Alcune osservazioni preliminari
Nel 1822, Rossini lasciò l'Italia per Vienna, poi per Londra, quindi per Parigi, dove si stabilì, e era allora il compositore di punta, che esercitò sui suoi (giovani) rivali un fascino misto a invidia. Vale tra l’altro per Giacomo Meyerbeer (di un anno più anziano), che aveva per lui un'ammirazione sconfinata, e per Gaetano Donizetti, che sognava di sfidarlo sul suo stesso terreno.
È un caso, dunque, che nel 1822 questi due compositori, che cercavano entrambi di farsi strada in Italia, abbiano presentato due opere sullo stesso tema, Zoraida di Granata a Roma e L'Esule di Granata alla Scala ?
È un caso che l’ambientazione eroico-esotica possa ricordare da lontano alcune opere recenti di Rossini, come Zelmira (Lesbo) Maometto II (Eubea-Negroponte), o anche Mosè in Egitto ?
Non è nemmeno una coincidenza in un'Europa culturale in cui temi, idee e testi circolano rapidamente e in cui lo scrittore Florian, oggi più noto in Francia come favolista, pubblica nel 1792 Gonzalve de Cordoue, che si rivelerà popolare tra i librettisti e i compositori d'opera. In Francia, è il caso de Les Abencérages di Cherubini del 1813, un'opera in tre atti che trionfa alla prima e poi cade nell'oblio come molte opere dell'epoca.
In un certo senso, è un avatar del « romanzo di salvataggio » (“roman à sauvetage”), così popolare alla fine del Settecento, in cui una giovane ragazza innamorata di un giovane eroe è tenuta prigioniera da un cattivo (molto, molto cattivo) che vuole sposarla, per poi essere liberata dal suo eroe, che è superbo e generoso, quasi eccessivamente, come vedremo nel nostro caso…
Lodoiska di Cherubini, il modello di tutti (già nel 1791), Fidelio di Beethoven, Torvaldo e Dorliska di Rossini ecc… sono le numerose varianti di queste « pièces à sauvetage » che facevano mancare il fiato al pubblico ed erano di gran moda negli ultimi anni del Settecento e nei primi dell'Ottocento. E non dimentichiamo La Lodoiska di Mayr, maestro di Donizetti (Venezia, 1796).
Infine, non possiamo non citare Le avventure dell'ultimo Abenceragio di Chateaubriand, novella scritta nel 1807 e pubblicata nel 1826, il cui eroe si chiama Aben-Hamet, come quello di Zoraida…
Gli ultimi anni del Regno di Granada alla fine del Quattrocento (siamo nel 1480), sotto la pressione degli spagnoli, con le sue meraviglie architettoniche che facevano sognare, erano uno scenario esotico ideale per lo sviluppo di storie melodrammatiche e permettevano evocazioni colorate di un mondo scomparso che era stato incredibilmente brillante. C'erano gli ingredienti vari dell’ epopea, i romanzi cavallereschi, l'ambientazione meravigliosa e misteriosa di un mitico mondo arabo-andaluso, e l'idea (grazie alla “pressione” spagnola) che presto il “giusto ordine” avrebbe finalmente regnato, come se anche Granada stesse cadendo per le sue debolezze e lacerazioni interne.
Insomma, un soggetto concepito nel 1792 da Florian, un soggetto che aveva stranamente la stessa età di Rossini (nato nel 1792) o di Meyerbeer (nato nel 1791) e che evidentemente continuava a funzionare e far sognare.
Poi c'era la forma seducente, quella dell'opera più spettacolare con coro, resa popolare da Rossini a Napoli, ma anche da Cherubini a Parigi (che non dobbiamo mai dimenticare) e da Spontini a Parigi e a Berlino, che stiamo (ri)scoprendo attualmente, e la cui influenza fu molto importante, in particolare su Meyerbeer e su un certo Richard Wagner.
Il giovane Donizetti, che aveva una certa intuizione e conoscenza del mondo musicale, e che era stato ben allenato e formato dal suo maestro Mayr, cercava quindi di “posizionarsi” per offrire un'opera che sarebbe stata il suo primo trionfo e che merita molta attenzione per vari motivi.
