Giuseppe Verdi (1813–1901)
Attila (1846)
Dramma lirico in un prologo e tre atti
Libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell'Accademia Teatro alla Scala

Nuova produzione Teatro alla Scala

Direttore Riccardo Chailly
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D‑wok

 

Attila Ildar Abdrazakov
Odabella Saioa Hernández
Ezio George Petean
Foresto Fabio Sartori
Uldino Francesco Pittari
Leone Gianluca Buratto

 

Teatro alla Scala, 14 dicembre 2018

Uno degli orientamenti attuali della politica artistica della Scala è il “ritorno” del repertorio italiano, il DNA di questa istituzione, per reazione alla politica di Stephane Lissner, considerata non abbastanza idiomatica. A dire il vero si tratta di un appello ricorrente alla Scala, lanciato da Riccardo Muti al suo insediamento (inaugurazione con un Nabucco simbolico con bis del “Va pensiero”) e da tutti coloro che protestano in ogni modo contro la programmazione di questo teatro da anni…Il cartellone recente dedicato al repertorio italiano- Puccini, Giordano,Verdi- non ha peraltro arginato la crisi di pubblico che affligge l’istituzione.

Poco importa, la Scala ha aperto la Stagione 2018–19 con Attila, opera del “giovane Verdi” dopo aver inaugurato tre anni fa con Giovanna d’Arco, in una produzione tipica da inaugurazione, spettacolare ad oltranza e annunciata con ampia eco come sempre.

 

Atto primo

 

Ritorno all'Italia

Questa produzione risponde alla volontà di Riccardo Chailly d’imporre di nuovo un repertorio “della casa”, sul versante di Puccini, del Verismo e delle opere di Verdi meno rappresentate, tra cui quelle dette “del giovane Verdi”: nel 2015 fu la rarissima Giovanna d’Arco, non più apparsa alla Scala dal 1865 ; e nel 2018 è stata la volta di Attila, più frequente e la cui ultima produzione scaligera risale solo al 2011 ma ciò nonostante dimenticata (ed è tutto dire!), mentre quella diretta da Muti nel 1991 con la regia di Jérome Savary e protagonista Samuel Ramey è ancora ben in mente a chi la vide e ascoltò.

In questa Stagione, per continuare il filone delle riscoperte, Michele Mariotti dirigerà I Masnadieri, più rara peraltro di Attila, e per rassicurare il pubblico più inquieto, Chung ha ripreso l’eterna Traviata di Liliana Cavani (mentre la geniale produzione di di Dmitri Tcherniakov, fine, intelligente e ben realizzata, è caduta sul campo d’onore delle produzioni troppo d’avanguardia per il pubblico locale). Mentre lo staff dei giovani dell’Accademia si esibirà intorno a Leo Nucci in una ripresa del Rigoletto di Gilbert Deflo. Quattro Verdi, due ben noti e due più rari.

Una produzione spettacolare

La produzione di Davide Livermore, che ha firmato il Don Pasquale della Stagione scorsa, corrisponde esattamente a quanto ci si aspetta da un evento inaugurale. Con la collaborazione di Giò Forma, egli ha concepito una struttura monumentale che riempie la scena, con cambiamenti impressionanti soprattutto all’inizio e presenze di cavalli, di camions : il pubblico se ne riempie gli occhi. L’insieme richiama visioni di desolazione ispirate a Rossellini : la prima immagine, un campo di rovine in fumo, è fra le più riuscite, poi la scena si riempie un po’ troppo. Vi si aggiungono illuminazioni contrastate (di Antonio Castro), talvolta di un rosso aggressivo e sanguinolento che si riferisce al mondo dei fumetti alla Edgar P.Jacobs. Lo spettacolo ci dice che la guerra è orrenda e che Attila è un vero barbaro : i suoi soldati sparano su tutti i prigionieri, donne e bambini, senza pietà, in un modo talmente caricaturale che si può immaginare contenga un poco, solo un poco, di ironia : ad esempio non si sentono gli spari ma se ne vedono i lampi, ancora una volta come nei fumetti.

Orgia a casa di Attila

Per dare all’insieme un colore “moderno”, Livermore ha trasferito questo Attila nell’universo degli anni 40 del Novecento (bei costumi di Gianluca Falaschi), dove un’Italia oppressa (Foresto brandisce ripetutamente la bandiera italiana con fierezza) è oggetto di un invasore selvaggio dai tratti spiccatamente germanici. Ci si asterrà dal commentare le libertà prese con la storia, a meno che i “partigiani” (Odabella, Foresto) agiscano nell’ultima fase del fascismo che è la repubblica di Salò. Ma la festa nel palazzo di Attila con il passaggio del Vitello d’oro, le prostitute e quel mondo preda di una specie di decadenza orgiastica ricorda in modo molto più “gentile” l’universo pasoliniano delle “120 giornate di Sodoma”.

