Una parte importante del motivo per cui l'opera è ignorata risiede certamente nel suo impossibile libretto, un indigesto proclama patriottico che smentisce l'idea oggi diffusa di Verdi come umanista. Con la sua aggressiva vena nazionalista, la sua non celata xenofobia e l'esaltazione di valori maschilisti che mal si conciliano con la modernità, si tratta di un libretto goffo, mal costruito e per certi versi ridicolo : insomma, un libretto che, se fosse stato musicato da Wagner, avrebbe potuto portare alla definitiva messa in lista nera del compositore da parte degli odierni strenui difensori del politicamente corretto.
L'interesse de La battaglia di Legnano, oltre alla possibilità di conoscere in prima persona un aspetto poco pubblicizzato di Verdi, risiede soprattutto nella sua musica, a tratti molto ispirata, con un tono elegiaco ed eroico che fa dell'opera un diretto precursore de Il trovatore (le due opere hanno lo stesso librettista, Salvatore Cammarano) e un trio protagonista che potrebbe essere l'antenato di Manrico, Leonora e Luna, anche se qui, al posto della zingara malevola, c'è un basso, comandante dell'esercito nemico, che agisce come incarnazione del male, in quella che è una delle scene più riuscite dell'opera, sia musicalmente che drammaticamente.
Per dare vita a un'opera del genere, che per quanto completa abbia qualcosa di imperfetto, di quasi “incompiuto”, che deve ancora essere cesellato e lavorato (rispetto all'opera omnia verdiana nel suo complesso), occorre un grande direttore musicale che creda nell'opera e sappia darle l'energia e la raffinatezza necessarie, il suo vigore marziale e anche la sua incandescenza emotiva, Sono qualità essenziali, perché ne La battaglia di Legnano, come ne Il Trovatore, abbiamo a che fare con emozioni brucianti, volatili, radicali e inconfessabili, con esistenze agli estremi del possibile, con personaggi enfatici che forse hanno bisogno di essere calmati da una Marescialla davanti a una tazza di tè caldo o a una dose di bromuro. Diego Ceretta, giovanissimo direttore italiano di 28 anni, è considerato dagli intenditori uno dei futuri grandi del mondo della direzione musicale italiana, era anche questo uno dei motivi della mia curiosità.
È giusto dire che la sua direzione d'orchestra non ha nulla da invidiare a quella di Gardelli, che sa coniugare la temperatura emotiva con una chiara preoccupazione per la chiarezza del suono, la precisione dei ritmi e il rilievo dei dettagli della strumentazione. Attento al palcoscenico, sa anche essere un buon accompagnatore per i suoi solisti, e dà alle (numerose) scene corali la solennità, lo slancio e la grandezza che la musica richiede. Inoltre, ottiene una prestazione ottimale dalle grandi forze corali e orchestrali del Comunale di Bologna, che coproduce lo spettacolo. Un direttore d'orchestra da tenere d'occhio.
L'approccio teatrale di Valentina Carrasco, che qui trova forse una delle sue produzioni più ispirate, è un fattore determinante per il successo dello spettacolo. Carrasco ha capito che una lettura letterale del libretto sarebbe stata inaccessibile, improbabile, anche in un'Italia attualmente governata dall'estrema destra nazionalista. Ha quindi capovolto il testo, leggendolo alla rovescia e trasformando la sua messa in scena in una denuncia degli orrori della guerra, annullando le differenze tra italiani e austriaci, tra Milanesi e Comaschi, tra Arrigo e Barbarossa. Quello che vediamo sono esseri umani che si uccidono a vicenda, bei cavalli decapitati dai vari massacri, e ovunque distruzione, miseria e oscurantismo. Gli slogan patriottici assumono il colore di ciò che sono : esercizi di fanatismo collettivo, gesticolazioni di primati territoriali che lottano fino all'assurdo per un misero pezzo di terra.
Non c'è alcun tentativo di analisi approfondita dei personaggi, che probabilmente non sarebbe comunque fattibile dato il materiale di partenza, quindi la drammaturgia dello spettacolo viene presentata così com'è. Forse il punto più interessante è la rappresentazione del Barbarossa come un grande guerriero, in sella a un potente cavallo, per certi versi (o nella sostanza) esattamente come i suoi avversari, ma ancora più glorioso di loro.
Il cast, pur non essendo eccezionale, è più che degno e dimostra una pertinenza stilistica che fa onore al festival. Antonio Poli si ispira chiaramente al modello di Carreras ; il timbro è molto vicino a quello del tenore spagnolo, così come il fraseggio eroico e generoso, ma in definitiva belcantistico, senza cedere agli eccessi del verismo oggi tanto diffuso in Verdi. La voce si estende generosamente, ma gli acuti sono preoccupantemente rigidi e legnosi.
In Lida, Marina Rebeka trova un ruolo che si adatta perfettamente alla sua sensibilità di interprete e alle sue attuali capacità vocali. Lo risolve alla maniera della già citata Leonora ne Il Trovatore, affidandosi a momenti di canto più intimi, sensibili e pacati, mentre le sequenze di bravura, affrontate con dignità, non hanno l'impatto desiderato, essendo la voce talvolta sovrastata dal coro e dall'orchestra. Stoyanov si affida alla sua esperienza e alla sua padronanza stilistica per ritrarre un Rolando archetipico, capace di soddisfare le molteplici esigenze di un baritono lirico verdiano, notevole soprattutto per l'eleganza del fraseggio e la finezza del timbro. Riccardo Fassi dà il giusto rilievo alla breve apparizione di Barbarossa, con nobili colori e un fraseggio ben cesellato. L'ultima delle tre rappresentazioni dell'opera al Festival è stata un grande successo e la sala era quasi piena. Una proposta che si adatta perfettamente al ruolo di un festival dedicato a Verdi.