Innanzitutto la trama, che appare complessa ma che in realtà lo è meno di quanto sembri : Come abbiamo già sottolineato, si tratta di un avatar di una « pièce à sauvetage » in cui la giovane Zoraida è innamorata del generale Abenamet, ma si trova intrappolata sia dal folle amore del cattivo Almuzir, l'usurpatore che ha assassinato il re, padre di Zoraida, per prenderne il posto, sia dalle rivalità interne dei clan, poiché Abenamet appartiene agli Abenceragi, un clan nemico di quello del re. In breve, l'atmosfera è quella della fine di un impero, mentre gli spagnoli assediano la città.
Almuzir, con la complicità del suo cattivo consigliere Ali, nomina Abenamet generale in capo e gli ordina di andare a combattere gli spagnoli, affidandogli lo stendardo di Granada. Se non lo avesse riportato, sarebbe stato condannato a morte.
Abenamet vince, ma senza lo stendardo (che Ali aveva fatto cadere nelle mani degli spagnoli), viene accusato di tradimento e condannato a morte. Zoraida decide quindi di sposare Almuzir, a patto che Abenamet venga risparmiato.
Ali ascolta una conversazione segreta tra Zoraida e Abenamet, li sorprende ma Abenamet riesce a fuggire mentre Zoraida viene fatta prigioniera, a sua volta accusata di tradimento e promessa al rogo… a meno che un guerriero non si dichiari pronto a difendere l'innocenza della giovane donna in un duello contro Ali.
Il guerriero mascherato si presenta e vince il duello : è ovviamente Abenamet, una sorta di Zorro che scagiona Zoraida.
Si potrebbe intuire che la storia sia finita lì… Non è così, perché Abenamet è così buono, giusto e grande che calma il popolo che vuole farsi giustizia da solo contro Almuzir l’usurpatore. Il re è cattivo, ma è il re, quindi Abenamet si sottomette e gli dà anche la mano di Zoraida … Nel 1822, dopo il Congresso di Vienna, era meglio stare dalla parte delle monarchie …Il re pero, colpito da tanta lealtà e grandezza, rinuncia a Zoraida, la consegna ad Abenamet, tutti sono felici, i due si sposano e Abenamet felice può cantare il suo ultimo rondò …
Certo, si potrebbe pensare che questo finale sia stato un po' eccessivo, in stile “grandi principi e grandi sentimenti”, fatto solo per il “lieto fine” dell'opera, ma in realtà, ancora una volta, i valori dell'umanesimo, del perdono e della lealtà – in altre parole, i valori dell'Illuminismo – persistono nell'opera stranamente mescolati a quelli del dopo congresso di Vienna. La fedeltà al re, chiunque esso sia (è un obbligo politico) e l'affermazione del perdono e della clemenza del re (anche questo è un gesto politico mai gratuito) sono i due principi principali consolidati dal congresso di Vienna. D’altra parte Almuzir, che era un personaggio orribile, un assassino e un usurpatore, viene colto alla fine da una sorta di “grazia” umana. La questione del perdono, così importante per Mozart, e i valori dell'Illuminismo continuano a inondare le opere ben oltre la rivoluzione, ben oltre il periodo napoleonico e dopo il Congresso di Vienna… È interessante vedere come le idee che hanno agitato il Settecento permeino anche tutti i Paesi che sono tornati a un “ancien régime” che non durerà, visto che le rivoluzioni dell’Ottocento sono in arrivo…
L'aspetto affascinante di questa storia è che contiene sia ingredienti che la rendono popolare, sia ingredienti più ideologici o politici.
Innanzitutto, è un grande spettacolo, un'evocazione esotica che fa sognare (come ci fa sognare l'Alhambra di Granada), un mondo scomparso che ha alimentato le grandi epopee medievali (gli eroi cristiani contro i saraceni), che ha lasciato anche l'idea di una grande civiltà che viene celebrata ancora oggi, una sorta di alimento per fumetti o manga che possono intrattenere il pubblico e portarlo in “viaggio”.