Odabella brandisce la bandiera italiana

In ogni caso sventolare la bandiera italiana mostra che un po’ di tricolore non nuoce ai cuori coraggiosi. Infine, la riproduzione dell’affresco di Raffaello “L’incontro tra Leone Magno e Attila” nella sala di Eliodoro nelle stanze di Raffaello ricorda che il passaggio di Attila in Italia e il suo incontro con il Papa Leone I presso il Mincio, passaggio che ha dato luogo a un certo numero di leggende come la conquista di Aquileia e appunto l’incontro con il Papa Leone I (incontro che Raffaello per motivi politici colloca nei dintorni di Roma) che sono gli avvenimenti sui quali si basa il libretto di Piave. Ma Livermore ne ha fatto solo un quadro sontuoso.

Incontro tra Leone Magno e Attila (Raffaello, Sala di Eliodoro, Vaticano)

Mancanza di senso drammaturgico e di caratterizzazione dei personaggi

Se l’utilizzo dei video è abbastanza seducente, ci sono poche idee drammatiche : i personaggi sono caricaturali, le relazioni tra loro poco elaborate e il personaggio piuttosto ambiguo di Attila non è approfondito. Infatti uno dei punti a mio avviso problematici in questa lettura manichea è che Verdi e Piave non fanno di Attila quel mostro sanguinario che lascia il deserto dietro di sé- leggenda ben radicata in Occidente, mentre in Oriente la sua è una leggenda positiva come testimonia la diffusione del suo nome in Turchia e in Asia. Infatti nell’opera di Verdi, all’inizio Attila è piuttosto benigno, particolarmente con Odabella, e lascia i romani liberi come del resto lascia al loro posto (nella storia) i re che ha sconfitto, a condizione che gli giurino fedeltà. Di tutti i protagonisti il più negativo è il romano Ezio, che cerca l’accordo con Attila per conservare il potere su Roma ed è sempre sull’orlo del tradimento e del doppio gioco. Attila è più leale e più nobile ed ha un rapporto più sensibile e umano con Odabella : alla fine quando lei lo pugnala e lui le dice “E tu pure Odabella”, questa espressione si riferisce chiaramente all’assassinio di Giulio Cesare che mentre Bruto lo colpisce gli dice “anche tu figlio mio”.

Ma la messinscena resta nell’ambito illustrativo senza approfondire la drammaturgia e ciò che potrebbe caratterizzarla… E dunque, in questo ambito nel quale i cantanti restano senza una vera direzione, ciò che rimane è un insieme d’immagini, un’intenzione preliminare  ma nulla di più. Si cerca solo di sedurre impressionando .

Cast solido, dominato  da Ildar Abdrazakov

Musicalmente, bisogna innanzitutto elogiare il lavoro del Coro della Scala diretto da Bruno Casoni, che una volta ancora dimostra il suo alto livello, energia, volume, chiarezza della dizione, emissione : di sicuro resta una delle referenze mondiali dei grandi cori operistici. E qui è particolarmente impressionante, uno dei punti più positivi della serata.

Pochi personaggi si dividono il palcoscenico, i quattro protagonisti : Odabella (soprano), Attila (basso), Foresto (tenore) e Ezio (baritono), più due ruoli di complemento, Uldino lo schiavo di Attila (tenore) e il papa Leone  (basso).

Fabio Sartori (Foresto)

Fabio Sartori

Foresto è Fabio Sartori, un tenore che fin dai suoi esordi si è fatto notare per il timbro chiaro e il sicuro controllo della voce, qualità che delle quali dà ancora prova come Foresto. La voce è possente, la tecnica corretta, il canto sempre esatto e in più, in questa occasione, sfoggia un’autentica duttilità. Con quella di Abdrazakov, la sua è senza dubbio la voce più convincente della serata. Ma scenicamente è un po’ goffo, gli manca la prestanza che il giovane Foresto, patriota impegnato nella guerra contro Attila, dovrebbe possedere. Tuttavia, pur senza il carisma richiesto dal ruolo, la sua prova resta convincente.

George Petean (Ezio) e Ildar Abdrazakov (Attila)

George Petean

Anche l’Ezio di George Petean è un personaggio solido. Sono note le qualità del baritono rumeno, a cominciare dalla dizione perfetta, dal fraseggio esemplare e dallo stile, qualità che lo rendono impeccabile dal punto di vista vocale. Ciò nonostante la sua prestazione, tecnicamente impeccabile, non trasmette al canto una vera vibrazione vitale e rimane un po’ incolore.  Inoltre, come a Sartori, gli fa difetto un po’ di carisma scenico. Infine, il ruolo è leggermente superiore alle sue possibilità e, se l’Aria del secondo atto “Dagli immortali culmini” è perfettamente eseguita cesellando le parole con il suono, la cabaletta “E’ gettata la mia sorte”, eseguita con il da capo, guadagnerebbe in fluidità se cantata con maggiore energia e l’acuto finale (non scritto) rivela che il canto non è naturale. Ma sono piccolezze sulla prestazione di un interprete di buon livello, affidabile ed elegante, che non riesce a raggiungere la prestazione ottimale solo perché non sa dare più colore al suo canto, che resta un po’ piatto.

