevra una quindicina di anni fa, che aveva stupito solo con la sua presenza e la sapiente gestione di una voce crepuscolare. La voce qui non ha nulla di crepuscolare, al contrario, ma a volte pecca di stabilità, ma soprattutto di espressività, troppo monocromatica, troppo fissa in alcuni momenti. La performance non ha nulla di scandaloso, ma manca di profondità, di spessore, di tensione, insomma di tutto il rilievo necessario al personaggio.

Mentre Vito Priante ha assicurato con grande successo le prime tre rappresentazioni, il Macbeth di quest'ultima era Andrea Borghini, con la difficoltà intrinseca di riprendere un ruolo per una sola rappresentazione. Lo avevamo visto su questo stesso palcoscenico nel ruolo di Amonasro nell'Aida di Zeffirelli nel 2019 e lo conosciamo soprattutto per la sua lunga appartenenza alla compagnia della Bayerische Staatsoper di Monaco. Ritroviamo il baritono agile, la voce ben proiettata, un po' esitante e neutra all'inizio, ma che poco a poco acquista sicurezza ed entra nel ruolo. Così tutta la seconda parte è molto più vissuta, sentita, incarnata. Bisogna riconoscere che inserirsi in un ruolo e in un cast costruito per un altro non è così facile, anche se senza dubbio doveva servire da cover per le altre rappresentazioni. Nel complesso se la cava molto bene, in particolare nel monologo finale « Mal per me che m'affidai », che è la particolarità della versione del 1847, nella sua tragica aridità, magnificamente accompagnato dall'orchestra.
La direzione musicale
Nella buca, alla guida dell'Orchestra Giovanile Italiana, Francesco Lanzillotta, uno dei direttori italiani più interessanti, che qui affronta Macbeth nelle particolari condizioni di una buca ridotta e di una versione meno rappresentata. Si apprezza innanzitutto la chiarezza dell'esecuzione e il suo rifiuto assoluto di compiacimenti, senza esitare a produrre suoni stridenti, lasciando trasparire gli aspetti aspri della partitura, rifiutando i manierismi e privilegiando soprattutto una lettura acuta e tragica. Il risultato è un'orchestra molto presente, molto teatrale, che non copre mai i cantanti (cosa che in questa sala potrebbe accadere), ma li sostiene e conferisce alla partitura di Verdi colori innovativi, nel senso che Macbeth rappresenta nel 1847 un salto musicale in un'altra dimensione. C'è qui la volontà di cercare colori piuttosto cupi, di privilegiare una certa aridità, insomma, di disegnare un universo inquietante e oscuro che si adatta abbastanza bene alla visione scenica di Manuel Renga e a questa versione, senza mai rinunciare alla dinamica : impressionante a questo proposito la scena della battaglia finale, prima del monologo di Macbeth, vorticosa, brutale, netta, tagliente. Un magnifico momento di teatro e musica.

Nel complesso, un Macbeth forse un po' al di sotto delle aspettative sceniche, ma che rimane un bellissimo momento verdiano, sulla sua terra, e che soprattutto rende giustizia alla versione princeps, che lungi dall'essere un tentativo prima del capolavoro del 1865, offre uno sguardo diverso sull'opera, forse più duro, più selvaggio, quasi più shakespeariano.