Poi, come abbiamo visto, è una storia a lieto fine, in cui il monarca “cattivo” viene colpito da una grazia che gli fa riconoscere che esistono esseri più grandi e più nobili di lui, e che i valori umanistici sono superiori all'invidia, alla sete di potere o al desiderio di dominare le donne (Zoraida in questo caso).
Questa è una vera e propria variazione sul tema del “salvataggio” di cui sopra. Per fare un po' di caricatura, un cattivo tiene in ostaggio una ragazza povera e fragile che viene salvata da un eroe-Zorro.
Ma la vera differenza qua è che Zoraida non è una ragazza fragile. Anche lei è un personaggio forte, resistente, una donna che si fa valere, che rifiuta la menzogna e la finzione, anche se questo le costa la vita. È, come recita il titolo del musical berlinese di Oscar Straus del 1932 Eine Frau, die weiß, was sie will, una donna che sa quello che vuole. Non è l'eroina che viene salvata perché è debole e prigioniera : è prigioniera perché ha detto di no e rischia il rogo, ma ci andrà con coraggio, fedele a se stessa.
Anche Zoraida è un'eroina dell'Illuminismo, direi addirittura un'eroina di Rousseau, per la quale la verità è più importante della vita, per la quale l'essere e l'apparire devono unirsi nell'umanità, per la quale non c'è spazio per la menzogna o la codardia. Quando si sottomette ad Almuzir accettando di sposarlo, pur avendolo sempre rifiutato, è solo per salvare Abenamet, e tutti in scena ne sono consapevoli : si dona a lui come un sacrificio. Quando sta per essere bruciata viva, sa di essere innocente e afferma la sua innocenza, ma è pronta a compiere il sacrificio. Zoraida è una vera eroina, fiera ma naturale ed eroica per la sua naturalezza, con uno stile nuovo e insolito. È anche una figura nata da nuove idee, che Olympe de Gouges, la teorica del femminismo rivoluzionario (che finì sulla ghigliottina) non avrebbe disconosciuto.
La produzione
La visione di quest'opera è quindi piuttosto caleidoscopica : quale strada scegliere ? Quella del pittoresco arabo-andaluso, con colori moreschi, donne velate, fontane e palme ? O quella del dramma e del potere esorbitante ? O la guerra alle porte che distruggerà tutto ?
Il regista Bruno Ravella ha optato di dirottare la storia, trasponendo l'opera in un mondo contemporaneo di guerra, violenza e distruzione : le note iniziali, molto cupe e beethoveniane, sono accompagnate dalla visione di Almuzir che spara a bruciapelo a due uomini torturati, il coro è composto da soldati in tenuta da guerra.
La bella scenografia di Gary McCann (che ha disegnato anche i costumi) è un cortile moresco bombardato e in rovina, illuminato molto bene per tutta la serata da Daniele Naldi.
Assedio di Granada ? No, piuttosto un altro assedio, molto più recente, molto più vicino a noi e altrettanto distruttivo, quello di Sarajevo, visto che il set è quello della biblioteca di Sarajevo, costruita in stile moresco alla fine dell'Ottocento.
Bruno Ravella traspone questa storia a fumetti nella guerra dei Balcani, più spaventosa e le cui ferite si consumano ancora oggi. In questo modo, il regista attualizza una trama che rende più violenta che “pittoresca”, conservando un accenno alla cultura musulmana attraverso l'arredamento in stile moresco, ma anche evocando Sarajevo come una città che un tempo simboleggiava una “armonia” religiosa illuminista in cui ortodossi, musulmani e cattolici vivevano fianco a fianco in una Bosnia-Erzegovina pacifica, avatar lontano di una Granada superba, intellettuale, aperta e tollerante.
Bruno Ravella insiste su immagini di rovine e di guerre, siamo in un mondo che sembra stretto tra militari e politici, tra una soldataglia in guerra come abbiamo detto (il coro) e un potere in vestito a doppio petto (Almuzir e Alì). Guerra nei Balcani, forse, ma anche, e questo è senza dubbio nella nostra mente, guerra in Ucraina, tanto più che questo Almuzir è seduto a capo di un lungo tavolo che ricorda quello famoso di Putin.