 

Saioa Hernández
La parte di Odabella (per la quale 27 anni fa alla Scala Cheryl Studer fu abbondantemente buata), ruolo temibile come quelli di Abigaille e di Lucrezia Foscari, ruolo epico che richiede una tensione permanente e che si apre su un’Aria impervia qual è “Santo di patria…”, è affidata alla giovane Saioa Hernandez.  La sua voce ha indiscutibilmente corpo ed è ben proiettata, molto  omogenea, dalla dizione chiara. Tuttavia non ha la vibrazione e il colore richiesti da questo ruolo e il canto resta freddo, come appare evidente nella romanza “ Oh, nel fuggente nuvolo”, eseguita senza problemi tecnici ma priva di calore e di anima.  Due notazioni che la riguardano sono da fare : da un lato i tempi adottati dal direttore e il suo serrato controllo spiegano forse questo canto possente che non decolla ; dall’altro si può immaginare che cosa rappresenta per un giovane soprano cantare un tale ruolo all’apertura di una stagione della Scala, dal momento che in precedenza ha cantato solo in teatri di minore importanza. Sicuramente non ha ancora l’agilità vocale e scenica richiesta ma possiede largamente ciò che occorre per fare rapidi progressi. Aspettiamo.

 

Ildar Abradzakov

Non è questo il caso di Ildar Abdrazakov che, senza raggiungere la perfezione di Ramey, dimostra di essere oggi l’Attila del momento. La sua voce ha acquistato spessore, con un appoggio più forte, acuti perfettamente dominati, uno spettro ampio di note dal registro grave sempre superbo, e una omogeneità vocale invidiabile con momenti d’interiorità più marcati (nell’Aria “Mentre gonfiarsi l’anima” in cui racconta l’apparizione dello spettro) alternati ad accenti d’eroismo che nella cabaletta segna un momento epico, splendido, entusiasmando il pubblico. Abdrazakov non ha attualmente rivali in questo ruolo, che domina con il fraseggio, l’emissione, l’intensità ma anche con la varietà dei toni e dei colori permettendogli di rendere la complessità del personaggio e di farlo apparire più umano di quanto lo si è conosciuto.


Una direzione musicale che non riesce sempre a convincere 

Riccardo Chailly ha adottato l’edizione critica di Helen Greenwald della Chicago University Press e forse i tempi- come nel Rigoletto di Gatti all’Opera di Roma- sono più lenti di quelli abituali.  E’ ciò che colpisce per prima cosa in un’esecuzione perfettamente a punto, con un’orchestra della Scala che suona come nei suoi giorni migliori. A questo tempo volutamente rallentato corrisponde una certa pesantezza che dà l’impressione di non sollevarsi mai, neppure nei momenti dei grandi concertati come quello che chiude il primo atto. E’un Attila compatto che manca un po’ di respiro : l’aria non vi circola, così come i ritmi ai quali siamo abituati (e che aveva reso bene Rustioni a Lione nel 2017). Ne risulta un’esecuzione che non prende mai il volo pur essendo tecnicamente perfetta, impeccabile ma senza slancio. Tuttavia dobbiamo abituarci a questo Verdi cupo, che si avverte fin dal preludio, potente e ben risolto in un’interpretazione generale concentratissima, che rompe con una certa tradizione. Contrariamente ad altre sue esecuzioni, Chailly mette in campo un volume ridotto, cercando di sostenere le voci, ad esempio nell’Aria d’entrata del primo atto “Oh, nel fuggente nuvolo” che l’orchestra accompagna con una certa delicatezza. Il terzo atto è senza dubbio il più riuscito, con un preludio cupo, trattenuto e seguito dall’Aria di Foresto splendidamente accompagnata con un risalto strumentale incisivo (l’orchestra qui è meravigliosa). Ci sono in questo lavoro elementi davvero eccezionali, altri che sorprendono e altri che lasciano perplessi. Si esce non completamente convinti.

Scena finale : Attila (Ildar Abdrazakov) tra Ezio (George Petean) e Odabella (Saioa Hernández)

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1 COMMENTAIRE

  1. Seguo con interesse Wanderer fin dal suo primo apparire. Le notizie date sono stimolanti e la scelta degli spettacoli recensiti in tempo utile offrono una estesa gamma di scelta. Mi sorprende quindi più che mai la recensione di Attila della Scala a due mesi dalla prima : troppo lunga, contraddittoria, toni fuori luogo e inquisitoria sulle scelte del Teatro. Mi chiedo il perché !
    Distintamente

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