In Francia, l'instabilità politica e le incertezze di bilancio, a cui si è appena aggiunto il furto di gioielli nella “Galerie d’Apollon” al Louvre, allontanano il dibattito culturale dai titoli dei giornali, bisogna dire che la Cultura (a parte i regolari appelli – spesso di stampo politico – alla conservazione del patrimonio, come se il patrimonio fosse l'unico ambito culturale da invocare) non è una preoccupazione dei nostri governanti, né tantomeno dei loro oppositori.
Altrove ci sono qua e là alcune polemiche che alimentano l'attualità. In Germania ci si diverte a spaventarsi con Bayreuth in bancarotta che chiuderebbe i battenti nel 2028, in Austria si polemizza ancora sul Festival di Salisburgo e sulla nomina di un responsabile per il teatro, mentre in Italia il grande evento è stato (e rimane) la nomina molto “politica” della direttrice d'orchestra Beatrice Venezi come direttrice musicale della Fenice di Venezia, che provoca una forte opposizione da parte delle forze vive del famoso teatro, dalle quali i responsabili locali (sindaco e sovrintendente) non sanno come districarsi.
Eppure, in Italia, le nomine dei responsabili dei teatri sono sempre state politiche, da decenni. Ma decenni fa si procedeva a una sorta di ripartizione degli incarichi, dal nome altisonante di lottizzazione : un sovrintendente democristiano, un direttore artistico sostenuto dal Partito comunista e un direttore musicale simpatizzante dei socialisti… sto caricaturando, ma era così che funzionava.
Da quando in Italia c'è una maggioranza stabile, il processo continua ad essere applicato, ma sotto forma di “monolottizzazione”, ovvero i responsabili culturali nominati – e per quanto ci interessa, i direttori dei teatri lirici – provengono tutti più o meno dalla galassia neofascista in senso lato, puri o convertiti per “necessità”. È il caso di quello di Venezia, che ha nominato al più presto Beatrice Venezi direttrice musicale, che aggiunge al suo talento quello di essere una buona amica di Giorgia Meloni.
La polemica non accenna a diminuire, sono intervenuti anche il grande Riccardo Muti e Fabio Luisi, inutile aggiungere altro.
Altrettanto interessante è la nomina del neo-sovrintendente del San Carlo di Napoli, che succede a Stéphane Lissner, Fulvio Macciardi, nominato dopo una polemica che ha opposto il sindaco di Napoli Gianfranco Manfredi ai rappresentanti della Regione Campania (di centro-sinistra) e del Ministero (di estrema destra), alleati oggettivi… Il nuovo manager, che in precedenza è stato sovrintendente del Comunale di Bologna, afferma un senso di innovazione che lo onora fin dalla sua prima intervista.
Alla domanda su come sarà il “Suo” San Carlo, risponde : “Un grande teatro dove la storia e la tradizione saranno valorizzate nel rispetto dei canoni classici”. Aggiunge "Non sono contrario alle sperimentazioni, ma in luoghi specifici. Alcune provocazioni viste in passato richiedevano altri contesti”.
Con parole velate, insinua che Lissner fosse un provocatore, che tuttavia ha attirato verso questo magnifico teatro un pubblico che da tempo lo aveva abbandonato. Ma anche in questo caso, a prescindere dalle critiche, in questo discorso ritroviamo tutti i conformismi che stanno causando la morte del teatro in Italia, in particolare l'opposizione tra « canoni classici » (chi mi dirà cosa significano?) e « provocazioni » (chi mi dirà ancora cosa significano e, soprattutto, a quali spettacoli visti al San Carlo negli ultimi anni si riferiscono?). Parlare ancora oggi di « provocazioni » riguardo ai registi che hanno lavorato a Napoli negli ultimi anni (Krzysztof Warlikowski, Dmitri Tcherniakov, Claus Guth, Vasily Barkhatov…) o definirle « sperimentazioni » dimostra o una colpevole ignoranza o una visione miope di un tipo di teatro che oggi irrora tutta l'Europa e che non ha mai spaventato nessuno, salvo anime sensibili come quella del Maestro Macciardi …
Macciardi ricorda giustamente che il San Carlo è stato un teatro di creazione(i), ma evidentemente ne parla al passato, come se ancora una volta il patrimonio dovesse essere la modernità… “È il più antico teatro d’Europa, che si appresta a festeggiare i suoi 300 anni, e la mia idea è quella di ripercorrerne la storia”. Ricordando che lo stesso Lissner aveva voluto immergersi in questa storia, ma aprendola alle visioni di oggi (vedi l'intervista che ci aveva concesso all'epoca), non si può fare del teatro solo il rifugio di un'identità secolare : è ovvio che ognuno abbia una propria personalità, ma non nel conformismo di un conservatorismo polveroso affermato qui con tanta ingenuità.
Ora, ovviamente, il modo migliore per mantenere il San Carlo un teatro di grande prestigio è quello di radicarlo nella modernità, in linea con ciò che ne ha fatto la gloria, teatro “moderno”, di “creazione” dal 1737 (anno della sua costruzione) al grande periodo romantico, ovvero più di un secolo. Trasformarlo in un museo della modernità del passato è solo un modo per mummificarlo… soprattutto in una città come Napoli, dove il teatro in tutte le sue forme sono fondamentali.
Se c'è una crisi di pubblico all'opera, è anche perché da decenni i programmi ruotano attorno a una trentina di titoli standard e i teatri meno grandi, in particolare in Italia, ma non solo, propongono Tosca, Traviata e Pagliacci, che dovrebbero attirare il pubblico. Ma è solo disprezzare lo spettatore credere che non abbia alcuna curiosità : lo dimostra il successo attuale delle forme barocche e dei pasticci, lo dimostra anche la programmazione di alcune opere liriche nelle regioni francesi (Nancy, Rennes…). Se c'è una crisi nell'opera, è innanzitutto perché si è trascurata l'“educazione” del pubblico e lo si è considerato solo come una vacca da mungere buona per comprare i biglietti.
Laddove il pubblico è stato abituato a programmazioni varie e visioni aperte (ad esempio a Lione, ma anche a Francoforte, ad Amsterdam e a Roma da qualche anno), si mantiene ad un ottimo livello.
No al conformismo e ai paraocchi, viva la curiosità e l'apertura mentale !