In questo modo, la sovrapposizione di immagini viene giocata cancellando completamente le radici originarie e il pittoresco.
Il mondo è scarsamente colorato (grigio, nero, traliccio) e i colori torneranno alla fine quando tutto si risolverà, e Zoraida, con il suo vestito blu, si distingue un po' dal resto, perché anche Abenamet indossa un'uniforme da soldato. Zoraida sembra essere l'unica “umana”, una semplice donna comune in questo mondo dove tutti sembrano assumere ruoli preconcetti, il gentile, il cattivo il politico, il soldato, il traditore, ed è questo che le dà forza, anche se alcune scelte di messa in scena (il doppio di Zoraida che appare di tanto in tanto) sembrano poco chiare. In questo paesaggio, infatti, le donne (Ines, la cameriera, una schiava spagnola forse convertita) appaiono come il prodotto di un'umanità ordinaria, mentre gli uomini, compreso Abenamet, sono coinvolti in una vertiginosa serie di opposizioni e violenze. Ancora una volta, una lettura molto “moderna” della situazione.
Da un punto di vista strettamente teatrale, i movimenti appaiono meno caricaturali rispetto al Roberto Devereux visto il giorno prima, e senza essere marcatamente preciso, il lavoro sui personaggi è un po' più elaborato : Zuzana Marková nei panni di Zoraida è commovente e precisa, impegnata nella recitazione così come la Inès di Lilla Takács ; le donne sembrano aver interessato di più il regista e sembrano anche più a loro agio nei loro ruoli.
Gli uomini (o i ruoli maschili) sono più caricaturali, a cominciare da Almuzir, anche se Konu Kim è più cantante che attore, e da Ali (Valerio Morelli), a cui gioverebbe essere meno rigido in scena. Cecilia Molinari (Abenamet) è forse la più commovente e la più impegnata nella recitazione e nel canto ; riesce a trasmettere qualcosa non appena appare. Ma tutto questo ha più a che fare con le personalità degli interpreti che con la mano del regista.
C'è però qualcosa di più sensibile che forse mi ha infastidito in questa visione. È che tra la scelta di trasposizione del regista e la musica di Donizetti ho avvertito una sorta di frattura, come se qualcosa non combaciasse sempre. La musica di Donizetti è spesso vivace, ritmica e variegata, e si adatta a un affresco fumettistico un po' pittoresco – come ho sottolineato prima. Altre volte è più cupa, profonda, inquietante e si adatta alla visione di Ravella. Questa ricchezza musicale e questa varietà di colori, tinta di ironia, che è una caratteristica di questa musica forse difficile da trasmettere, non si riflette nella messa in scena uniformemente tesa e monocromatica di Bruno Ravella, e spesso ho sentito una contraddizione tra ciò che vedevo e ciò che sentivo. Forse questa storia aveva anche bisogno di un'ambientazione più ampia e meno “intima” di quella del Teatro Sociale, come un preludio al “Grand-Opera” del futuro o anche di un tocco di distanza… c'è qualcosa nell'allestimento di Ravella che stride con l'atmosfera musicale creata da Donizetti, come un anello che non si collega del tutto.
Resta il fatto che questa musica incredibilmente varia e ricca mi è arrivata come un tuono in un cielo sereno e ora fa parte del mio universo musicale, il mondo del mio cuore. Sia benvenuto quell’inaspettato Donizetti.
Gli aspetti musicali
Non si tratta di immergersi in questa musica come un musicologo, cosa che non sono ; altri lo farebbero molto meglio. Si tratta di immergersi in essa come un ascoltatore stupito, che si rifiuta anche di sapere se questo Donizetti singolare è l'ultimo del periodo giovanile o il primo Donizetti del futuro. Non so se un'audizione alla cieca consentirebbe di identificare definitivamente i tratti donizettiani o meno, ma so che molti “intenditori” cercano il Donizetti del futuro come tartufi bianchi nel terreno.
A me interessa invece il Donizetti del presente, il Donizetti del 1822 e del 1824, e il Donizetti che ascolto, stupito, in questa sera del 2024, due secoli dopo, scoprendo una musica che trovo così elaborata, così nutrita di cultura, di quella cultura musicale europea che era appannaggio di tutti i compositori dell'epoca, a partire da Rossini e naturalmente dal maestro di Donizetti, Giovanni Simone Mayr. Mayr, il cui vero nome era Johan Simon, nacque in Baviera nel 1763 e visse per tutta la fine del Settecento, probabilmente massone e comunque influenzato dall'Illuminismo, passando dalla Baviera alla Svizzera, poi all'Italia, prima di stabilirsi definitivamente a Bergamo, dove fu per molti anni, più del suo allievo Donizetti, una figura di spicco della vita musicale. Mayr portava con sé questa cultura europea, quella di un trasmettitore che avrebbe indubbiamente lasciato una forte impronta su Donizetti, che gli dimostrò sempre una grande venerazione.
Così questa musica di un Donizetti venticinquenne si immerge nella tradizione del tardo Settecento di Haydn, di Gluck e del primo Ottocento, essenzialmente di Beethoven (come ho scritto sopra, le cupissime note iniziali della Sinfonia hanno un tono inconfondibilmente beethoveniano, ma rimandano poi anche a Spontini attraverso l'uso dei cori). La storia della musica vista da lontano e con distanza ci porta spesso a saltare “felicemente” il tempo da Mozart a Rossini, mentre la ricchezza dell'offerta musicale lirica del periodo rivoluzionario e napoleonico è singolare : basti pensare all'incredibile successo di Cherubini a Parigi, ma anche di Spontini. Queste musiche sono le radici di ciò che ammiriamo nell’Ottocento, e la musica di Gaetano Donizetti ne è ricca e quindi tutt'altro che superficiale.
Ma certo, certe forme (come l'alternanza di movimenti lenti e veloci della sinfonia), certi tipi di vocalità (il baritenore malvagio), la stessa scelta di una voce femminile “travestita” per Abenamet con il rondò finale riscritto da Jacopo Ferretti, un rondò di gioia e di perdono che ricorda il finale di Cenerentola e il rondò di Angelina, molti elementi e ritmi, respiro e stile, ci riportano a Rossini e in particolare al Rossini serio.
All'epoca (e abbiamo citato anche Meyerbeer nello stesso senso) era difficile pensare di staccarsi dal modello rossiniano, che era più che di moda, che si era radicato nella mente della gente e nei teatri – non dimentichiamo mai che Rossini sarebbe stato il punto di forza di tutte le stagioni teatrali per gran parte della prima parte dell'Ottocento, che alcune stagioni erano composte interamente da opere rossiniane : Rossini era ovunque, nella mente della gente, nei teatri, e naturalmente nelle partiture. E il giovane Donizetti, come Meyerbeer e altri, ne teneva conto, tanto più facilmente perché aveva un'ammirazione così appassionata per Rossini.
È una musica ricca di analogie, moirazioni e riflessioni rossiniane, ma mai copiata (anche se Donizetti , con una strizzatina d'occhio, cita qui Il Barbiere di Siviglia), ed è questo che la rende così affascinante : è ricreazione e reinvenzione, ma mai plagio.
Qui è ancora più emozionante perché è eseguita dall'Orchestra Gli Originali, un'orchestra che suona su strumenti d'epoca, con il suono caratteristico che ne deriva, e che suona in questo modo singolare al Teatro Sociale, che è l'ambiente adatto. Così, attraverso la scelta dell'orchestra, emerge tutta la tradizione di cui abbiamo appena parlato, un suono che ci riporta al passato recente e stabilisce la tradizione del Belcanto nel luogo in cui appartiene e da cui proviene. Anche il Donizetti del futuro ne dipende, anche il Meyerbeer della Grand-Opéra ne è l'erede.
Questa musica è dunque panoramica, offre una visione panoramica degli sviluppi musicali dalla fine del Settecento alla metà dell'Ottocento, perché pensiamo a Gluck o Haydn o Beethoven o Rossini, ma anche al Meyerbeer del futuro parigino, e naturalmente al Donizetti più “grand-opera” della fine della sua carriera. Ci sono ceppi che si sentono, un respiro, forme che stanno per nascere. È emozionante vedere la storia delle forme in divenire.
Per questo non condivido la domanda di Alberto Mattioli nel programma di sala : “Queste opere non sono generalmente considerate opere da direttori d'orchestra”, perché al contrario, per far respirare insieme i ceppi, i rami, le radici e la fioritura, ci vuole un architetto, un direttore d'orchestra che faccia risuonare gli echi. Certo, Zoraida in Granata è un'opera per voci di prim'ordine (allora Donzelli o Pisaroni), ma oggi questo tipo di macchina musicale ha bisogno di un supremo orologiaio, il direttore d'orchestra.
Alberto Zanardi è da tempo un fedele collaboratore del Festival Donizetti, dove è stato assistente di Riccardo Frizza e ha diretto Il piccolo compositore di musica di Mayr al Festival 2023. Svolge il compito con precisione e una sincera preoccupazione di accompagnare e sostenere i cantanti, cercando di rispettare l'equilibrio tra palcoscenico e buca in una sala di volume ridotto dove la sola orchestra (come si sente nella Sinfonia) può rapidamente imporre un suono piuttosto marcato e forse eccessivamente presente.
In realtà, la Sinfonia mostra una reale preoccupazione di far suonare l'orchestra in modo diverso, di far sentire gli echi di questa musica, di far capire ai ritmi e ai respiri quanto Rossini sia anche sullo sfondo. Si sente meno l'orchestra durante l'opera, dove si percepisce il desiderio del direttore di sostenere i cantanti nell'affrontare una partitura di notevole difficoltà. Se la preoccupazione per la “concertazione” era chiaramente evidente nell'ouverture, l'accompagnatore si è fatto sentire di più in seguito, con un uso delizioso e fluido del continuo sul solo fortepiano, poiché le dimensioni della buca impedivano di completarlo con il violoncello.
L'unico problema di rilievo, che non è colpa del direttore, è la marcata imprecisione di alcune sezioni dell'orchestra (i fiati), il che è tanto più un peccato in quanto si tratta di sezioni che richiedono anche un virtuosismo molto “rossiniano”, ma questo è un problema assillante che abbiamo già rilevato gli anni precedenti. La questione dell'orchestra dovrebbe essere presa in considerazione in futuro, se si volesse continuare la tradizione (ottima) di chiamare un'orchestra su strumenti d'epoca per almeno un'opera.
Resta il fatto che Alberto Zanardi ha dimostrato una cura particolarmente attenta nel dare a questa musica il rilievo che merita.
Infine, si è accennato qua e là alla questione del coro, che ritengo importante in quest'opera, anche per il trattamento musicale del testo e per la dizione e l'emissione, e il Coro dell'Accademia del Teatro alla Scala diretto da Salvo Sgrò ne esce come sempre a pieni voti.
Le voci
All'epoca era la legge del genere : per trionfare, un'opera doveva innanzitutto essere uno spettacolo vocale eccezionale. Oggi parliamo di direttori d'orchestra, ma il direttore d'orchestra non si era ancora affermato come figura operistica ; avrebbe dovuto aspettare ancora qualche anno. Così Donizetti ebbe l'immenso Domenico Donzelli come Almuzir, e nel 1822 il tenore Amerigo Sbigoli, che forzò talmente tanto la voce per competere con Donzelli da essere colpito da un ictus e sostituito alla prima dalla cantante Adelaide Mazzanti. Tanto che per la revisione del 1824, il ruolo di Abenamet fu pensato e riscritto per un contralto travestito, la star Benedetta Pisaroni.
La versione del 1824 presentata a Bergamo offriva così il ruolo di Almuzir al baritono Konu Kim, quello di Abenemet al mezzosoprano Cecilia Molinari e quello di Zoraida a Zuzana Marková. A questi ruoli principali si aggiungono quelli della schiava Inès (Lilla Takács) e di Ali (Valerio Moretti), membri della Bottega Donizetti, che hanno ciascuno un'aria. L'unico senza aria è Almanzor, interpretato da un altro membro della Bottega, il giovane basso Tuty Hernàndez, che purtroppo ha poco da cantare.
La Ines di Lilla Takács, con la sua bella presenza scenica e l'aria di successoDel destin la tirannia, è molto valorosa . La sua voce è chiara, giovanile, ben proiettata e la sua dizione limpida,
Valerio Morelli nel ruolo di Alì, la cui duplicità e cattiva natura di traditore si svela gradualmente fino a esplodere nel secondo atto, è un po' rigido in scena, come abbiamo detto, ma si rivela particolarmente interessante dal punto di vista vocale, con un bel timbro da basso cantante, un'ottima dizione e un fraseggio esemplare. Un nome che merita senza dubbio di essere seguito.
Cecilia Molinari, nel ruolo di Abenamet, si impegna a fondo e compone un personaggio credibile e sensibile al tempo stesso, trasmettendo vere e varie emozioni. Dotata di una genuina musicalità e della capacità di esguire agilità fluide e prive di problemi tecnici, supera a pieni voti il rondò finale, anche meglio dell'aria d'apertura, No : nonsi cangia mai, un po' al di sotto delle aspettative. Il fraseggio impeccabile, il timbro seducente, l'omogeneità vocale dal registro grave a quello acuto con una superba gamma nei centri sono molto accattivanti, ma ciò che spicca, soprattutto per questo ruolo, è l'assenza di affettazione, di carineria, la perfetta naturalezza del canto che gli conferisce quell'immediata potenza emotiva. Un'interpretazione davvero pregevole.
Konu Kim è, come a Wexford, Almuzir. Data la mancanza di tenori sul mercato per tali ruoli e la rarità del titolo, era ovviamente necessario approfittare del fatto che il cantante avesse già il ruolo nel suo repertorio. Si tratta di un ruolo da baritenore, che arriva comunque fino al La acuto, quindi lo spettro è enorme, e le arie che gli sono sue sono di lunghezza considerevole, quindi l'interpretazione è da applaudire. Detto questo, ho qualche riserva sul personaggio, che è un po' pallido in scena : sappiamo che è malvagio e “putiniano”, come dimostra la messa in scena, ma nel complesso i movimenti sono rigidi e l'impegno sul palco un po' limitato. Il timbro non è molto seducente (per un cattivo è comunque accettabile), ma soprattutto il canto, tecnicamente molto diligente e molto attento alla precisione, manca di colore e di espressione. Salutiamo l'interpretazione, con i suoi incredibili acuti perfettamente tenuti, meno la perfetta costruzione complessiva del personnagio.
Infine, Zuzana Marková presta la sua voce lirica e soave, particolarmente adatta, al personaggio di Zoraida. La voce è adatta perché è forte e particolare, come si addice a questo personaggio determinato, per nulla etereo ma incisivo. Non ha avuto particolari problemi tecnici, ma è nella seconda aria, l'aria delle rose (ben accompagnata dal violino dell'orchestra) Rose, che un dì spiegaste che ha sfoggiato una tavolozza di colori, una sensibilità, un senso della parola e una tecnica vera e propria che ha sedotto e affermato definitivamente il personaggio. Con il suo canto raffinatissimo, la bellezza naturale del suo timbro e soprattutto la sua intelligenza interpretativa, fa emergere perfettamente quella che è senza dubbio l'aria più interessante e forse più “donizettiana” della partitura. Un'interpretazione all'altezza delle aspettative da parte di un'interprete che non ha mai deluso.
In definitiva, una vera serata d'opera, piena di sorprese, da segnare con la punta delicata di un diamante, un'opera affascinante, attraverso i vari elementi che la compongono e la sua natura coerente eppure ibrida, con un accompagnamento orchestrale molto preciso, attento ai ritmi, ai colori, ai cantanti, e senza alcuna volontà di strafare, ma semplicemente di rendere giustizia a un'opera che lo merita ampiamente, con un cast che nel complesso soddisfa le esigenze di ruoli particolarmente pesanti e difficili.
Tutto ciò rende questa serata senza dubbio la migliore delle tre alle quale abbiamo assistito al Festival Donizetti 2024.